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Autore: Adeia Di Elferas    07/11/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina stava raggiungendo il convento d'Annalena su un carretto chiuso che non doveva dare troppo nell'occhio. Quel giorno aveva preso a nevicare furiosamente fin dal primo mattino, ma, essendo la Vigilia di Natale, la donna non aveva voluto sentire storie e aveva preteso di essere condotta alle Murate e, da lì, al monastero in cui era custodito suo figlio Giovannino. Aveva anche dato ordine che Fortunati non venisse informato di questa sua visita, sia per evitare che la criticasse per quel mezzo azzardo, sia perché temeva che, altrimenti, avrebbe cercato di convincerla a incontrare i Salviati e, almeno per il momento, non aveva alcuna voglia di fare discorsi complicati né con Lucrezia Medici né col marito Jacopo.

Su consiglio premuroso di Bianca, aveva portato anche un piccolo presente a Cornelia – della stoffa con cui, a detta della Riario, la bambina di ormai circa cinque anni, si sarebbe divertita a provare i primi ricami, prendendo confidenza con ago e filo – ma ciò che premeva di più alla Tigre era abbracciare il suo figlio più piccolo e fargli sentire che, seppur separati, anche per quel Natale lei non avrebbe fatto altro che pensare a lui.

Le ruote del carretto arrancavano un po' sulla strada lastricata resa ostica dalla neve sempre più alta, e di quando in quando uno scossone strappava uno sbuffo alla Sforza. Avrebbe di gran lunga preferito raggiungere la sua destinazione a cavallo, o perfino a piedi, ma non voleva essere vista da nessuno. Adesso che Lorenzo aveva fissato una data per la ripresa del processo, era fondamentale tenere nascosta più che mai l'alcova in cui stava nascosto Giovannino.

Come tempistiche, pensava la Leonessa, dovevano essere abbastanza vicini, ormai, al convento d'Annalena. Avrebbe voluto prepararsi mentalmente all'incontro con il figlio, ma, mentre teneva già in mano il regalo che aveva preparato per lui – un piccolo cavaliere di legno intagliato da Galeazzo, che si era dimostrato molto bravo in quel genere di lavoretti – tutto ciò che continuava a tornarle in mente era lo scambio di vedute avuto di un paio di sere prima con Troilo De Rossi.

L'uomo era stato molto formale ed estremamente preciso, spiegando quali accordi il Trivulzio era riuscito a prendere, per il matrimonio, e in fondo la donna gli era grata per la sua solerzia e per aver trovato una soluzione che, tutto sommato, era vantaggiosa per tutti. Si era anche prestata volentieri a dare consigli e promettere un aiuto, se fosse servito, in termini di pozioni e trucchi, se fosse stato necessario, come si pensava, ingannare i testimoni della messa a letto riguardo la purezza della figlia. Era anche stata felice di sentire l'uomo entusiasta di Pier Maria e altrettanto ben disposto all'idea di affidarglielo per tutto il tempo che fosse stato necessario. Era, soprattutto, soddisfatta nel sapere la figlia colma di gioia all'idea di poter davvero sposare l'uomo di cui si era innamorata tanto in fretta e tanto facilmente.

Tuttavia, c'era un tarlo che continuava a tormentarla: era la paura dell'insicurezza. Malgrado l'atteggiamento sicuro di Bianca, malgrado tutte le attenzioni di Troilo, malgrado tutto, Caterina sapeva che l'intera situazione era fragile quanto un castello fatto di carta pesta. Poteva dare l'impressione di essere robusto, ma sarebbe bastato un acquazzone improvviso per trasformarlo in poltiglia...

“Siamo arrivati...” la voce del servo che le faceva da scorta la risvegliò di colpo dai suoi pensieri e così, sforzandosi di sorridere, per mettersi già dell'umore giusto per stringere a sé Giovannino, ringraziò e si lasciò accompagnare fino all'ingresso secondario del convento.

