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Autore: drisinil    09/11/2022    2 recensioni
[kurotsuki] [nospoiler] [canonverse] [long: 2 capitoli/settimana]
«Signor è-solo-un-club sei senza parole?» lo provoca Kuroo. «Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!»
«Okay, ma solo se il brindisi mi piace» risponde Kei con arroganza, spingendosi gli occhiali sul naso.
Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»
«Se vuoi...»
Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di scostarsi dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, crea pressione e controlla il gioco.»
Kei sorride, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto.
E' il vino più buono che abbia mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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29 - Vecchi semi, nuovi fiori



17 novembre 2012

Con la logistica, Kuroo Tetsurou è pessimo. Sottostima i tempi e non considera nessun imprevisto, come se l'intera popolazione di Tokyo, semafori compresi, fosse ansiosa di aprire un varco al suo passaggio, solo per il piacere di dare a lui la precedenza. Il risultato è un continuo affannarsi, per poi arrivare comunque in ritardo. Mentre sfrecciano sulla moto in mezzo al traffico, Kei decide che le prossime volte, la tabella di marcia la farà lui.

Se ci saranno delle prossime volte.

Di buono c'è che Akaashi è stato puntualissimo e Kei è riuscito a finire tutto prima che arrivasse Kuroo ed è anche moderatamente soddisfatto del risultato. Ad Aki farà uno squillo più tardi, dal treno. Intanto, gli ha lasciato un post-it attaccato al frigorifero.

Quando inchiodano di fronte all'ospedale sono le undici meno un quarto: Kuroo è in ritardo clamoroso per la cerimonia; abbandona il suo passeggero all'ingresso e riparte subito, blaterando inutili scuse.

Nel giro di pochi minuti Kei si trova di nuovo nel corridoio del reparto di cardiologia, di fronte alla stanza ventisette, con in mano una scacchiera portatile. Le sedie di plastica blu oggi sono vuote. 

Quello che è certo, è che deve essersi rimbecillito del tutto per aver accettato un tête-à-tête con il nonno di Kuroo senza neanche la decenza di essere presentato come si deve. Mentre si toglie il cappotto e le scarpe, si sente come un rappresentante di aspirapolveri, o quei tizi delle sette religiose: gente che uno non è mai contento di avere alla porta e che non vede l'ora di buttare fuori.

Per tirarsi indietro, però, è tardi. Bussa. Dall'interno una voce bassa lo invita ad entrare.

«Buongiorno» saluta Kei, inchinandosi. Keirei: inclinazione di trenta gradi esatti; il rispetto della forma è un faro nella nebbia di quel disagio. Anche poter contare su una faccia impassibile aiuta.

«Vieni avanti» lo invita Kuroo Tomo, in un colpo di tosse. E' seduto su un sedia imbottita, accanto al letto, con la flebo attaccata al braccio. «Tu devi essere il famoso Tsukishima Kei.»

«Famoso non direi, ma sono io» obietta Kei cortesemente, avvicinandosi.

«Famoso in casa nostra: entrambi i miei nipoti hanno  parecchio da dire sul tuo conto.»

Su quella scelta di parole ambigua, Kei manda giù qualche gallone di saliva, evitando accuratamente lo sguardo del suo interlocutore. Iniziare facendosi mettere in imbarazzo non è quello che sperava. Chissà che cazzo gli è andato a raccontare Tetsurou, a suo nonno. Scemo com'è, potrebbe avergli detto qualsiasi cosa.

«Perché non ti prendi una rivincita e mi parli un po' tu, di loro?» suggerisce il vecchio, con leggerezza. «Certo che sei davvero alto. Non vorresti sederti? Mi verrà il torcicollo, altrimenti.»

Sedersi sul letto di una persona anziana che non conosce affatto è ben oltre il limite della familiarità che Kei è disposto a concedere. Mentre entrava, ha scandagliato la stanza: un letto, un comodino, un armadietto di metallo all'ingresso, un portascarpe, un tavolino quadrato con due sedie, una vecchia televisione attaccata al muro.

