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Autore: Fe_    07/11/2022    1 recensioni
Raccolta di one-shot, spin off dell’interattiva Il Paese delle Meraviglie.
Contiene un po’ di tutto, ma per godersela al meglio è consigliabile leggere l’opera principale- ma non è obbligatorio, non sono mica vostra madre.
Attenzione! All’inizio di ogni capitolo ci saranno le dovute indicazioni, ma alcuni tratteranno tematiche delicate, inadatte alle persone più sensibili o suscettibili. Non saltate direttamente al testo ma leggete anche la presentazione, per favore.
1.Come nascono i cacciatori
2.La danza dei morti
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione, Da VII libro alternativo
Capitoli:
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Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: La danza dei morti
Personaggi: Aimé Antoine Rousseau; Ekaterina Arlovskaya; Felipe Gonzalez; Arabella Sirchka; Nikandros Sirko; Rapuir; Serafim Branko; Isaïe Théodose La Tour d'Auvergne; Manon; Alyssa Campbell; Abigail Schwartz; Rachel Schwarz.
Rating: Rosso
Coppia: ///
Note: Introspettivo | Malinconico | Storico | 4162 parole
TW- Pensieri suicidi, sangue.
Io lo metto per sicurezza, cioè, parliamo di vampiri ed il sangue mi pare ovvio, i pensieri suicidi invece fanno parte di uno dei personaggi e non potevo ignorarlo in questo specifico contesto.
A parte quello, quanto siamo felici di vedere finalmente un capitolo dedicato ai nostri cadaverini preferiti?
Abbiamo un piccolo assaggio di come sono (ri)nati, lo scopo principale era mostrare i personaggi, con le loro famiglie vecchie e nuove e tutto sommato sono quasi soddisfatta? Posso anche dirvi che tutti- meno Alyssa, che è incredibilmente giovane e non ha mai incontrato altri della sua razza al di fuori del suo clan- si conoscono, e forse prima o poi approfondirò ma intanto vi chiedo: come pensate sia stato il primo incontro tra i vari vampirini?
Qui di sotto vi lascio anche un paio di info tecniche, questo capitolo è stato davvero divertente da scrivere ma ¾ del tempo è stato occupato in ricerche sulle varie culture e periodi storici: troverete traduzioni ma anche parole specifiche che non aveva senso o non si potevano tradurre.

¹Sévigné: acconciatura tipica della metà del 1600, prendeva il nome dalla famosa scrittrice francese. Consisteva in una crocchia stretta sulla nuca e riccioli sciolti sulle tempie, che potevano scendere a cavatappi sino alle spalle.
²Filippo: Filippo di Francia, fratello minore di Luigi XIV che governava la Francia in quel periodo. Filippo fu apertamente omosessuale ma, a causa della sua posizione, sposò prima la cugina Enrichetta, principessa inglese, e poi la principessa tedesca Elisabetta Carlotta del Palatinato; continuò tuttavia ad intrattenere relazioni con numerosi amanti in modo anche piuttosto sfacciato, cosa che indispettì le mogli e rovinò dei matrimoni altrimenti relativamente sereni.
³Lapti: (sing. lapot) calzature tipiche dei popoli che abitavano le foreste del nord Europa, erano fatte con una fibra ottenuta dalla corteccia e poi intrecciata. Anche se come scarpe avevano vita breve- dai quattro ai dieci giorni- le vecchie paia non venivano buttate: piuttosto, appese in casa o agli steccati, come portafortuna.
Upyr: vampiro di origine ucraina, ma diffuso nelle leggende di tutta la Russia europea, si tratta di una creatura semi-bestiale che una volta uscita dalla tomba attacca da mezzogiorno a mezzanotte le famiglie, uccidendo e nutrendosi ogni giorno di un membro diverso- dal più giovane fino alla completa cancellazione del nucleo. È descritta come orribile d’aspetto, con zanne simili a sciabole.
