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Autore: Orso Scrive    08/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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15.

 

 

Bedizzole, provincia di Brescia, giugno 1978

 

 

«Ma ghet sentit ger sera?!»

«Eh se, casso! S’ere dré a vardà la partita, ‘cocane!»

«Ma che i naghe a cagà, chei che fa robe isé»

«I laura mia e i g’ha en casso da fa, ecco!»

«I g’ha bon temp, ecco cosa! Mia come chei che i laura töt el dé per portà a casa el pà da meter en taola!»

«E set cosa gh’ha dit el fancazzista del me niud? Che l’è era! Ma enculet, ghe fo, ma va a laurà che l’è mei!»

I quattro o cinque avventori riuniti al banco del Bar Centro, tutti con la coppola grigia sopra i capelli del medesimo colore e il calice del bianco delle otto e mezza di mattina tra le dita, potevano avere grossomodo un’età compresa tra i sessanta e i settant’anni. Impossibile capire davvero quando potessero essere venuti al mondo. Emanavano odore di vino, di tabacco e di stantio: il medesimo odore di cui era impregnato tutto il locale, buio e fumoso, con il banco di legno lucido interamente ricoperto di macchie di varia origine.

Tutti pensionati bresciani: chi un tempo era stato muratore, chi fonditore, chi meccanico, chi idraulico, chi non meglio specificato operaio. Comunque tutti lavoratori in pensione, fieri delle loro schiene spaccate dalla fatica, perché questa era la regola aurea della provincia di Brescia: se non ti ammazzi di lavoro dalle dodici alle quindici ore al giorno per almeno quarant’anni, e se non fai i lavori manuali più duri e massacranti, non sei degno nemmeno di essere guardato in faccia. Scrittori, musicisti, attori, pittori – esclusi ovviamente gli imbianchini – per un bresciano vero, duro e puro, sono solo dei mangiapane a tradimento, persino peggio dei terroni.

Filosofia nordico-bresciana in auge da sempre e per sempre.

L’argomento della mattinata, ovviamente, era l’interruzione di tutti i programmi radiofonici e televisivi della sera precedente. La maggior parte di loro non aveva capito un accidente delle parole dal suono meccanico pronunciate durante l’irruzione di quel segnale pirata. Sapevano soltanto una cosa: avevano dovuto rinunciare a vedere e ascoltare ciò che si erano meritati con una vita intera di sacrifici. Sacrifici che duravano ancora, ben inteso: perché il bresciano, si sa, è quell’essere che non smette mai di lavorare, nemmeno a ottant’anni suonati. Il riposo non è contemplato dalla sua mentalità. Il bresciano fa, e gli altri sono solo dei rubasoldi.

La discussione proseguiva ormai da quasi venti minuti, condita di bestemmie e di gentili offerte di lavoro verso l’ideatore di quello scherzo. E, finché non fosse accaduto qualcosa di diverso su cui far vertere l’attenzione, si sarebbe di certo continuato a parlarne ancora a lungo.

Dietro il banco, la testa pelata lucida di sudore, il Carlone annuiva compiaciuto, perché più si cianciava e più calici di bianco versava. E, passando per Lugana o Franciacorta quei suoi vinelli da due soldi che acquistava all’ingrosso, faceva come sempre affari d’oro. Tanto, i suoi avventori non si ponevano certo troppi dilemmi, riguardo a ciò che si versavano in gola. A loro bastava essere accontentati in fretta quando comandavano, con un tono di voce capace di rivaleggiare con le esplosioni delle mine nelle cave di Botticino: «Dam en bianc!»

In un angolo del bar, solitario come sempre, era seduto un uomo che non avrebbe potuto essere più differente dai classici avventori di quel bar di provincia. Una bestia rara, la pecora nera del paese.

Anni prima, Lanfranco Bonometti aveva deciso che lui, di bresciano, voleva avere soltanto il luogo di nascita stampato sulla carta d’identità, e soltanto perché ormai non era più possibile cambiarlo. Non aveva avuto nessuna intenzione di fare come i suoi compaesani e coetanei, che iniziavano a farsi le ossa in officina o nei campi a dodici o tredici anni e che, dopo la naja, ricominciavano subito a lavorare in modo massacrante per portare a casa uno stipendio che, nella maggior parte dei casi, sarebbe servito loro a curarsi dagli infortuni sul lavoro o per comprarsi una macchina con cui andare al lavoro.

No, la vita bresciana non faceva per Lanfranco.

Così, nel 1965, sfuggito al servizio militare dopo aver palesato nel modo più pomposo che gli fosse stato possibile una compiaciuta omosessualità che gli era valsa la registrazione in misteriosi archivi segreti – e scampato alle botte che per questo gli avevano rifilato suo padre, suo nonno e tutti gli zii – era partito verso oriente, lungo le strade insidiose del mitico hippie trail. Da Istanbul a Katmandu, dai deserti dell’Afghanistan alle foreste dell’India, dalle rive del Mediterraneo alle cime dell’Himalaya, un viaggio avventuroso e pericoloso, tra deserti e praterie, valicando monti che nascondevano le misteriose città delle Mille e una notte, in compagnia di ragazzi e ragazze che la pensavano e la vedevano grossomodo come lui, facendo di quando in quando qualche lavoretto oppure vendendo sangue per mettere insieme gli spiccioli che, di gran lunga, erano serviti per provare ogni tipo di stupefacente mai apparso sulla faccia della terra.