Va a prendere il tavolo e lo sistema senza sforzo di fronte alla poltrona occupata da Kuroo; all'altro capo posiziona per sé una delle sedie.

Ora che sono separati da un solido piano di formica verdina, Kei prende coraggio e solleva lo sguardo, ritrovandosi a fissare Kuroo Tomo con gli occhi sgranati. E' praticamente una macchina del tempo puntata sul futuro: sta guardando Tetsurou come sarà fra qualche decennio. Deglutisce ancora, si sistema gli occhiali.

«Geni dominanti» commenta Tomo-sama, con un sorriso divertito.

Ecco da chi ha imparato lo scemo a leggere nel pensiero.

«Tetsurou sostiene che sei un eccellente giocatore» continua il vecchio, indicando la scacchiera.

 Kei la spinge verso di lui sul piano del tavolo, accompagnandola con tutte e due le mani. «Per la verità, non abbiamo mai giocato. Lui è bravo?»

«Secondo te?»

«Se è vero che lo shogi è uno specchio del carattere di chi gioca, allora Kuroo-senpai deve essere un avversario che pensa in modo pericoloso, ma poi agisce con troppa irruenza, senza valutare bene tutte le conseguenze. Potrebbe peccare di eccesso di fiducia.»

«Preciso e affilato come un bisturi» commenta il vecchio. Lo dice in un modo tutto particolare, che lascia il dubbio se sia o meno complimento. «Sembra che tu lo conosca bene.»

Lo sguardo di Tomo-sama è una radiografia e Kei prova la sensazione di essersi fatto cogliere in flagranza, non è chiaro di quale reato. «E' un tipo molto estroverso» chiarisce, con una smorfia noncurante.

«Vero anche questo» replica Kuroo, facendo scattare la chiusura metallica della scacchiera.

Kei ha la netta impressione che gli stia dando ragione come si fa con i matti, o con i bambini.

«Abiti a Miyagi, Tsukishima, vero? Dove, di preciso?»

E' un'inquisizione in piena regola, camuffata da conversazione banale. Qualcosa contro cui Kei opporrebbe, normalmente, una strenua resistenza, fatta di silenzi insolenti e monosillabi astiosi. Ma non c'è niente di normale in quella situazione, nessuna regola di facile applicazione, nessun precedente. Bisogna improvvisare: Kei si appoggia allo schienale della sedia, incrociando le gambe, come se fosse perfettamente a suo agio, anziché su una graticola.

«Osaki.»

«Non proprio a due passi da Tokyo.»

«Un paio d'ore di Shinkansen.»

«Il che non diminuisce la distanza» osserva Kuroo Tomo.

Kei si sente all'angolo. «Se ci fosse il teletrasporto le distanze non conterebbero. E' il tempo che ci vuole a coprirle che le definisce.»

Il vecchio appoggia gomiti e avambracci sul tavolo e fa leva per sporgersi un po' in avanti. «Davvero molto filosofico. Ma quello che cercavo di dirti, ragazzo, è: grazie. Il tuo è stato un gesto di vero affetto verso mio nipote, nel momento del bisogno. Lui ti è molto grato, ma volevo sapessi che non è il solo.»

Kei si stringe nelle spalle, come se quelle parole non contassero niente. «Siamo buoni amici» mente spudoratamente.

«Lo so» risponde Kuroo Tomo, con un sorrisetto indecifrabile.

Kei cerca di leggergli nello sguardo cosa esattamente sa. Cosa crede di sapere. Cosa intuisce. Il sorrisetto non aiuta. Neppure sentirsi le orecchie bollenti.

Nel frattempo, Kuroo ha estratto dalla scacchiera il sacchetto delle tessere. E' di seta turchese, ricamato.  Accarezza la stoffa, indugiando con i polpastrelli sui rilievi dei ricami.