Pasca: dolce della Romania, una sorta di pan brioche riempito di formaggio morbido ed uvetta. Si prepara tipicamente per festeggiare la Pasqua ortodossa, che viene preceduta da sette settimane di magra.
Allez, vas-y, mon petit fauve: “Dai, forza, mio piccolo cerbiatto” in francese. Mio piccolo cerbiatto è un un vezzeggiativo, un nomignolo affettuoso, ormai però in disuso.


11 giugno 1665
Parigi, Francia

Ia lama del coltello brilla della luce che viene dalle case e dalle candele nelle lanterne.
         Aimé la guarda assorto, il fascino macabro che mal si sposa con la puzza che sale dalla Senna: il fiume pare una sfocata discarica a cielo aperto oltre l’arma, pur non mettendola a fuoco con la coda dell’occhio i movimenti dei topi e dei poveri che vi vivono attirano di tanto in tanto la sua attenzione.
         Il pensiero di buttarsi, annegare nella merda della società, è tanto appropriato quanto poco invitante per un bastardo come lui, alza lo sguardo e due uomini solitari nella notte puntellano dei pali di legno ai lati della strada principale ed una lanterna tra i due dondola leggera nell’aria calda: li sente parlare di progresso, di illuminazione pubblica contro il crimine nelle strade, ma è certo che se decidesse di scivolare oltre il parapetto non lo noterebbero nemmeno. Sua madre, alla fine, non l’aveva vista nessuno fino al mattino successivo.
         «Una serata magnifica, non trovate?» La voce lo coglie di sorpresa, Aimé sobbalza e si volta di scatto alla sua sinistra dove una signora vestita di blu si è silenziosamente avvicinata. L’abito, decorato sull’ampio scollo a barca e le maniche morbide da un minuscolo disegno di fiori d’argento, è troppo elegante e sofisticato per essere qualcosa di meno di una nobildonna: persino a palazzo raramente ha visto tanta gratuita opulenza, segnata da un dettaglio tanto piccolo da poter essere distinto solo da una distanza minima. Mademoiselle de Montpensier doveva aver commissionato qualcosa di simile di recente, e sapere che la donna più ricca di Francia copiava la sua interlocutrice era chiaro segno che avrebbe dovuto ascoltarla.
         «Se lo dice una dama come voi non può che essere vero. Mi chiedo solo se sia saggio camminare sola di notte.» Le risponde con gentilezza, cercando di distogliere l’attenzione dal coltello che ancora tiene tra le mani. La donna gli sorride, il volto esangue scurito appena dai morbidi ricci della Sévigné¹ che lo mettono in ombra. Non è particolarmente bella, con le guance troppo piene, il naso largo ed occhi luminosi ma neri come un demonio, eppure Aimé si sente stranamente a suo agio.
         «L’inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui.» Gli risponde, il ragazzo accenna un sorriso alla familiare citazione del Bardo che, a cinquant’anni dalla sua morte, è forse solo accresciuto in fama.
         «A maggior ragione dovreste temere di incontrarne uno, madame...?»
«Arlovskaya. Ekaterina Arlovskaya.»
         «Il mio nome è Aimé Antoine Rousseau.»
         «Lo so, come so che avete deciso di non togliere la vita al padre che odiate per non farlo perdere al figlio che invece lo ama. Un gesto… nobile, a suo modo.» Quelle parole, pronunciate con calma serafica, lo scuotono e si ritrova suo malgrado a stringere le dita attorno al manico del coltello. Ancora seduto sul parapetto, scarta un poco indietro; le spalle larghe rigide, il sorriso scomparso dal volto costellato di nei.
         «Non preoccupatevi signor Rousseau, non sono qui per una condanna. Sono qui per farvi un regalo.» Continua, e nemmeno l’innata curiosità del ragazzo può nulla contro l’irrimediabile sospetto che ormai gli si annida nel petto. «Mettete via il coltello e ascoltatemi, vi prego. Vi fareste solo male nell’attaccarmi, alcuni dei miei amati figli mi hanno seguita e non prenderebbero bene il vostro gesto.»