Era partito in giacca e cravatta, con i capelli corti e i baffetti, ben pasciuto, ed era tornato – dieci anni dopo – con i capelli lunghi sotto le spalle, una gran barba già striata di grigio, la bandana in testa e abiti colorati e sgargianti, lisi e sciupati, che ballavano attorno al suo fisico ridotto a pelle e ossa. Si diceva che, a Katmandu, avesse avuto delle visioni mistiche, forse dovute all’abuso di LSD. Sta di fatto che, dal momento del suo ritorno, vero pesce fuor d’acqua in quel paese dove o si lavora o si lavora, si era messo a fare i più assurdi discorsi sulle origini dell’uomo e dell’universo. Spesso e volentieri lo si era sentito cianciare di marziani e angeli, di venusiani e demoni, di dischi volanti e carri divini e via discorrendo.

Fallito il tentativo di fondare una comune hippie della provincia di Brescia, aveva cominciato a girovagare per le strade di Bedizzole e delle altre cittadine limitrofe, predicando il suo strambo pensiero. Tirava avanti scribacchiando racconti fantascientifici che un giornale a tiratura nazionale specializzato in quel tipo di pubblicazioni gli acquistava una volta o due al mese per qualche lira. Soldi appena sufficienti a non morire di fame e a comprare un libro ogni tanto. Ma non se ne lamentava mai. A Lanfranco quel poco bastava.

«Il superfluo è inutile ed è il male dell’esistenza», era solito dire.

Da un anno circa, era diventato un frequentatore abituale del Bar Centro. Sedeva in disparte, con il suo caffè che gli si raffreddava davanti, senza dire una parola. Intanto, con la penna a sfera in mano e la lingua tra i denti, scribacchiava sopra un taccuino parole e pensieri: perché i racconti di fantascienza non erano la sola opera che avesse in mente. Stava anche lavorando a un monumentale volume in cui aveva intenzione di riversare tutte le sue esperienze, ciò che aveva scoperto nel corso dei suoi viaggi e la sua personale filosofia di vita. I soliti avventori, all’inizio, lo avevano fissato come se fosse stato una bestia rara. Poi avevano deciso di ignorarlo come se non esistesse. Qualche volta, comunque, uno sguardo risaliva fino al suo angolo e si sentiva un sommesso borbottio che suonava pressappoco come un «ma se ne andasse a lavorare.»

Quella mattina, come tante altre, Lanfranco era lì, a sorseggiare il caffè, a ripensare alle sue avventure in Asia e a sognare chissà quali mondi lontanissimi da trasformare nei suoi strani racconti. Però, al contrario del solito, sembrava avere una luce nuova nello sguardo. I suoi occhi grigi sembravano accesi di un’eccitazione insolita. Il taccuino, quella mattina, era rimasto nella tasca della sua camicia dai motivi psichedelici.

Guardò il gruppo dei pensionati. Tornò alla tazzina. Guardò di nuovo. Tazzina. Sbirciò una terza volta.

Infine cedette.

«Ma sul serio credete che si è trattato solo dello scherzo di un buontempone?» disse.

Aveva parlato a voce bassa, pacata, eppure le sue parole scoppiarono come una bomba. Doveva essere la prima volta, da quando aveva messo piede in quel posto, che diceva qualcosa di più di «Un caffè, grazie.»

Nel Bar Centro scese un gelido e palpabile silenzio. Tutti si voltarono verso di lui. Un gruppo di pensionati e un barista pelato in opposizione a un hippie che le troppe droghe avevano invecchiato prima del tempo.

Ma Lanfranco non si lasciò intimidire. Si diceva che una volta, a Katamandu, lungo Freak Street, fosse addirittura sfuggito a un gruppo di agguerriti Gurkha decisi a fargli la pelle. Di certo, non avrebbe mostrato di essere spaventato da un gruppetto di vecchietti avvinazzati.

I vecchi si scambiarono uno sguardo veloce.

«E cosa sarebbe stato, se non uno scherzo del cazzo?» sbottò il Celestino, ex muratore che pesava qualcosa come centoventi chili. Il fatto che si fosse sforzato di parlare italiano la diceva lunga su quanto fosse solenne il momento. Del resto, nessuno tra di loro poteva dirsi certo che, quella bestia rara, potesse comprendere il dialetto.

«Si è trattato di un vero messaggio, ovviamente», insistette Lanfranco. «Vrillon il Saggio è tornato come aveva promesso, per portarci di nuovo il suo messaggio. Era ovvio che lo avrebbe fatto proprio adesso, alle soglie dell’Età dell’Acquario che…»

«Che ce ne facciamo dell’acquario se qui abbiamo il Chiese e il Garda e al massimo pure l’Iseo e l’Idro, dove andare a pescare?» inveì il Beppo Aola, di professione pescatore. «L’acquario è per gli snob di città!»