A un certo punto le sue mani si bloccano. «Che ore sono?» domanda, dopo il gesto vano di guardarsi il polso nudo sotto la manica del pigiama.

«Le undici e tre minuti» risponde Kei, con una rapida occhiata al cellulare.

Al vecchio sfugge un sospiro lungo e profondo, abbassa la testa, come se qualcosa la schiacciasse dall'alto, le mani abbandonano il sacchetto e gli si posano in grembo.

Kei si alza in piedi e si inchina. «Sono imperdonabile. Non le ho espresso le mie condoglianze.» Recita le frasi di prammatica, il cui senso, in questi casi, non ha alcuna importanza.

Kuroo Tomo mormora qualche parola di risposta, ugualmente poco importante, passandosi una mano sugli occhi. Sembra improvvisamente fragile e stanco e dimostra tutti i suoi anni.

E tutto questo non va affatto bene.

«Mi farebbe l'onore di una partita, Kuroo-sama?» chiede Kei, rimettendosi a sedere. Nel suo tono c'è tutto, tranne che la compassione.

«Fra un po', ragazzo, fra un po'» risponde il vecchio, sempre con gli occhi chiusi, teso nello sforzo di dominare le lacrime.

Kei allunga le braccia attraverso il tavolo e afferra la scacchiera. La piazza in mezzo al tavolo, dispone i komadai, scioglie i cordoni del sacchetto e rovescia  giù una pioggia di tessere. Prende il Re bianco fra indice e medio e lo sistema nella sua casella di partenza, con uno schiocco da manuale.

Kuroo Tomo non muove un muscolo. Si sta chiedendo se un'infrazione così marchiana dell'etichetta - disporre i pezzi tocca sempre al giocatore più anziano o più esperto - sia sintomo di arroganza o semplice ignoranza del galateo di base. Non saprebbe quale preferire.

Seguono altri quattro schiocchi sonori, per i generali oro e argento, a sinistra e a destra del re; a ognuno, l'irritazione di Kuroo Tomo cresce.

«Ho detto che giochiamo dopo» ribadisce, scandendo le sillabe.

Un tono perentorio che, pur privato delle note aggressive, Kei riconosce benissimo. Si chiede fino a che punto somigli a Tetsurou, fin dove possa spingersi. «Certamente» risponde, condiscendente al limite dell'insolenza. E intanto continua imperterrito a far schioccare i pezzi, uno a uno: i cavalli, tutti i pedoni, le lance, infine l'alfiere e la torre.

Kuroo Tomo riconosce lo stile itoh, il che fa escludere la possibilità che il ragazzo manchi di conoscenze di base.

Kei ruota la scacchiera di centottanta gradi e sistema anche l'altro campo, uno schiocco via l'altro, con irritante regolarità di ritmo.

Quando anche l'ultima tessera è al suo posto, Tomo-sama apre gli occhi e trapassa quelli giovani del suo avversario. Spera di trovarli sfrontati e arroganti dietro le lenti, per poterlo rimettere al suo posto senza tanti complimenti. E invece si scontra con uno sguardo intelligente e rispettoso, perfino affettuoso.

«Eviterei il furigoma, Kuroo-sama. Penso sia corretto darmi almeno il vantaggio del sente, in considerazione della sua lunga esperienza» propone Kei. «Quando vorrà giocare, naturalmente» aggiunge con garbo.

Kuroo Tomo si trova disarmato, a chiedersi di che strano materiale sia fatto, quel ragazzino. Come ragioni. Cosa gli passi per la mente. Come possano convivere quell'aura brillante di sfida e quel grumo di ombre che si porta addosso.

«Sei davvero molto insistente» prova a redarguirlo.

«Chiedo scusa. La prego di attribuire tutta l'intemperanza alla mia giovane età e di perdonarla» risponde Kei, senza scomporsi.