 

Il quarantatreenne Ercole Bentivoglio scrutava con aria critica il cielo bianco. Era la Vigilia di Natale e, secondo lui, la neve avrebbe cominciato a cadere prima del previsto quel giorno.

Anche Antonio Volta, mandato assieme a lui dal Senato di Bologna, pareva intenzionato a sbrigare in fretta le ultime formalità.

Il loro compito, in effetti, non era stato difficile, fino a quel punto: avevano solo dovuto scortare fino al Panaro parte delle milizie francesi che avevano militato col Valentino in Romagna. Ormai restava loro solo di salutare il Montaison e lasciare che le truppe da lui comandate riprendessero, stavolta da sole, il loro viaggio verso nord, per tornare in patria ed essere riordinate in modo da potersi poi impegnare finalmente nella guerra – molto più cara a Luigi XII – contro gli spagnoli.

La parte complicata del progetto affidato a Ercole e al Volta da parte di Giovanni Bentivoglio sarebbe arrivata solo dopo, ossia quando i due inviati avrebbero dovuto raggiungere il campo del Valentino – a Cesena – per provare a mediare una volta per tutte ed evitare la guerra tra Bologna e i Borja.

Ercole si era sentito onorato, quando aveva sentito che il patrigno, e, soprattutto, la madre Ginevra Sforza, lo ritenevano l'uomo adatto a quel genere di trattative. Chiunque avrebbe creduto che i Bentivoglio avrebbero mandato più facilmente Alessandro, con l'affascinante moglie Ippolita, o anche il vigoroso Annibale... E invece era stato preferito lui, figlio del defunto Sante, ma da sempre figlio adottivo di Giovanni, di cui si era costantemente dimostrato fedele servitore.

Si trattava, ovviamente, anche di un compito rischioso, ma Ercole non aveva paura di avere responsabilità e di assumersi rischi.

Il Montaison salutò il Bentivoglio e il Volta con freddezza e fretta: anche lui, evidentemente non voleva imbattersi in una nevicata mentre ancora doveva attraversare il fiume.

I due bolognesi attesero con pazienza che i francesi si allontanassero a sufficienza da potersi dire sicuri che non sarebbero tornati indietro e poi, discutendo per qualche istante l'itinerario con il pugno di uomini che li accompagnavano, decisero di ripartire immediatamente, in modo da guadagnare qualche ora di viaggio già quel giorno, nel caso in cui la neve li avesse poi rallentati più avanti.

Erano sulla via da un paio d'ore scarse, quando, dopo un punto inondato di nebbia, si trovarono dinnanzi a un vero e proprio picchetto.

Ercole riconobbe all'istante l'uomo che lo guidava, e così esclamò: “Rigault! Lasciateci passare! O forse non ci riconoscete?”

Il comandante francese, in tutta risposta, alzò una mano, in un segno concordato coi suoi e, nell'arco di due minuti, sia il Bentivoglio sia il suo compare, così come tutta la loro scorta, vennero circondati da uomini armati.

“Che significa?!” chiese, esterrefatto, Antonio, guardando ora il Rigault, ora Ercole.

Con un italiano addomesticato dalle lunghe settimane trascorse a far la guerra in Romagna, il francese rispose: “Vi dichiaro nostri prigionieri.”

“Perché? Non siamo forse in pace, noi bolognesi e voi francesi? Il vostro re non si è forse detto lieto di essere nostro amico, quando era a Milano?” chiese il Bentivoglio, mentre il suo cavallo batteva nervosamente uno zoccolo in terra, vedendosi puntare addosso così tante armi.

“Non vi catturiamo in quanto bolognesi – chiarì il Rigault, con un sorrisetto arguto – ma in quanto responsabili dei vostri contadini. Gli stessi contadini che hanno assassinato un mio armigero a Casalfiumanese.”

Proprio mentre cominciava a nevicare, i soldati francesi passarono all'azione e cinsero gli uomini dei bolognesi, disarcionando poi e mettendo subito in catene Ercole e Antonio.