         Ekaterina inclina il capo ed Aimé segue con lo sguardo il gesto: gli occhi castani si soffermano su una coppia in parte nascosta in un vicolo, di cui d’improvviso però sente chiara la presenza ed il modo inquisitore con cui li osservano. A fargli più impressione è l’uomo, con capelli biondi e alto quanto lui, una stazza invidiabile; la donna è ben più minuta, con una massa di capelli neri e mossi che le scendono oltre le spalle sottili. Indossano abiti ben più semplici di quelli della sua interlocutrice, ma anche a quella distanza può notare stoffe costose e lavorazioni pregiate.
         «Sembra più una minaccia che un regalo.» Commenta senza guardarla, ancora intento a studiare i due. Cauto, attento a valutare le poche opzioni di cui dispone, la risata argentina lo coglie di sorpresa.
         «Voglio offrirvi ciò che i coniugi Flamel hanno cercato invano per tutta la vita.» Le labbra sottili della donna si arricciano in un sorriso divertito e malizioso quando finalmente ha di nuovo su di sé l’attenzione del ragazzo. Con gesti volutamente lenti, come un’attrice sul palco, alza la mano e si osserva l’anello che porta all’anulare. «Vedete, mio marito ed io amiamo l’idea di dare una seconda possibilità. Domani partiremo da Parigi in direzione dell’est, dove si trova la mia casa, e vorremmo veniste con noi.»
         Aimé continua a guardare l’anello, un cerchio d’argento con incisi motivi di fiori, e quello che appariva come un damante dalle sfumature rosee montato tra dei petali sottili. Che quella donna possedesse davvero la pietra filosofale? Avrebbe davvero potuto portarla in modo così casuale, parlarne ad uno sconosciuto? La domanda deve essere chiaramente dipinta sul viso, perché Ekaterina continua.
         «Posso chiamarvi Aimé?» Al suo rapido assenso, annuisce. «Vi ringrazio. Aimé, non c’è nulla qui per voi. Non una famiglia, né l’amore di Filippo², noto libertino. Oh, non mi guardate così, è un dono raro, è ovvio non voglia concedere la vita eterna a chiunque.»
         Aimé deve aver sgranato gli occhi o dato altro segno d’incredulità, perché la donna lo sta chiaramente leggendo. Abbassa lo sguardo, poi con un sospiro getta il coltello che ancora teneva stretto nella Senna: scompare senza rumore, senza esser visto, come aveva fatto la sua rabbia qualche ora prima. «Va bene.» Dice solo.
         «Non vi interessa sapere il prezzo da pagare?»
«Sì, ma so già che sono disposto a pagarlo.» Ribatte deciso, ed il sorriso della donna si fa più largo, più bello perché sincero. Aimé scende con un balzo agile dalla parte del ponte, opposto a quello che era il suo obbiettivo all’inizio della conversazione, e si rende conto di quanto sia minuta Ekaterina: se mentre era seduto erano quasi alla pari, ora la domina dal suo metro e ottanta abbondante.
         «Ottima risposta, mio caro. Una forte convinzione è un ottimo primo passo per diventare un vampiro.»

18 dicembre 1722
Cherson, Khanato di Crimea

Della notte precedente ricorda con precisione alcune cose, mentre altre sono inspiegabilmente nebulose.
         L’ansia di rivedere il fratello le rendeva le dita insensibili più del freddo di dicembre, che nella sua terra sapeva essere assolutamente inclemente, e l’aveva costretta più volte a disfare la stoffa che stava tessendo. Nonostante lo sbattere regolare del telaio le desse un minimo conforto, non riusciva davvero a concentrarsi sul suo lavoro: ogni pochi minuti i pensieri la rapivano e portavano nell’immediato futuro, quando avrebbe potuto rivedere il suo amato Nikandros.
