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Autore: Orso Scrive    09/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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17.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

La prima ad accorgersi della presenza del gruppetto dei vandali fu Aurora.

Con il suo passo lungo, aveva distanziato di qualche metro Manfredi, che procedeva alle sue spalle lungo il sentiero. Il tenente cominciava ad arrancare. Del resto, quando lei gli diceva che doveva allenarsi a camminare un po’ di più su terreni accidentati, lui replicava sempre di non averne bisogno e di essere in gran forma. Un sorrisetto le inarcò le labbra. Avrebbe pensato lei a convincere Manfredino a fare un po’ di ginnastica. Per fortuna, quando serviva, sapeva sempre come fare a persuaderlo. Dei due agenti, invece, non c’era più traccia. Dovevano essersi fermati a riposare da qualche parte.

Meglio così.

La ragazza si voltò e fece cenno al tenente di fare piano e non dire una parola. Lui venne avanti e, affiancandola, sbirciò attraverso i rami intrecciati di un nocciolo contorto, le cui foglie cominciavano a screziarsi di venature gialle. Aurora era certa che, tra le radici di quella pianta, abitassero gnomi e altre creature fatate.

Purtroppo, non era il momento di dedicare attenzioni ai suoi amici del Piccolo Popolo.

«Devono essere loro», sussurrò, indicando il gruppetto.

Osservarono senza parlare i quattro adolescenti. Non impiegarono che un paio di secondi a riconoscere il capobranco, quello che si faceva chiamare Sukker e adorava scrivere il suo nome dappertutto. Ad Aurora rammentò un cotechino con un ciuffo di peli pubici in testa spremuto dentro una felpa grigia piena di macchie. Da come gli altri si muovevano nervosamente, e dalle occhiate che gli gettavano quando si voltava, comprese subito la verità: i tre ragazzini più piccoli erano succubi di quel pachiderma puzzolente.

La conferma, se ce ne fosse stato bisogno, arrivò quando Sukker buttò a terra con un calcio il ragazzino biondo che portava lo zaino sulle spalle.

«Aspettami qui, Manfredi», disse, secca. Un tono che non ammetteva repliche. «E se arrivano quei due poltroni di agenti, trattienili e non far vedere loro ciò che sta per accadere. Queste cose non rientrano nei regolamenti, penso.»

«Aurora…» titubò il tenente, incerto.

Lei lo ignorò e si mosse in avanti. Scostati i rami del nocciolo, discese in silenzio il piccolo dislivello che conduceva alla radura in cui si erano raggruppati gli adolescenti. Il profumo del sottobosco le solleticò il naso, ma adesso non aveva il tempo per perdersi in quella poesia. Ci avrebbe pensato a cose fatte.

Silenziosa come un fantasma, approfittò di ogni ombra per avanzare senza essere vista. I suoi capelli rossi e i suoi abiti neri divennero un travestimento perfetto tra le foglie colorate dall’autunno e le tenebre che montavano in fretta.

Mentre si avvicinava, ascoltò la minaccia che il grassone stava rivolgendo al biondino.

«Avanti, sistema lo zaino, moscerino, altrimenti dopo ti do una lezione!»

Sulle labbra di Aurora si disegnò un sorriso diabolico, satanico. Pericoloso. Pregustò il momento di compiere un atto di giustizia. Un atto che nulla aveva a che vedere con il tesserino e il distintivo che teneva nella tasca interna del giubbotto di pelle.

Mosse un altro passo, uscendo dalle tenebre.

«E se, invece, te la dessi io, una lezioncina che non dimenticherai mai?»

Sukker sobbalzò e si voltò a fissarla. Gli altri tre si impietrirono e non fiatarono. Doveva sembrare un’apparizione fantastica, una donna altissima e con i capelli rossi, sbucata dal profondo della notte. Una dea venuta a fare giustizia. Sigyn in persona.

Ad Aurora piaceva sempre paragonarsi a una divinità. Lo trovava corroborante.

«Che cazzo vuoi, troia?!» sibilò Sukker. «Togliti dai maroni e non farmi incazzare!»

Aurora lo ignorò come se fosse stato solo un moscone fastidioso.

«Voi due», disse, rivolta alla ragazza e all’altro adolescente. La sua voce dura, secca, profonda, sembrava provenire proprio dalle labbra di una dea. «Aiutate il vostro amico biondo a rialzarsi e tagliate la corda alla svelta. Non seguite il sentiero principale: è pieno di sbirri rompicoglioni, due vecchi ciccioni e un tenente rompipalle che non vedono l’ora di mettervi le manette ai polsi. Passate da un’altra parte e andatevene a casa a scoprire quanto è bello scopare in tre o al bar a ubriacarvi o dove diavolo vi pare, basta che vi togliate di mezzo alla svelta e non vi facciate più vedere da me. Se vi ribecco da queste parti a fare danni, giuro che divento insolente.»

Aveva parlato con voce bassa e roca, lentamente. Il tono di chi non è abituato a vedere messi in discussione i propri ordini.

La ragazza e il ragazzo avanzarono verso il biondino, rimasto disteso sull’erba.

«Vieni, David», disse il ragazzo, porgendogli la mano. Lui non se lo fece ripetere due volte e si rialzò in fretta.

In breve, tutti e tre si defilarono, senza una sola parola. Per un attimo, Aurora si domandò se sarebbero davvero andati a casa a fare sesso di gruppo. Non ci credette molto, ma di certo potevano dirsi fortunati: avevano scampato grosse rogne.

