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Autore: Orso Scrive    08/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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16.

 

 

Reggio Emilia, maggio 2013

 

 

«E ora a voi, ragazzi, eh… domande? Risposte? Considerazioni?»

Per un istante, l’intera aula restò sospesa. Un silenzio in cui galleggiò l’attesa… e poi scoppiò tutto all’improvviso.

Da ogni banco, da ogni lato, tutti i ragazzi e le ragazze presenti aprirono bocca all’unisono, chiedendo, dicendo, domandando, affermando. Una cacofonia inesplicabile, ma che fece allargare un sorriso luminoso sul volto del professor Lancellotti. Amava quando i suoi studenti si interessavano a un argomento e volevano partecipare in maniera attiva alla lezione. Poco importava, poi, che si trattasse di un argomento decisamente deviato rispetto alle direttive imposte dal Ministero. Tanto, in quell’aula, gli alti e pomposi papaveroni ignoranti che, cullandosi nella loro presunzione di sapere tutto – quando, invece, erano solo dei boriosi incapaci che non sapevano nulla – davano gli ordini da Roma, non avrebbero mai messo piede.

«Uno alla volta, uno alla volta», li invitò il professore, pacato. «Cerchiamo di non parlare tutti insieme, eh… altrimenti, che cosa si capisce?»

I ragazzi non gli diedero granché retta. Si calmarono un poco, ma continuarono lo stesso a parlare. Ciascuno di loro aveva da esporre la propria teoria in merito, e non aveva nessuna intenzione di cedere il posto agli altri.

L’unico che, come al solito, preferì restarsene in silenzio, fu Alberto Manfredi.

Silenzioso come sempre, il ragazzo sedeva in terza fila, su un banco accostato alla parete. La stessa parete a cui si era appoggiato con tutto il peso del proprio corpo. Disposto di fronte a sé aveva un quaderno fitto di appunti e l’astuccio Eastpak da cui aveva tirato fuori le sue tre penne al gel, blu, nera e verde. Lo zaino rosso giaceva abbandonato accanto al banco.

Alberto non aveva mai fraternizzato più di tanto con i suoi compagni di classe. Loro erano tutti amici di vecchia data, che uscivano insieme il sabato sera e si frequentavano anche durante l’estate. Lui, quando capitava di uscire il sabato, lo faceva con pochi amici che frequentavano altri istituti; e le sue estati le aveva sempre passate a casa di sua cugina, sul lago di Garda, vicino a dove abitava la sua amica Aurora. Amica che non vedeva l’ora di rivedere. Ormai contava i giorni che lo separavano dalla fine delle lezioni e, di fatto, da lei. A dire il vero, aveva cominciato a contarli fin da settembre. Aurora era una calamita, una forza magnetica da cui Alberto faticava a tenersi troppo a lungo lontano.

Questa volta, però, la lezione aveva destato in lui un interesse particolare. Non che non capitasse spesso: amava ascoltare il professor Lancellotti parlare. Ma stavolta, l’effetto era stato persino maggiore del solito. Qualcosa si era svegliato, nella sua mente. Un ricordo di alcuni anni prima, una magica notte trascorsa insieme ad Aurora, una notte che né lui né lei avrebbero mai potuto dimenticare…

Prima ancora che avesse potuto formulare un pensiero concreto e di dare una definizione a quella ridda di memorie, il suo braccio scattò verso l’alto. Il professore gli rivolse un ampio sorriso.

«Ecco, vedete, eh… prendete esempio dal vostro compagno Manfredi, che chiede il permesso di poter parlare, eh…»

Alberto arrossì e abbassò di scatto il braccio. Ormai però era fatta. Aveva gli occhi di tutta la classe puntati addosso. Quelli di Lancellotti lo scrutarono con una tale intensità che si sentì trapassare da parte a parte. Il professore aveva il dono raro di saper sbirciare nelle coscienze. Impossibile nascondergli qualcosa.

Anche se avrebbe preferito sparire, ora gli toccava parlare.