         Sa per certo di averlo visto, il momento preciso in cui hanno bussato alla porta e lei si è precipitata ad aprire: la notte era scura, ed i genitori già addormentati, ma Arabella non si è curata della prudenza ed il gemello era lì, il volto magro ed il corpo temprato dalla guerra, pallido contro lo sfondo nero. Aveva un’energia nervosa, poteva vedere il tacco del costoso stivale in cuoio che indossava strofinare per terra come un cavallo pronto a scalciare.
         Ricorda di essersi agitata quando un altro uomo è entrato nel suo campo visivo, di aver visto con la coda dell’occhio i vecchi lapti³ cadere dalla maniglia in chiaro segno di sventura, le mani gelide di Nikandros sul viso e la sua voce prometterle che sarebbe andato tutto bene, doveva solo fidarsi di lui.
         Poi era stato buio, e doloroso, si era sentita debole come non mai. L’uomo le aveva preso la mano entrando, aveva gesti bruschi e lenti allo stesso tempo, le aveva lasciato un terribile bacio e l’ultimo, confuso pensiero, era stato che anche le sue labbra sulla pelle risultavano incredibilmente fredde.
         Il risveglio porta con sé sensazioni confuse, in un certo senso le pare di aver dormito per giorni e in un altro di aver a stento chiuso gli occhi che bruciano come avesse bisogno di bere. Deve sbattere più volte le palpebre per mettere davvero a fuoco la stanza, e le ci vuole un momento per capire che non la riconosce: è una specie di caverna dalle pareti rozze, nuda pietra decorata solo da lampi di colore rugginoso. Di colpo il suo campo visivo viene occupato da Nikandros, che le impedisce di vedere i dettagli dell’ambiente e si muove ad una velocità tale da darle la nausea.
         «Fai ciò che vuoi, Bella, ma non vomitare.» È una strana preghiera quello che il fratello le rivolge, ma il suo stomaco non se la sente di obbedire: in bocca ha un sapore terribile, qualcosa che non sa davvero identificare ma sa per istinto essere sbagliato, pericoloso.
         Fa per voltarsi, scopre che quello in cui ha riposato è un pagliericcio fresco coperto da un panno incredibilmente ruvido e grezzo, ma Nikandros le tiene con delicata forza il viso in modo che non possa voltarsi e compiere il gesto più istintivo. Le bacia la fronte, e si rende conto di come si sia scaldato mentre la vegliava; le carezza uno zigomo alto e la ragazza si rende conto che non c’è un fuoco, una torcia, ad illuminare l’ambiente- eppure, in qualche modo, nella penombra senza colori la sua vista si fa mano a mano più acuta.
         Delle figure si avvicinano, bianche ed emaciate, bisbigli cattivi che l’altra metà del suo cuore scaccia con un gesto rabbioso del capo. «Mia sorella è forte, ce la farà.» Dice con tono che vorrebbe essere più sicuro di quel che appare, una nota di rabbia che Arabella non gli riconosce come propria nella voce: la guerra, pensa, deve averlo logorato e consumato, ma non tanto da non renderlo riconoscibile tra mille ai suoi occhi. Si china, gli occhi color ghiaccio serrati, posa la fronte contro la sua e i capelli, pur corti, le solleticano la pelle; è una buffa sensazione, sente quasi di poter contare ogni ciocca, ogni filo, con precisione.
         «Non capisco, Nikan. Dove…? Cosa…?» Non sa davvero quale sia la più corretta domanda da porre, ma il moro è suo fratello gemello, la sua anima gemella, e le parole non sono mai davvero state necessarie tra i due. Senza accennare a muoversi, o a guardarla, le parla con tono quieto, non dissimile a quando nella stessa stanza si sussurravano i segreti, sotto le coperte, lontane da tutti gli altri.