“Avevo messo su di voi una taglia da cinquemila ducati, ma sono stato il più veloce, dunque quei soldi li terrò per me...” disse il comandante nemico, mentre li guardava agitarsi come pesci nella rete: “Vi porterò a Parma... Lì vedremo quanto il Senato di Bologna sia disposto a pagare per una nullità come messer Antonio Volta e per un figlio di primo letto di una cagna Sforza come voi, messer Ercole...”

 

“Grazie...” disse Galeazzo, mentre il servo che spesso faceva da coppiere lasciava il vino sul tavolinetto del salone: “Adesso potete andare. Come sapete, devo discutere di questioni private con il Marchese, che è qui per informarsi sullo stato di salute di Madonna mia madre.”

Il domestico annuì e andò subito alla porta, chiudendosela alle spalle senza far alcun rumore. Il Riario fu quasi tentato di andare a controllare se l'avesse serrata davvero, ma poi pensò che l'ambiente era tanto ampio e l'uscio così lontano che a lui e a Troilo sarebbe bastato parlare a voce bassa per non essere ascoltati da nessuno.

“Perdonatemi se vi sottraggo a occupazioni più... Interessanti.” si scusò Galeazzo, arrossendo come non mai: “Ma mia madre mi ha chiesto di far sì che ci vedano parlare qualche volta, per periodi discretamente lunghi, per far sì che regga la scusa...”

“La scusa che io sia qui per conto del re di Francia, per controllare lo stato di salute di vostra madre e l'accoglienza che riceve in questa casa che, da quello che so è ancora proprietà di Lorenzo Medici.” parafrasò l'emiliano, prendendo la caraffa e cominciando a versare un po' di vino sia per sé sia per il fratello di Bianca.

“Esatto.” convenne lui: “E voi dovreste poi dire a chi ve lo chiederà che mia madre è diventata molto devota e che spesso deve recarsi al convento delle Murate al solo scopo di pregare e riconciliarsi con Dio... Specie in questo periodo natalizio, in cui si sente molto più sola e sensibile...”

“Se qualcuno me le chiederà mai, risponderò sicuramente così.” annuì l'uomo, annusando il calice e sorridendo: “Questo è trebbiano toscano, vero?”

“Sì...” sorrise Galeazzo: “Mia madre preferisce i vini scuri, ma quando posso scegliere, io di solito faccio servire questo... Mi risulta più facile da bere.”

“Sì, è un vino più leggero...” constatò il De Rossi, che ricordava benissimo il vino nero che aveva bevuto l'ultima volta al desco della Tigre.

“Comunque, veramente, sappiate che fosse dipeso da me, non vi avrei sottratto a mia sorella, nemmeno per un minuto.” ribadì il Riario, sorbendo un po' di vino, nella speranza di non farsi vedere di nuovo arrossire: “Vi ha aspettato per mesi...”

Troilo non indugiò sul viso rubizzo del giovane, trovando indelicato farlo, e involontariamente si riportò alla mente un discorso che lui e Bianca avevano fatto giusto la sera prima. La ragazza, in un momento di calma assoluta, aveva sentito il bisogno di parlargli della sua famiglia, in particolare dei suoi fratelli. Aveva speso parole di biasimo per Ottaviano e Cesare, parole ancora intrise di cordoglio per il povero Livio, parole di apprezzamento per l'intelligenza di Sforzino, e parole di stentato affetto per Bernardino. Solo per Giovannino e Galeazzo aveva allargato le sue considerazioni a più aspetti del loro legame. Se per il piccolo, però, aveva usato termini più adatti a una madre e si era rammaricata del lungo periodo che stavano passando separati – chiedendosi anche se mai avrebbero avuto modo di recuperare quel tempo perso – per il grande aveva indugiato molto sulla stima che provava per lui e sull'istinto di protezione che aveva sempre avuto nei suoi confronti, malgrado fosse lo stesso Galeazzo a voler proteggere lei prima ancora che volerne essere protetto.