E' il sedicenne meno intemperante che Kuroo Tomo abbia mai visto e per questo, in qualche modo, quella risposta formale è brillante.

Forse la partita era già iniziata con lo schiocco della prima tessera. 

«Nekoma» dice Kuroo Tomo, seguendo quella linea di pensiero. «Il rumore dello schiocco della tessera. Credo sia il motivo per cui tanti anni fa iscrissi Ayumi in quel liceo: il fatto che si chiamasse così.»

«E' un suono che mi è sempre piaciuto» commenta Kei. «Lo trovo... solenne. Una cosa che manca del tutto agli scacchi occidentali.»

«Giochi anche a scacchi?»

«No.»

«Perché?»

«Perché sono giapponese» risponde Kei, come fosse un'ovvietà.

E' una risposta semplice e bellissima, magari un po' straniante, da parte di un ragazzo biondo, alto due metri, con occhi come quelli. Ma Kuroo Tomo non dubita neanche per un attimo della sua sincerità.

«Davvero pensi di aver bisogno di un vantaggio, Tsukishima?»

«Ne sono sicuro.»

Kuroo Tomo annuisce, la scacchiera è già rivolta in modo che sente, il nero, spetti a Kei e gote al suo avversario.

«Allora va bene. Giochiamo» concede Tomo-sama.

Kei si lascia sfuggire un sorrisetto compiaciuto. «Yoroshiku onegai shimasu» recita, con l'inchino dovuto.

«Onegai shimasu» risponde Kuroo Tomo.

La partita inizia con lo schiocco del settimo pedone di Kei, che avanza di una casella, seguito dal terzo pedone del bianco. Kei risponde rapidamente con il generale argento, Kuroo Tomo sposta un altro pedone.

«Non ci avevo pensato» dice Kei, spostando il quarto pedone. «17 novembre: Kuroo-senpai è nato nel giorno dello shogi.»

Tomo-sama fa schioccare il proprio generale argento. «Non è il giorno dello shogi. E' il giorno di Kuroo Tetsurou. Lo shogi è molto fortunato a condividerlo con lui» commenta, allargando il sorriso.

Dispensare con naturalezza risposte magnifiche deve essere un vizio di famiglia. Kei solleva gli occhi e resta vagamente abbagliato anche da quella versione anziana di Tetsurou, con le mani macchiate dall'età e la pelle sottile e tesa sugli zigomi. Intanto, fa avanzare il generale argento di un'altra traversa, occupando lo spazio lasciato libero dal pedone.

Anche l'argento di Kuroo Tomo si muove in avanti, ma a Kei non sfugge la smorfia di disgusto, o forse di dolore, che passa sul viso del suo avversario.

«Tutto bene? Qualcosa non va?»

«Tutto bene. Non preoccuparti, muovi pure.» Kuroo-sama alza uno sguardo ostile verso il sacchetto della flebo e solleva il braccio, cercando di raggiungere la rotella di plastica. Dovrebbe alzarsi, per arrivarci.

«Posso aiutarla?»

«Vorrei chiudere quella maledetta cosa» borbotta il vecchio. L'espressione contrariata è identica spiccicata a quella di Tetsurou.

«Cos'è?»

«Non ne ho idea. Una porcheria chimica che ti torce le budella e ti fa scoppiare la testa. Pare che in questo posto ci si divertano a rendere le persone deboli e inutili come uccellini.»

Ecco anche l'irragionevolezza di Tetsurou, quando si sente con le mani legate. Kei trova la cosa tutto sommato divertente. Come unica risposta, fa schioccare il terzo pedone.

Kuroo Tomo lo guarda con le sopracciglia sollevate «Beh? Allora? Me la dai o no una mano?»

Kei si aggiusta le lenti, cercando di leggere l'adesivo sulla sacca della flebo. «Trinitrina. Forse dovremmo chiedere alle infermiere.»