         «È solo che devi abituarti, mia cara sorella. Sei qualcosa di nuovo, ora, di migliore, siamo tornati uguali. E lo saremo per sempre, non ci dovremmo separare mai più. Ma solo se riesci a tenere il sangue nello stomaco, se accetti la trasformazione.»
         Quelle parole la spaventano, nelle notti d’inverno ha sentito i saggi e gli anziani parlare di mostri che si nutrono di sangue, attaccando le famiglie a partire dal membro più giovane; non può essere il suo Nikandros però, no, lui non la ferirebbe mai e il suo viso è bello come lo ricordava, senza zanne o istinto d’animale a sfigurarlo. Deve aver intuito il filo dei suoi pensieri, perché lo sente ridere piano, il riverbero che dalle mani si traferisce alle guance di lei.
         «No, no Bella, non siamo upyr⁴, niente affatto. Quelle sono bestie create per spaventare gli sciocchi, mentre noi siamo reali. Gli umani saranno per noi greggi, e le loro leggi non ci sfioreranno più. Chiudi gli occhi, resisti, e potrai bere a sazietà.» C’è un luccichio sinistro nei suoi occhi, di un nero che non riconosce: l’azzurro è quasi scomparso, solo un anello sottilissimo che circonda quelle tenebre, ed Arabella trema appena quando si rende conto di non riuscire a riconoscersi nelle sui iridi come avrebbe fatto un tempo.
         «È orribile, Nikan…» La tristezza insita del tono pare intenerirlo, Nikandros si china e le carezza i capelli; vi passa piano le dita, sciogliendole nodi che nemmeno sapeva di avere. Il gesto è rilassante, l’aiuta un poco a calmarsi e rendersi conto di quanto il suo corpo provi disagio. La gola le pare quasi graffiata, come dopo aver corso troppo a lungo nel gelo secco dell’inverno, e lo stomaco è in subbuglio e pesante; le pare di aver mangiato carne avariata.
         «Lo so, Bella, lo so. Riposa, domani sarai più forte che mai.» Le dice, poi copre il suo intero campo visivo per posarle un bacio sulla fronte. Arabella chiude gli occhi e cade in un sonno agitato.

3 maggio 1821
Brailow, Valacchia

Serafim zoppica avanti ed indietro per la stanza, nonostante l’evidente fatica che il gesto gli provoca.
         Poco distante, seduto su una poltroncina, un ragazzino lo guarda e lascia dondolare i piedi le cui punte riescono solo a sfiorare il pavimento coperto dal tappeto; ha un grande sorriso sul volto pallido, come trovasse l’irritazione del più grande divertente. Posa la testa sulla mano ed i ricci scuri acconciati in modo antiquato gli coprono gli occhi, tuttavia Serafim continua a sentirli su di sé.
         «Rovinerai il tappeto, così.» Lo avverte, la voce che vibra d’ilarità trattenuta a stento, e il ragazzo di volta di scatto per lanciargli un’occhiata di fuoco; ha pesanti occhiaie e i capelli biondi, che nel gesto sono scivolati oltre la spalla, paiono spenti e rovinati come avesse vissuto nei boschi per settimane. In risposta al commento batte un poco più forte il bastone su cui si sorregge mentre cammina, ed Isaïe ride di quella mossa infantile e stizzita compiuta da quello che pare il più grande tra i due.
         «Impaziente?» Chiede, un leggero accento che rende esotico il rumeno con cui gli si rivolge, più dolce persino; la risatina che ne segue suona come un trillo di campane. Scende con un balzello delicato e si avvicina all’altro, poi aggiunge: «Sei uno sciocco bambino guerrafondaio.»
         Se essere apostrofato a quel modo da un moccioso che pare avere nove anni lo infastidisce, non lo dà ulteriormente a vedere. Il ragazzo si volta nella sua direzione, il tappeto che soffoca il rumore secco dei tacchetti, poi impugna il bastone come una spada e sferza un colpo con controllata violenza. Il moretto para come fosse una carezza giocosa, lo ferma con il solo palmo della manina che viene appena spostata dalla forza del legno, poi stringe le dita e quello si spezza con un crepitio sordo.