La Riario aveva spiegato a Troilo di come quel ragazzo, che da pochi giorni aveva compiuto diciassette anni, fosse coraggioso, leale e intelligente. Gli aveva anche accennato che, però, era anche molto timido e, a differenza di tanti suoi coetanei, pur apprezzando visibilmente le grazie femminili, ancora non aveva trovato il modo o lo slancio per avvicinare concretamente una donna.

Al De Rossi non era parsa una cosa negativa, dato che nemmeno lui era stato mai un amante né precoce né vorace, almeno, quest'ultima cosa, finché non aveva conosciuto Bianca, quindi non se la sentiva di biasimare in qualche modo il giovane Galeazzo per la sua riservatezza.

Giusto per rompere il silenzio che si era creato, l'emiliano smosse un po' il vino che aveva nel calice e, apprezzandone il profumo fresco, provò a dire: “Comunque non preoccupatevi, davvero. Io e Bianca avremo tempo, per stare insieme, una volta che saremo sposati... E poi mi fa piacere scambiare qualche parola con il mio futuro cognato.”

“Per quanto mi riguarda – rispose il Riario, serio – io vi considero mio cognato già da molto tempo.”

L'emiliano sollevò appena l'angolo della bocca e poi ammise, ricordandosi una volta di più del tipo di giovane uomo che aveva davanti: “Posso capire che per il vostro modo di vedere, ciò che vostra sorella e io abbiamo fatto non sia esattamente ...”

“Io non ho alcuna intenzione di giudicare quello che avete fatto.” lo frenò subito Galeazzo, cercando di vincere l'imbarazzo: “Sono cresciuto, come sapete, in un ambiente molto aperto e ho capito da molto tempo quanto sia importante non giudicare, specie certe cose. Mia sorella è felice, da che vi conosce, e non immaginate quanto sia importante per me che sia così.”

Troilo si permise di rilassarsi un istante e, sorbendo un po' di vino, si mise a guardare il bel viso del Riario, in silenzio, come chiedendogli di spiegarsi ancora meglio, perché era ovvio che nella sua ultima frase ci fossero molti più sottintesi di quello che sembrava.

Così il figlio della Tigre si sentì in dovere di continuare: “Mia sorella è molto importante, per me, e posso dire che se non ci fosse stata lei, tutto sarebbe stato più complicato. Bianca ha avuto, come tutti noi, dei momenti difficili... Anche se, ovviamente, ha delle ferite tutte sue che in questi anni le hanno tolto spesso la serenità.”

“Parlatemi di lei.” soffiò il De Rossi, cedendo a un desiderio profondo e che, forse, finalmente, poteva trovare soddisfazione.

“Non lo fa già lei di persona?” domandò Galeazzo, sulle spine, chiedendosi se non di stesse cacciando in qualcosa in cui non avrebbe dovuto nemmeno pensare di mettere il naso.

“Certo...” ammise l'altro: “Ma, vi prego, questa potrebbe essere una delle ultime occasioni che ho per sentire un suo familiare parlare di lei. Voglio conoscere l'adolescente, la ragazzina e la bambina che è stata...”

A quel punto, il Riario non se la sentì di tirarsi indietro e, per sommi capi, per quel che poteva ricordare lui, si mise a parlare della sorella e lo fece con una facilità che sorprese lui per primo. Le sue parole dipinsero un quadro lusinghiero, ma realistico di Bianca, ma non si limitarono a descrivere i lati positivi della sua vita.

Dopo aver parlato un po' di come per la giovane la morte del padre, anni addietro, fosse stata comunque una tragedia, malgrado le colpe di Girolamo Riario e malgrado l'evidente incapacità del defunto Conte di occuparsi di se stesso prima ancora che degli altri, Galeazzo si trovò ad affrontare l'argomento più spinoso possibile: la morte del Barone Feo.

Troilo, che era rimasto letteralmente stregato dai racconti del futuro cognato, teneva in mano il calice di vino, dimenticandosi di berlo. L'immagine di Bianca bambina e poi ragazzina, che diventava una coraggiosa giovane donna lo affascinava enormemente e avrebbe voluto che le parole del Riario non finissero mai.