«E' solo una rotella di plastica.»

«E' solo un reparto di cardiologia.»

«E' solo un favore.»

«Va bene» si arrende Kei. «Ma lo dirò a Kuroo-senpai» aggiunge, con un sorrisetto da schiaffi.

Tomo-sama sospira accigliato, facendogli segno di sedersi. «Non mi sono mai piaciuti i delatori. E non sono sicuro che ti convenga una sincerità così sconsiderata con mio nipote» grugnisce, facendo schioccare rabbiosamente la torre in quarta fila.

Il sorriso sarcastico di Kei risale fino agli occhi, come un'onda di marea. «Non mi conviene di certo. Non sempre, non in generale. Ma in questo caso sì. Se la salute di suo nonno peggiorasse, Kuroo-senpai diventerebbe insopportabile.»

«Addirittura insopportabile?»

Kei alza lo sguardo. «Avvilito. Insicuro. Smarrito. Irragionevole. Come lui non è.»

Come non sopporto di vederlo. In quella risposta non è riuscito a evitare di metterci premura, trasporto, sentimento. Mentre se ne accorge, sa già che il suo avversario ha registrato tutto.

Kuroo Tomo scuote il capo e torna a fissare la scacchiera, dove la torre di Tsukishima Kei schiocca troppo forte.

Per un po', giocano in silenzio. Una volta completati i castelli difensivi, la partita entra nel mediogioco: ogni mossa richiede più tempo e più studio. Arrivano in breve a una sorta di stallo, un precario equilibrio fra difesa e offesa.

«Mi sto già pentendo di averti dato un vantaggio» sbuffa il Kuroo-sama, serrando la sua fila di pedoni.

«Avrei dovuto chiederne uno maggiore» risponde Kei, spingendosi gli occhiali sul naso. E' sicuro che Kuroo-sama vincerà. L'esperienza perde contro la strategia solo quando lo stratega è geniale o l'esperto poco lucido. Kei sa di non essere geniale e sa anche che il vecchio è molto lucido. Ma per un po' forse può ancora tenergli testa.

A un certo punto, però, Kei si blocca: la testa inclinata, la mano che si massaggia il collo sovrappensiero. E' l'atteggiamento tipico di quando studia le partite di pallavolo dalla panchina e qualcosa non gli torna.

Si aspettava che Kuroo-sama muovesse il pedone in terza colonna. Lui lo avrebbe mangiato e subito dopo paracadutato e si sarebbe arrivati, nella peggiore delle ipotesi, a una torre galleggiante, fastidiosa ma affrontabile. Nell'ipotesi migliore, avrebbe potuto muovere lui per primo la torre e provare ad aprirsi la via per un attacco laterale.

Perché continua a stare arroccato in difesa?

Si guardano. Kei cerca negli occhi di Tomo-sama la strategia delle prossime mosse. Tomo invece sta cercando Kei. Un'anima giovane e sfuggente, con un pensiero diretto e uno laterale, una parola parlata e mille nascoste fra le righe, un'emozione mostrata e una pira in fiamme alle spalle. Per non dire del cervello di primissima categoria, dietro quegli occhi prodigiosi. Niente da stupirsi che Te-chan sia rimasto abbagliato. Fino a che punto, Kuroo Tomo non è ancora riuscito a capirlo.

Kei si decide a spostare un pedone. Sta seguendo una nuova linea di pensiero, che diventa manifesta al suo avversario poche mosse dopo.

Quando Kuroo Tomo fa schioccare il suo alfiere, a Kei sfugge una smorfia di disappunto.

«Non te la prendere, era davvero una bella trappola. Soprattutto, montata molto in fretta. Sei entrato nella shoureikai?*» 

[*NdA è la scuola legata all'associazione nazionale giapponese di shogi. Riuscire a entrarci e salire di livello è difficile ma è l'unica via per il circuito dei professionisti]

Kei annuisce. «Tre anni fa ero quarto kyu, ma è da allora che non competo in un torneo ufficiale. Suppongo di essere stato retrocesso.»