Lanfranco fece un sorrisetto.

«L’Acquario è un segno zodiacale, una posizione solare, non un mero oggetto di vetro da tenere in salotto. E il suo avvento porterà a tutti noi un mondo nuovo, un mondo migliore, in cui si vivrà in pace e in armonia con il creato.»

«Boh», fu la sola risposta che gli giunse.

L’hippie si alzò. Nonostante la magrezza eccessiva del suo organismo, era molto alto. Con i suoi abiti insoliti e i capelloni arruffati, torreggiò come un gigante su quel mare di coppole scozzesi. I suoi occhi un po’ spiritati si scontrarono con quelli dei pensionati, solcati da venuzze e capillari rotti dalla troppa affinità vinicola.

«Voi non siete mai stati al Tempio delle Anime sulla vetta del Machapuchare, dico bene?»

Nuovi sguardi corsero tra i pensionati. Probabilmente, non avevano nemmeno capito il nome che quel tizio strambo aveva appena pronunciato. Comunque, tanto per non fare una figura da nulla, il Mario si sentì in dovere di dire qualcosa in risposta.

«Io sono stato in viaggio di nozze a Venezia, nel ‘38.»

«Io e la Mariella siamo andati a Napoli, nel ‘39», soggiunse il Benito.

«Me, me muier, l’ho portata alla seriola e se l’è fatta bastare», interloquì il Beppo Aola. «Se no ghe dae!»

Lanfranco annuì con convinzione, come se gli avessero appena esposto un teorema particolarmente complesso ma che, alla prova dei fatti, si fosse rivelato esatto e inconfutabile.

«Sì», disse, serio. «Lo immaginavo.»

Tentò di lisciarsi un poco la barba arruffata. Tentativo inutile. I peli continuarono ad andare di qua e di là a seconda dei loro personali desideri. Lasciò perdere e intrecciò le mani dietro la schiena.

«Io, invece, al Tempio delle Anime ci sono salito», disse.

Negli occhi, gli si accese la luce dei ricordi.

«Un’ascesa complessa, lungo pareti inviolate e sentieri inaccessibili. Ho sfidato gli elementi, ho vinto la furia stessa della natura, pur di raggiungere la meta. Ho sofferto molti patimenti, ma alla fine ne ho avuto una grande soddisfazione personale.»

«Un po’ come quando la Carmen mi fa le trippe per cena», sbottò il Bartolo.

Una risata generale seguì quella battuta. Anche Lanfranco si lasciò rubare un sorriso brillante.

«Nel Tempio delle Anime, ho conosciuto la Verità», proseguì poi il figlio dei fiori. «Il saggio custode, dopo avermi sottoposto alle tre prove della luce, mi ha permesso di accedere alla sala del silenzio, dove lo specchio degli orizzonti mi ha mostrato ciò che è, ciò che fu e ciò che sarà. E, così, ho potuto ascoltare per la prima volta la voce di Vrillon il Saggio.»

Nessuno fiatò, in risposta alle sue parole. Così, Lanfranco poté continuare.

«In passato, più volte, Vrillon fece visita al nostro mondo e parlò agli esseri umani. Il suo messaggio, dapprima ascoltato, venne infine dimenticato, ma egli – al contrario – non si dimenticò di noi. E infatti, come prevedevo, ieri sera ci ha dato una nuova prova della sua venuta… capite? Egli si sta preparando a un grande ritorno, quello definitivo, e ci sta ammaestrando perché le nostre menti siano finalmente pronte al grande momento in cui lo accoglieremo tra tutti noi!»

Ancora una volta, fu soltanto il silenzio a replicare alle parole di Lanfranco.

L’hippie ammiccò, sperando di ottenere almeno un segno di conferma da parte di quel gruppo di vecchietti. Ottenne soltanto sguardi stralunati e volti impassibili.

Il momento imbarazzato durò quasi un minuto.

Poi il vociare dei vecchi esplose all’unisono, e tutti quanti cominciarono a inveire contro di lui.

«Ma basta con ‘ste casade!»

«Me vulie vardà la partita, mia senter chele boiate!»

«Va’ a laurà, va’, invece che perder temp, scansafatiche!»

«Ma mochela, schena falada!»

Improperi e villanie continuarono a montare. Ben presto, il bar cominciò a riecheggiarne completamente. Nemmeno nei peggiori tornei di Trisacco, quando a ogni carta messa in tavola faceva seguito una minaccia di morte o almeno di castrazione, si era mai sentita una simile baraonda nel Bar Centro.

Lanfranco sorrise con mestizia.

Ci aveva provato, ma avrebbe dovuto sapere che sarebbe stata una sfida perduta in partenza. Non sarebbe stato in quel buco di provincia, che qualcuno avrebbe potuto comprendere il grande avvenire che avrebbe atteso la razza umana se solo fosse stata cosciente dei veri misteri dell’universo.

Prese dal tavolo la tazzina e la vuotò. Si assicurò di avere con sé il taccuino e, senza più badare a tutte quelle voci che lo insultavano, uscì a passo lento dal bar.

 

 
   
 
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