Così, quando Galeazzo disse: “E poi... Be', immagino saprete che è successo, alla morte del Barone Feo...” e poi tacque, il De Rossi non poté evitare di esortarlo a continuare subito.

“Grossomodo ne ho sentito parlare – annuì – come tutti, credo, in Italia... Ma ditemi come questa cosa abbia influito sulla vita di Bianca, perché lei di questo non me ne ha parlato affatto, o comunque molto poco...”

In effetti la Riario gli aveva accennato pochissimi dettagli, perlopiù sfuggitile dalle labbra quando, per qualche motivo, avevano parlato di Bernardino.

“Bianca si è sempre sentita molto in colpa, per quello che è successo al secondo marito di nostra madre...” spiegò Galeazzo: “Non ne parla volentieri, per non dire che non ne parla e basta, ma io so che si sente in colpa perché lei sapeva, più o meno, quello che sarebbe accaduto e non ha fatto nulla per evitarlo.”

Troilo si prese un momento. Gli sembrava impossibile che la sua futura sposa, che lui considerava tanto amabile e affettuosa, fosse stata capace di una cosa simile. Poco importava se all'epoca era una ragazzina: aveva già l'età per capire la gravità di quello che stava permettendo.

Un po' stordito, l'emiliano riappoggiò il calice e poi si mise ben premuto contro lo schienale, prima di chiedere: “Sapeva che l'avrebbero ucciso e non ha fatto nulla per evitarlo? Non ha nemmeno suggerito qualcosa a vostra madre per...”

“No.” scosse il capo il ragazzo.

“Eppure vostra madre ama molto Bianca... Lo si vede.” ribatté l'emiliano: “Se le ha davvero fatto un torto simile non credo che...”

“Mia madre non voleva odiarla, e così è stato.” tagliò corto Galeazzo, improvvisamente pentito di aver ceduto alle richieste del De Rossi: “Per lei l'argomento è chiuso. Anche se so che per Bianca non lo è. Di questo, però, vi consiglio di parlare con lei... Io non saprei che altro dirvi, a riguardo.”

Il Riario, che non era di natura loquace, aveva la sensazione di aver parlato per ore e ore, e quindi, più per bagnarsi la lingua impaniata che non perché desiderasse davvero del vino, vuotò in rapida successione due calici e poi sospirò, in un segno inequivocabile di stanchezza.

“Direi che abbiamo lasciato passare tempo a sufficienza per far credere a tutti di aver avuto un colloquio intenso e dettagliato.” fece allora Troilo, per venirgli incontro: “Possiamo anche congedarci...”

Galeazzo fece un cenno d'assenso e poi concluse: “Se tornerete subito da mia sorella, vi prego di stare attento a chi vi vedrà...”

“Sarò la discrezione fatta a persona.” assicurò l'uomo e poi, con un inchino elegante, andò alla porta, il cuore già proteso verso Bianca, che l'attendeva calda e dolce in camera, ma la mente ancora ferma alle rivelazioni del Riario, che l'aveva, forse inconsciamente, messo in guardia sulla natura forte e stranamente crudele della sua amata.

 

Pietro Bembo si strinse ancor di più nelle spalle, mentre cercava di far scivolare via dalle proprie membra il freddo di quella Vigilia di Natale.

In quel momento, il suo cuore era caldo e palpitante, in netto contrasto con le sue gote ancora arrossate per il gelo che l'aveva sferzato in strada e con le sue mani intorpidite, che faticavano a prendere in mano il necessario per scrivere.

Nel giro di poche ore aveva avuto la conferma dallo Strozzi che a gennaio si sarebbe tenuto un ballo, proprio a casa del suo amico, e che Madonna Lucrecia era stata invitata, assieme, ovviamente, al marito. Di concerto, Pietro era riuscito a incontrarla, per puro caso, e ad augurarle di persona un buon Natale, in vista della solenne festività del giorno dopo, e le aveva chiesto, con una straziante ansia, se avrebbe accettato l'invito dello Strozzi, a gennaio.