«Ecco, io…» balbettò. «Sì, insomma… qualche anno fa… a me e a una mia amica… ci è sembrato di avere visto un… ufo… disco volante, ecco…»

Parlare gli era riuscito difficile. E più difficile ancora gli riuscì restare dove si trovava, quando sentì alcune risatine levarsi di qua e di là per tutta l’aula. Avrebbe tanto voluto essere davvero rapito da un mezzo extraterrestre e portato in un’altra galassia, in quel momento. Specialmente quando le risatine si fecero più forti, seguite da parole di scherno.

«E cosa vi eravate fumati, tu e la tua amica?» domandò la voce di Matteo.

«E da quando tu hai un’amica?» chiese Ilaria, con disprezzo.

«Ma te la trombi, Manfredi?»

«Per me è un’amica immaginaria… l’hai mai toccata?»

Forse altre malignità sarebbero potuto seguire a quelle, ma Lancellotti mise subito tutti in riga.

«Zitti!» disse, secco. Per una volta, aveva messo da parte il suo solito tono pacato e gentile. «Non prendete in giro il vostro compagno! Ma come, abbiamo appena finito di parlare di queste cose, e se uno di voi dice di avere visto qualcosa di insolito, voi lo trattate in questa maniera?!»

Un silenzio profondo scese nell’aula. Un silenzio secco e teso. Un silenzio che disse ad Alberto che, durante la ricreazione, avrebbe fatto meglio a nascondersi da qualche parte, se voleva evitare di dover incorrere in pesantissime prese in giro da parte dei compagni. Andare a scuola diventava ogni giorno di più un inferno e, se non fosse stato per il suo desiderio di conseguire un diploma, Manfredi avrebbe volentieri accarezzato l’idea di mollare tutto e trascorrere il resto della sua vita a lavorare i campi, come i genitori, come la sorella, come i nonni… come quasi tutti i suoi parenti, insomma, se si escludeva la cugina, che si era sposata ed era andata a vivere sul Garda proprio per sfuggire a tutto questo.

E anche Alberto Manfredi voleva sottrarsi a quel destino antico. Anche se questo avrebbe significato dover sopportare ancora per un po’ tutta quella gente che gli era toccato di avere come compagni di classe e che stentava a sopportare. Per fortuna che c’era Aurora, a tenerlo su. C’erano le conversazioni con lei via Messenger e Facebook e, all’orizzonte, la prospettiva di vederla e abbracciarla ancora una volta. E, prima o dopo, Alberto ne era certo, sarebbe giunto il momento in cui avrebbero potuto stare insieme sempre, e non soltanto durante l’estate.

Il professore gli sorrise in modo benevolo.

«E allora, Albi, com’era fatto, questo disco volante, eh…?» domandò. «E dove lo avete visto, di preciso? E quando, eh…?»

Alberto deglutì. Odiava parlare di fronte a tutti. Ma ormai il dado era stato tratto.

«Sarà stato… no, ecco: era l’estate del 2009. Agosto mi pare. Era agosto? Sì, sì, ecco, era agosto, perché volevo vedere le stelle cadenti, quelle della notte di San Lorenzo. Sul lago di Garda. Io ho visto passare in cielo questo disco nero, e allora l’ho seguito e sono andato a chiamare la mia amica, perché volevo che lo vedesse pure lei, e c’era pure altra gente mi pare, quindi non è che ce lo siamo sognati… ed era tipo nero, ma con delle luci che ruotavano, pareva una specie di trottola, e le luci colorate mi pare che erano nove… sì, erano nove, sì… poi a un certo punto è salito altissimo verso il cielo e poi è scomparso… perché non ho detto che era abbastanza basso, saranno stati forse cinquanta metri da terra, ma anche meno, non so, anche perché era grosso e non si capiva bene, poi col buio, ecco, no… sì.»

Aveva parlato tutto d’un fiato, cercando di dare ordine in fretta a tutti i suoi pensieri. Non fu sicuro di aver dato una spiegazione esaustiva o dettagliata, ma di più non avrebbe saputo fare. Più parlava e più Alberto si era sentito il viso scottare dall’imbarazzo di dover dire una cosa simile di fronte a tutta la classe.