«Hai in mente di ricominciare?»

«No» risponde secco Kei, quasi in contemporanea con lo schiocco della tessera.

«Perché?» incalza Kuroo, paracadutando un pedone in una posizione pericolosamente avanzata.

E' una domanda molto indiscreta, sebbene posta in tono casuale. E poi gli occhi di Kuroo-sama guardano attraverso la superficie delle cose.

«Perché lo shogi al livello agonistico è una cosa seria» risponde Kei, continuando a studiare la scacchiera. «E io non sono abbastanza bravo.»

«Lo shogi è una cosa seria a qualsiasi livello» ribatte Kuroo Tomo. «A pallavolo sei abbastanza bravo, invece?»

Tetsurou ha preso anche questo, da lui. Questo modo di provocare che ritorce le parole senza pietà contro chi le ha pronunciate, solleva dubbi, stuzzica le insicurezze, evidenzia i punti deboli.

«Magari sì» risponde Kei, ma la voce gli esce fuori meno spavalda di quello che voleva. Prova a compensare con uno schiocco dell'alfiere, in posizione di minaccia esplicita.

Nel frattempo, Kuroo Tomo ha deciso che quel ragazzo strano e interessante si merita l'onore di un attacco senza sconti, a piena potenza di fuoco. E inizia a fare sul serio.

Kei, arretra, subisce, difende, si accorge di aver sottostimato l'avversario e ne prende atto senza perdere la lucidità. Sei mosse dopo si è già riorganizzato e parte in contrattacco, con una certa imprevedibile ferocia e un'eleganza tattica innegabile.

La concentrazione diventa profonda, le parole si spengono, il tempo rallenta, il mondo si riduce a ottantuno caselle. Resta solo quella guerra e l'ambizione di vincerla, distruggendo l'avversario, sul campo e nel morale. Cosa non facile, perché nessuno dei due è remissivo, nessuno dei due è debole o sprovveduto, nessuno dei due è compassionevole, né disposto alla resa.

Nessuno dei due si accorge che stanno entrambi sorridendo, chini sulla scacchiera.

Né si sono accorti di Tetsurou, che è scivolato nella stanza di soppiatto, per non disturbarli, e ora si sta godendo lo spettacolo, appoggiato di schiena allo stipite della porta.

 

L'ultima ora è stata durissima: dire addio alla nonna, lasciarla andare, comporre la sua urna con quelle piccole, esili ossa bianche. E poi sentirsi in colpa, per le felicità effimere e ingiuste degli ultimi giorni, come se avessero contaminato la profondità di quel lutto.

L'ultima ora è stata durissima: lasciarsi attraversare dal dolore soffocante di papà, dai rimpianti taglienti di zia Mirai, dalla pena addensata nel cuore di Ayumi, tanto più evidente quanto più tenta di coprirla di sorrisi. Pentirsi di ogni momento sprecato, di ogni capriccio, di ogni piccolo dolore inflitto, di ogni parola sgarbata. E lasciar scorrere i ricordi all'ombra delle fiamme che divorano la bara.

L'ultima ora è stata durissima: l'assenza del nonno è stata un peso sul cuore. Senza lui accanto, Te-chan si è sentito giovane e solo, in un mondo troppo grande e troppo triste. 

Solo Kei c'è stato sempre, per tutto il tempo, in trasparenza sullo sfondo dei suoi pensieri, senza mai svanire del tutto, appena oltre la coscienza, poco sotto la superficie del dolore.

L'ultima ora è stata durissima, ma adesso è diverso.

Perché sono entrambi lì davanti a lui, il nonno e Kei. In carne e ossa, seduti uno di fronte all'altro. Adesso l'aria si può di nuovo respirare, il cuore può osare un battito e un battito ancora, la vita può arrancare in avanti un altro passo. 