La giovane, dopo una brevissima esitazione, aveva semplicemente detto: “Se ci sarete voi, ci sarò anche io.”

Così, animato da una linfa nuova, il Bembo l'aveva ringraziata, trattenendosi il più possibile, per non attirare l'attenzione delle dame di compagnia che scortavano la bella Borja ovunque andasse, e l'aveva salutata, correndo direttamente al palazzo del suo benefattore, per scrivere una lettera che, in quel momento, gli pareva di importanza vitale.

Già da giorni, da uno degli ultimi incontri fugaci che aveva avuto con la moglie dello scontroso Alfonso, Pietro si era messo in testa di far leggere gli Asolani a Lucrecia. Era sicuro che nessuno potesse comprendere meglio della Borja quei dialoghi sull'amore e voleva, voleva con tutto se stesso, che li leggesse e che gli dicesse cosa ne pensasse.

L'unico problema era che quel manoscritto, in quel momento, era a Venezia, per essere sottoposto al vaglio critico di alcuni suoi amici. Non sapeva tra quanto tempo glielo avrebbero reso, quindi era cruciale sollecitare un ritorno veloce tra le sue mani, affinché potesse porgerlo a quelle delicate e diafane della sua Lucrecia, e avere il di lei responso.

Si era convinto – anzi, ne era proprio certo – che quelle pagine sarebbero state il modo migliore per entrare in sintonia con quella donna che aveva molto da dire, ma che, oppressa com'era da un marito goffo e laconico come l'Este, finiva a rifugiarsi in frasi di comodo ed espressioni sfuggenti. Pietro sentiva che tra loro l'intesa era perfetta, ma che, per la sua storia e per la delicatezza dei suoi petali, quella rosa che era la Borja non poteva essere colta con troppa fretta.

Malgrado tutti ne dicessero peste e corna, lui aveva capito quale fosse la reale natura della figlia del papa e non voleva privarsene.

Intinta così la penna nell'inchiostro, cominciò a vergare qualche frase diretta al fratello Carlo, affinché gli facesse consegnare a Ferrara il suo manoscritto, e affinché lo facesse il prima possibile.

“Se solo ci avessi pensato prima...” sospirò tra sé l'uomo, mentre la mano scorreva sulla pagina come una freccia nell'aria: “Avrei avuto un pretesto per farle visita anche domani, che è il Santo Natale...”

 

Arrivata la sera, Caterina non poté più trattenersi al convento d'Annalena. Le piangeva il cuore a lasciare Giovannino proprio quando ormai si stava entrando nella notte di Natale, specie perché il bambino sembrava dare una valenza quasi magica a quella ricorrenza.

Le suore, almeno così aveva capito la Tigre, lo stavano preparando ormai da settimane alla nascita di Gesù e, nella mente semplice della sua età, il piccolo Medici si aspettava che succedesse davvero qualcosa di straordinario, in quella notte di veglia. A quattro anni e mezzo circa, il suo animo era diviso tra l'eccitazione e la paura e quindi, a maggior ragione, separarsi dalla madre gli sembrava una prova impossibile da superare.

“Stai tranquillo – lo rassicurò la Sforza, abbracciandolo, appena prima di lasciare la cella in cui avevano trascorso insieme la giornata – vedrai che non succederà nulla di che... Basta che tu stia tranquillo, vicino alla suora che bada a te, e che faccia il bravo.”

“Dirò le preghiere...” provò a dire il piccolo, che non riusciva a calmarsi del tutto.

“Certo.” soffiò la madre e poi, allontanandosi da lui e porgendogli di nuovo il suo cavaliere giocattolo, ribadì: “Stai tranquillo e vedrai che andrà tutto bene.”

Giovanni annuì, poco convinto. Era evidente che stesse trattenendo le lacrime, e a Caterina quel fatto, in fondo, riempiva d'orgoglio. Sapeva che suo figlio sarebbe cresciuto in un mondo ostile e complicato e che il suo cognome, forse, sarebbe stato per lui più una maledizione che una benedizione, per come stavano andando le cose a Firenze. Era giusto che fin da subito imparasse a gestire lo smarrimento e la paura, perché sarebbero stati sentimenti con cui avrebbe dovuto fare i conti per tutta la vita.