Comunque, al professore tanto bastò.

«Per fortuna non stiamo facendo lezione di italiano, Albi, altrimenti ti saresti preso un uno suonante sul registro, eh… Ho capito ciò che hai visto, in ogni caso. La tua descrizione, come dire, corrisponde, eh…»

Sorpreso, Alberto sollevò lo sguardo dalle sue tre penne – dove lo aveva tenuto puntato per tutto il tempo – e fissò il professore. Gli occhi azzurri di Lancellotti ricambiarono con una scintilla di complicità.

Il professore mise le mani dietro la schiena e ricominciò a muoversi piano lungo la stanza, calamitando su di sé l’attenzione generale.

«Vedete, nel suo libro, Euprepio Filelozio parla molto a lungo di un essere intergalattico che, in tempi lontanissimi – ere remote, ormai dimenticate – visitò il nostro pianeta, portando un messaggio di pace e di fratellanza agli uomini, eh... Il suo nome era Vrillon. Egli è stato più volte raffigurato in opere d’arte antichissime, e appare sempre come una figura alta, imponente, dietro la quale attende il suo mezzo di trasporto, eh… un disco a forma di trottola, circondato da un numero variabile di lucette, spesso nove, eh... Non lontano da qui, nelle valli dell’arco alpino, tale simbolo è conosciuto come Rosa Camuna: un simbolo così importante da essere divenuto l’emblema della Regione Lombardia, eh... Ma è un simbolo, per la verità, presente in ogni angolo del mondo, pur con delle variazioni significative a seconda della posizione geografica e dell’epoca, eh…»

Il professore fece una pausa, toccò il muro con le dita e ricominciò a parlare e a camminare.

«Perché vedete, ragazzi: Vrillon si è presentato più volte, in ogni latitudine e in ogni epoca, eh… è sempre tornato a farci visita: e, a quanto pare, il nostro Albi ha avuto l’immensa fortuna di incontrarlo durante uno dei suoi ritorni, eh…»

Ancora una volta, lo sguardo del professor Lancellotti e quello di Alberto si incontrarono. E, se mai fu certo di qualcosa in vita sua, in quel momento il ragazzino ebbe la sicurezza matematica che il docente non si stava burlando di lui. Lancellotti credeva davvero a ciò che gli stava raccontando e, in poche parole, non aveva alcun dubbio riguardo al fatto che lui e Aurora avessero davvero visto qualcosa di straordinario, nel cielo stellato di quell’estate passata.

Una certezza che si fece largo dentro di lui e rischiò quasi di soffocarlo. Perché, fino a quel momento, Alberto aveva cercato di convincersi di aver sognato, di aver immaginato tutto, di aver scambiato qualcosa di normalissimo per un fatto insolito.

Da adesso in poi, con la benedizione del suo professore, sarebbe stato difficile farlo. Forse persino impossibile. Era venuto il momento, per Alberto Manfredi, di abbandonare ogni certezza e di cominciare a convincersi che il mondo non finiva lì, dove sempre aveva creduto. Il mondo andava ben oltre le strade che si percorrevano ogni giorno, si spingeva al di là delle luci e delle tenebre, lambiva i confini dell’orizzonte e li varcava.

E, da quella mattina, Alberto Manfredi ebbe una certezza: il suo scopo, nella vita, sarebbe stato quello di non fermarsi alle apparenze e di andare oltre, di varcare quei confini, quelle colonne d’Ercole che gli esseri umani avevano eretto per non dover affrontare l’ignoto e tutti i timori che esso conteneva nel proprio ventre infinito.

Come se gli avesse letto dentro tutto questo, il professor Lancellotti sorrise con fare incoraggiante. E se Euprepio Filelozio aveva mai cercato qualcuno che si sarebbe rivelato n grado di aiutarlo e di dare corpo e forma alle sue teorie, ora seppe di averlo trovato.

Ma non era quello il momento né il luogo per parlarne.

«Allora, ragazzi, qualcun altro, tra di voi, ha mai visto qualcosa di insolito, nel cielo?» domandò. «Avanti, non siate timidi, eh…»

 
   
 
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