         I due si guardano fissi, Isaïe che ancora sorride e Serafim sempre più gelido, mentre le schegge e parte del bastone cadono a terra.
         «Manon, chérie…» Il resto delle parole non le capisce, perso in un francese che non conosce. La porta si apre e ne entra una donnina anziana in bianco e nero, china su sé stessa come il solo fatto di restare dritta fosse un peso eccessivo per le sue vecchie ossa. I capelli di neve sono chiusi in una crocchia intricata appena macchiata di rosso vivido, unica nota di colore che si ripete in piccole macchie come fiori sulla guancia destra.
         Il profumo caldo, che una volta avrebbe percepito metallico e disgustoso, si sparge nella stanza e al naso gli arriva invitante e dolce come quello della pasca⁵. Istintivamente si lecca le labbra, fissando come un predatore affamato la vecchina e ciò che porta con sé: una ragazzina magra e vestita di un povero abitino grigio, forse per la cenere che le impolverava anche le gote pallide.
         «È giunto il momento del tuo primo pasto. Non mancherà a nessuno.»
«Sei un sadico figlio di puttana.»
         «Offendi la mia nobile madre, mon petit fauve⁶.» Serafim mostra le zanne a quello sciocco appellativo, canini allungati in modo innaturale pronti a colpire. «La Contessa d'Alvernia era tutt’altro che una prostituta, anzi, ed il suo fascino le valse l’amore di re Carlo VII…»
         Il biondo ha già smesso di ascoltare quello sciocco, Isaïe ha sempre parlato troppo anche prima di rivelargli la sua vera natura, e si volta verso la bambina che pare addormentata. Non gli ha fatto nulla, ma il suo solo profumo risveglia istinti primordiali, e Serafim affonda le zanne nel labbro inferiore sino a sentire il sapore stantio del sangue nero che ormai gli circola in corpo da troppo tempo.
         La donnina si intromette, una cantilena flebile e calma a cui Isaïe risponde con una risata cattiva. Le risponde con tono duro, per poi congedarla con un gesto secco della manina; è bianca e fresca come non avesse appena parato una bastonata.
         La vecchina li lascia senza mai voltarsi, gli occhi bassi, poi chiude la porta con una doppia mandata. Serafim vorrebbe ridere, quella precauzione è inutile tenendo conto del vampiro nella stanza con lui: pur con l’aspetto di un bambino, è perfettamente in grado di bloccarlo. È il suo creatore dopotutto, suo padre, anche se l’idea gli crea un disagio ancor più profondo di ciò che è diventato pur di non morire.
         «Allez, vas-y, mon petit fauve. La tua sete deve essere terribile, non vuoi placarla?» Chiede con voce suadente, l’espressione che si fa appena più soddisfatta quando il ragazzo si volta e lo guarda, finalmente, con interesse. Gli si avvicina e lo prende per mano, portandolo verso la figura della servetta ancora riversa a terra; il piccolo torace si muove appena ed il respiro è debole, segno che comunque non vivrà a lungo.
         «Dovrò farlo spesso?»
L’esitazione nel tono di Serafim ha probabilmente intenerito l’anziano bambino, che gli lascia una carezza sul capo nel momento in cui si china per avvicinarsi alla preda. «No, Séra. Sei un bambino, e se berrai ogni due o tre settimane dovresti riuscire a controllarti e crescere. Forza, il primo pasto è sempre il più difficile, e poi ti porterò dalla mia adorata.»
         «La sete è orribile.» Dice solo il biondo, forse a nessuno, poi affonda le zanne nel polso della ragazzina e si sorprende di come il sangue risulti dolce sulla lingua.
         «Lo so. E sarà sempre peggio.»