“Il prossimo Natale lo passeremo assieme, te lo giuro.” si lasciò scappare la Leonessa e poi, dopo un ultimo rapido bacio, lo salutò davvero.

Prima di tornare alla villa, doveva ripassare alle Murate. Non aveva alcuna voglia di parlare con Suor Elena, né con nessun altro, tuttavia sapeva che era importante farsi vedere uscire proprio da quel monastero, per continuare la sua recita agli occhi del mondo.

Quando arrivò alle Murate, tuttavia, non volle ripartire all'istante. C'era ormai buio e aveva cominciato a nevicare furiosamente. Sapeva che era meglio muoversi intanto che si poteva, ma sentiva un'urgenza per lei così anomala da doverla soddisfare all'istante.

Pregando il suo accompagnatore di attenderla un attimo, andò alla cappella in cui le suore si trovavano a pregare e andò a mettersi proprio davanti all'altare.

Quando fu passata mezz'ora, il cocchiere cominciò a innervosirsi, pensando che tra il buio e la neve, presto sarebbe stato impossibile riportare la Tigre a Castello, così, armandosi di un cipiglio notevole, chiese a Suor Ubbidienza, che attendeva lì con lui, di andare a chiamare Madonna Sforza, affinché si sbrigasse.

La monaca, invece di andare dalla Sforza, preferì prima passare da Suor Elena e, assieme a lei, raggiunse la cappella.

La milanese era ancora immobile davanti all'altare, lo sguardo in alto, rivolto al crocifisso. Nella penombra era difficile capire se stesse pregando o se semplicemente fosse lì senza far alcunché.

“La stanno aspettando...” bisbigliò Suor Ubbidienza, in apprensione: “Presto la neve sarà troppo alta per affrontare tutta quella strada...”

La Superiora non avrebbe voluto interrompere la Tigre, ma sapeva che Suor Ubbidienza aveva ragione. Così, con passo lento e silenzioso, arrivò alle spalle di Caterina e, solo in quel momento, capì che stava piangendo.

Con delicatezza, le mise una mano sulla spalla e le sussurrò: “Dovete andare, adesso... Ma Dio sarà sempre qui, quando vorrete cercarlo...”

Caterina si asciugò con rabbia le lacrime e annuì, senza riuscire a dire nulla. Accompagnata dalle due suore, coprendosi per come riusciva gli occhi arrossati usando il cappuccio del mantello, salì sulla carrozza e si lasciò alle spalle il convento con il cuore ancora gonfio di collera, confusione e tristezza.

“Forse avremmo dovuto trattenerla, e dirle qualche buona parola...” disse Suor Ubbidienza.

Suor Elena scosse il capo: “Lascia che sia Dio a consolarla. Noi possiamo solo intervenire dopo: il primo passo può essere unicamente suo. Quella donna è piena di rabbia: finché non riesce a farla defluire e a dimenticarla, l'unica cosa che possiamo fare è vigilare e aspettare. Quando sarà pronta, sarà lei a chiedere il nostro aiuto.”

L'altra monaca annuì, compita, e poi sussurrò: “Se non vi dispiace, questa notte vorrei restare con Cornelia... Fa incubi da qualche notte e...”

“Certo.” concesse subito la Superiora, ben sapendo quanto quella bambina fosse importante per Suor Ubbidienza: “Esistono tanti modi di pregare... Vegliare su quella piccola è come vegliare su Nostro Signore: ti esento dalla notte di preghiera, hai una cosa altrettanto importante da fare.”

Suor Ubbidienza sorrise e, felice per quella speciale dispensa, augurò una Santa Notte alla Superiora e quasi si mise a correre, mentre raggiungeva la camera della piccola Cornelia che, per colpe non sue, veniva sempre trattata da tutti come la figlia di nessuno.

   
 
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