Niente di più che un vecchio in pigiama con la flebo al braccio e un ragazzo magro, con gli occhiali e un maglione giallo, eppure, se fossero in montsuki in una sala d'oro, non potrebbero sembrare a Tetsurou più perfetti di come sono ora. Perché il mondo di Kuroo Tetsurou è tutto lì, nel palmo della sua mano, attorno a quel tavolo di plastica, nei pochi metri quadri di una stanza che odora di disinfettante. Tutto quello che vuole, tutto quello che gli serve, tutto quello che gli basta.

Li guarda e gli sembra meraviglioso e incredibile quello che vede. Le dita di Kei tamburellano le une sulle altre, il nonno si gratta il collo, dietro l'orecchio, i piedi di Kei si arricciano nei calzini, quelli del nonno oscillano sulle punte: si stanno divertendo.

 

«Makemashita» dichiara Kei in un sospiro, coprendo con un gesto elegante della mano il komadai.

Kuroo Tomo annuisce, scrutando la scacchiera.

Kei si alza in piedi e si inchina. «Grazie per il suo tempo prezioso, Kuroo-sama» dice, compito. Era un esito inevitabile, ma la sconfitta brucia ugualmente. «E chiedo anche scusa per il mio pessimo inizio.»

Il nonno agita la mano davanti alla faccia, per scacciare quelle ultime parole. «Grazie a te, Tsukishima-kun. E' stata davvero una bella partita. Era molto tempo che non me ne capitava una così. Vorresti trattenerti per il kansou-sen? Discutiamo il nostro gioco? In alcuni punti mi è parso che forzassi dei cambi di strategia improvvisi, mi piacerebbe sapere cosa avevi in mente.»

Non è la voce pacata di Kei che gli risponde. 

«Sì, dai, nonno! Trattienilo un'altra oretta. Così anziché portarlo alla stazione, gli offro il pranzo e poi lo trascino alla mia festa a sorpresa, di cui ovviamente non sappiamo nulla. E a Miyagi, il nostro Tsukki ce lo rimandiamo domattina.»

Tetsurou che irrompe nella stanza ha l'effetto di una finestra spalancata all'improvviso: un'ubriacatura di ossigeno e di luce. Si voltano entrambi verso di lui, per riempirsi gli occhi.

«Oya, nonno, mi sembri in gran forma, oggi» dice ancora Tetsurou, sedendosi con un saltello sul bordo del letto e stringendo la mano del nonno fra le proprie.

«Grazie, Te-chan. Tu invece sembri uno che è stato allevato dai selvaggi. Entri senza bussare, interrompi una partita non ancora finita...»

Testurou ghigna compiaciuto, come fosse un complimento. «A me sembra bella che finita. Tsukki ha perso di brutto, guarda qui» commenta con irriverenza, scrutando la scacchiera. «Quanto hai resistito, Tsukki?»

«Più di te» ribatte acido il nonno.

«Più di quanto pensavi tu» risponde contemporaneamente Tsukki.

«Sono già in minoranza dopo solo un paio d'ore?» si stupisce Tetsurou, alzando le mani in segno di resa. Intanto sorride e i suoi occhi brillano.

E' un bel momento. Bello in modo diverso per ognuno dei tre. Un giorno ci ripenseranno e scopriranno di ricordarselo benissimo.

«Allora, Tsukki-kun? Non vorrai deludere il nonno! Resta per il kansou-sen, scopriamo come ti sei fatto fregare...» lo provoca Tetsurou, guadagnandosi un buffetto non troppo gentile sul collo, da parte del nonno.

«Sono spiacente, vorrei davvero trattenermi, ma non posso perdere il treno» spiega Kei, rivolto a Kuroo Tomo, con un breve inchino. Nello sguardo che lancia a Tetsurou c'è la promessa di una futura regolazione dei conti.