21 Marzo 2036
Glasglow, Scozia

Villa Schwartz non è il suo nome ufficiale, anzi, Alyssa è discretamente sicura che i pochi che sanno della sua presenza non la nomino affatto. La casa si erge sicura e allo stesso tempo fragile, tre piani buttati quasi per sbaglio nel mezzo dei più brulli ed aridi campi della Scozia, pareti che si reggono assieme grazie alle piante che vi sono cresciute addosso.
         Vi si arriva solo attraverso stradine sterrate che le macchine faticano a percorrere, un ulteriore motivo che la rende tanto sicura: la giovane sente le scarpe pesanti e appiccicose per il fango che ha creato uno spesso strato sotto le suole delle scarpe da ginnastica, ma il pensiero di essere quasi arrivata la convince ad affrettare il passo mentre si stringe nel cappotto scuro.
         L’aria è fredda ed umida, ma il suo corpo ormai non produce più il calore necessario a creare nuvolette di vapore candido davanti al viso; è solo uno dei numerosi cambiamenti di cui si è resa conto nel corso dell’ultimo anno, assieme alla pelle che si è fatta diafana non per la mancanza di sangue come avrebbe potuto pensare, ma perché il sole le è ormai nemico. I primi raggi iniziano a carezzare l’orizzonte, illuminando la nebbia perlacea che la circonda di un tenerissimo lilla, ma ormai è arrivata al cancello, mezzo distrutto e mezzo ruggine, lo passa agilmente e una figura nera alla sua destra la accoglie con un miagolio stridulo.
         Non è da lei tutto quel pensiero poetico, quei paragoni complessi, e si trova a sorridere pensando a quanto la sua nuova famiglia la stia influenzando nelle piccole cose.
         «Mi aspettavi, Marie? Forza piccola, su su, a casa.» Dice, e la micetta le si avvicina e si alza sulle zampe posteriori per ricevere un rapido grattino dietro le orecchie prima di trotterellare, come un corteo che annuncia la sua presenza. Spettrale, sulla soglia divelta vede una figura d’altri tempi: quando alza una mano per salutarla quella china il capo. Nonostante la luce sia ormai abbastanza forte da costringerla a strizzare gli occhi e annebbiarle la vista, è certa le abbia rivolto un sorriso appena accennato tale da ingentilire il viso i cui tratti duri e ben cesellati rivelano una chiara origine centro europea. Abigail scompare oltre lo stipite in uno svolazzo di capelli castani e gonna da cameriera.
         «Sono a casa.» Sussurra Alyssa, e l’unica risposta sono i passi leggerissimi di Marie che la segue all’interno della villa. Cammina piano lentamente sul pavimento polveroso, il familiare odore di umido e muffa che le colpisce il naso per un solo secondo prima che possa ricordare come ormai possa fare a meno di quei vezzi umani: trattiene il fiato attraverso l’ampio atrio, si volta a destra verso un corridoio tetro che si snoda in quello che una volta avrebbe considerato solo buio pesto.
         Le pareti sono coperte più da graffiti che da carta da parati ormai, nei primi giorni della sua trasformazione ha passato lunghe ore a studiare le varie scritte fatte da ragazzini annoiati: da quelle in cui si insultavano a vicenda, corrette più volte da grafie diverse, a fantasiose quanto offensive canzoncine che le ricordavano l’adolescenza, perché alla fine i ragazzi sono uguali in ogni generazione. Sfiora con le dita lunghe un particolare disegnino che la fa sempre ridere, un gattino stilizzato coi denti da vampiro, e si avvia verso l’unica porta chiusa che lascia intravedere una tremula lama di luce sotto di essa.
         Mano a mano che si avvicina intorno ad Alyssa si fa più pulito: ogni passo come un sogno riporta il maniero al suo antico splendore, abitato e curato, non edificio ma casa. Marie si ferma, il pelo ritto, soffia piano e passa oltre in una buffa cavalcata: la donna riprende a respirare, e l’odore ferroso che ha indispettito la micetta la avvolge provocandole un disgustoso spasmo di desiderio alla bocca dello stomaco. Bussa piano ed una vocina gentile e vagamente assonnata la invita ad entrare.