Kuroo reagisce con una smorfia di finta paura e il suo sguardo è una miscela irresistibile di strafottenza e bramosia. Kei vorrebbe sia baciarlo che picchiarlo.

Non appena si congeda e si incammina verso la porta, però, Tetsurou lo segue a ruota.

«Non importa che mi accompagni, in metro ci metterò lo stesso tempo» sussurra Kei, infilandosi il cappotto. «Resta con tuo nonno. Avrete molto da dirvi. Non lasciarlo solo.»

Tetsurou sospira, guardandosi alle spalle. Vorrebbe potersi dividere a metà.

E' Kuroo Tomo a sbloccare la situazione. «Tsukishima-kun, per favore, portati via mio nipote. E' qui da cinque minuti e già non lo sopporto più. Vorrei riposarmi.»

Kei sospira, si sente pressato da ogni parte da Kuroo ingombranti e difficili da gestire, tutti capaci di metterlo alle corde.

«Almeno salutalo come si deve!» ordina sottovoce a Tetsurou, con una gomitata. «Ti aspetto qui fuori.»

 

La porta della stanza ha un inserto di vetro lungo e sottile, giusto al centro. Da lì, Kei può vedere la scena all'interno, come lo spezzone di un film muto. Kuroo che aiuta il nonno a spostarsi nel letto, gli sistema i cuscini perché stia comodo e poi si siede sul bordo e gli appoggia la fronte sulla spalla. Parlano per un paio di minuti, restando in quella posizione.

La carezza affettuosa sui capelli di Tetsurou, Kei se la sente scivolare addosso come l'avesse ricevuta lui, il calore e la dolcezza di quel gesto gli saturano i sensi. Quando è successo, che le porte stagne si siano spalancate, non saprebbe dirlo. Quello che sa è che tenersi a distanza non funziona più, perché non esiste più una distanza: il giorno che quello scemo si farà male, sanguinerà anche lui.

E il risultato netto è che adesso Kei non vorrebbe più andarsene. Che tutti quei chilometri, indifeso com'è, gli fanno una paura fottuta. E forse Tokyo è un'isola: quando Kei salperà dalla stazione, tutto quello che è accaduto negli ultimi giorni smetterà di essere reale, e allora gli si spaccherà il cuore in mille pezzi.

 

Disteso nel suo letto d'ospedale, Kuroo Tomo abbassa le palpebre e segue suo nipote con la mente. Lo immagina lungo il corridoio, nell'ascensore, lo può quasi vedere mentre attraversa l'atrio gremito, a passo svelto, e poi esce, mischiandosi alla folla che c'è fuori. Li vede entrambi. Due ragazzi alti e allampanati, così simili nelle pastoie di quell'età bellissima e ingrata, eppure così diversi. Soprattutto diversi.

Gli viene da pensare che sua moglie, se fosse viva, faticherebbe ad accettarla una novità così strana. Lui stesso non sa ancora bene cosa ne pensa. E tutto sommato ha ben poca importanza.

Il guaio di tirare su dei ragazzi fantastici, è che non si limitano ad ascoltarti: di tutto quello che gli insegni si appropriano in modo profondo e personale, lo rielaborano secondo la loro natura, lo mettono alla prova, lo scompongono per coglierne l'essenza. E va a finire che dai semi che hai piantato, sbocciano fiori nuovi e sconosciuti.

E forse è proprio questo il modo giusto per mantenere vivi i principi in un mondo che gira così in fretta: accettare di vederli mutare forma senza cambiare sostanza, accettare che si evolvano fin quasi a non poterli riconoscere.

Non giudicare dalle apparenze.

Mantieni indipendente e critica la tua coscienza.

Non vergognarti mai dei sentimenti.

Questo gli hanno insegnato.

Non si può dire che non lo abbia imparato bene.

 

   
 
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