         «Sei arrivata in tempo per la cena, Alyssa cara.» La accoglie una ragazzina, seduta di fronte ad un tavolo apparecchiato per tre. Indossa una graziosa camicia da notte con le maniche a campana, un colore stranamente scuro per un abito del genere che lo face sembrare quasi un bizzarro vestito da sera. I capelli castani sono sciolti oltre le spalle, Abigail ci sta passando con delicatezza un pettine, le ciocche perfettamente lisce e lucide che prendono i bagliori più caldi del fuoco basso che illumina la stanza. Nonostante una griglia forata ne controlli la luce, Alyssa si ritrova a chinare il capo.
         «Buonasera Rachel. Abigail.» La nuova venuta le saluta con un cenno. «No, grazie. Ho… ho cenato al lavoro.» L’esitazione nella sua voce è evidente, ma le due giovani donne vi passano sopra con la consueta eleganza che le contraddistingue. Rachel, la più giovane delle due, allunga una mano e prende tra le dita bianche una tazza di porcellana. Quando il liquido le bagna la bocca risulta rosso intenso, troppo denso per essere tea.
         «Tesoro caro, dovresti evitare il cibo umano. Non ti serve più a nulla.» Abigail ha un tono gentile, non alza gli occhi dal suo lavoro meticoloso. Sta intrecciando i capelli di Rachel, e le due si somigliano così tanto che paiono la stessa persona con una sola decina d’anni di differenza.
         «Anche il sangue dell’ospedale non va bene. Non so cosa ci facciate, ha un sapore disgustoso però, e tu sei malnutrita… i tuoi occhi brillano molto meno.» La vampira posa di nuovo la tazzina sul tavolo, poi si lecca le labbra che tuttavia rimangono di un colore intenso rispetto alle guance d’alabastro, ricordando ad Alyssa Biancaneve. «Non ti ricorda Fraulain Kaia? Almeno prima che ci mettesse le mani Isaïe.»
         «Kaia è bionda e alta forse un metro e mezzo, la nostra bambina è decisamente più graziosa.»
«Kaia è stata affamata per tutta la vita, per questo il paragone.» Rachel, che aveva alzato gli occhi di carbone sulla sorella, torna a guardare Alyssa e le sorride con aria gentile. «Scusa, immagino sia noioso per te ascoltare i discorsi di queste vecchine. Siediti pure cara, non ti forzeremo a mangiare.»
         La donna fa quanto richiesto, scuotendo il capo con un gesto che cerca di dissimulare l’imbarazzo. Abigail, che ha intrecciato i capelli di Rachel, la imita e le tre si trovano ai vertici di un bizzarro triangolo. Con gesto quieto allungano un piattino di tramezzini nella sua direzione, ed Alyssa ringrazia.
         «Mi piace sentirvi così di buon umore, è familiare.» Precisa, ma non può impedirsi di prendere una ciocca castana che le è scivolata sul volto ed osservarla assorta: il colore è spento, in effetti, vagamente cinerino, e nota un paio di doppie punte di troppo. «Comunque sto benissimo, il sangue dell’ospedale è diviso nelle sue componenti ma mi assicuro di ricomporlo prima di berlo.»
         «E non senti mai il desiderio di sangue fresco? Sei un chirurgo, a contatto ogni giorno…»
«No.» La risposta di Alyssa è troppo rapida, segno evidente che sta mentendo. Le due vampire la guardano poi, con l’eleganza che le contraddistingue, annuiscono e si portano la tazzina alle labbra. Alla mora non sfugge come i gesti, in perfetto sincrono, siano segno evidente che preferiscono lasciar cadere il discorso che tartassarla ulteriormente.
  
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