Quelle che, invece, sarebbero toccate al loro amico.

«E ora a noi, bombolone», disse la giovane, girando lo sguardo verso Sukker, che non si era mosso di un centimetro.

«Ma chi ti credi di essere, troia?!» sbottò Sukker.

Nonostante palesasse sicurezza, nella sua voce vibrò una sfumatura spaventata che non sfuggì al sottotenente Bresciani.

Sul viso di Aurora, si delineò una sfumatura diabolica. L’intera sua figura parve emanare ondate di paura. Pregustò il momento di mettere in atto tutti gli insegnamenti che aveva avuto dalla visione dei film che amava e dalla lettura dei libri che adorava. Nulla a cui venissero istruiti gli allievi dell’Accademia per ufficiali dell’Arma dei Carabinieri.

«Sono la troia che ti insegnerà che cosa voglia dire davvero fare un… come lo chiami…? Un Sukker…»

Il ragazzo fece un movimento rapido. Forse provò ad attaccare, più probabilmente a tagliare la corda. Doveva aver intuito il pericolo. Quali che fossero le sue reali intenzioni, Aurora non gli permise di metterle in pratica.

Un guizzo dei suoi capelli rossi e la giovane donna fu addosso all’adolescente grasso. Le sue mani, forti e abituate a trattare con i personaggi più testardi e insidiosi, afferrarono le spalle di Sukker e le sospinsero verso il basso. Con un tonfo, il ragazzo crollò a terra. Non poté fare un solo movimento, perché subito si ritrovò con Aurora addosso. Il ginocchio destro della giovane affondò nell’inguine di Sukker e la sua mano destra gli artigliò i testicoli attraverso la tela dei pantaloni della tuta.

«Se ti muovi stringo», minacciò Aurora, con un sibilo da serpente. «E se ti muovi troppo, strappo.»

Sukker impallidì vistosamente. Rivoli di sudore freddo gli solcarono le tempie e scivolarono lungo il collo grassoccio. I suoi occhi divennero vitrei, le pupille si dilatarono per il terrore. Quando incontrò lo sguardo di Aurora, cominciò a respirare fortissimo e lei fu certa di aver sentito il suo cuore sbattere contro la cassa toracica, da quanto accelerò in preda alla paura.

Se ne compiacque.

Adorava fare paura.

Era più forte di lei.

«Ora, c’è gente che va in giro a cianciare di essere contraria alla violenza e altre stronzate del genere», mormorò. Si abbassò su Sukker e gli avvicinò la bocca all’orecchio sinistro, per mormorarvi dentro parole solo per lui. «Stronzate, lo ripeto. Adoro il sadomaso. L’unica pratica sessuale a cui mi dedico è il bondage. Godo nel dominare e nel fare male. Mi dà piacere far soffrire gli altri, sentirli urlare e contorcersi tra le mia braccia. Mi domando… vuoi provare?»

Nella sua voce era risuonata una vibrazione strana. Qualcosa di lussurioso e allo stesso tempo di mortale. Qualcosa che suggerì alla sua vittima che, se avesse accettato, avrebbe provato qualcosa di incredibile, ma anche di definitivo. Non ne sarebbe uscito vivo.

«No…» rantolò Sukker. «Per favore, no…»

«No…» ripeté Aurora, sempre parlando contro il suo orecchio. «Peccato. Sarebbe stato divertente, specialmente per me. Ma stavolta intendo darti retta, piccolo mio: non ti torcerò un capello. Stavolta. Ma se scoprirò che hai osato ancora una volta maltrattare un ragazzino più piccolo di te o scarabocchiare anche solo un vecchio muro destinato alla demolizione, tornerò.»

Fece una breve pausa. La sua mano sinistra compresse la bocca di Sukker per impedirgli di urlare e la destra strinse con forza i testicoli. Il ragazzo, in preda al dolore, si agitò e tremò. Lei lo tenne inchiodato dov’era, impedendogli di muoversi. Sentì il calore del suo corpo aumentare.

«Tornerò, lo prometto. E questo è solo un assaggio piccolo piccolo di quello che ti farò se mi avrai disobbedito.»

Lacrime calde riempirono gli occhi di Sukker e mugolii di dolore gli sfuggirono dalle labbra impossibilitate a muoversi. Lo sguardo di Aurora, fisso nel suo, parve un incubo interminabile.

Infine, le mani della giovane lo liberarono. Lei gli lasciò un breve bacio sulla guancia, assaporando il gusto della sua paura, e si rialzò con un unico movimento fluido.

«Cresci e comportati da uomo civile, bamboccio. Altrimenti non avrai scampo», minacciò, senza smettere di guardarlo. «E ora vattene via anche tu. Ti ripeto quello che ho detto ai tuoi amici: evita il sentiero, se vuoi evitare di andare in prigione. E non provare a pensare di denunciare il fatto che la donna più bella del mondo ti ha aggredito in mezzo al bosco. Nessuno ti crederebbe e manderebbero proprio me, a condurre l’interrogatorio per capire che cosa ti sia successo davvero. Comprendi cosa intendo dire?»

Sukker era rimasto sdraiato a terra, ansnate e piagnucolante. Annuì veloce.

«Io… ho capito…» riuscì soltanto a dire.

«Sparisci», ordinò secca Aurora.

Il ragazzo si mise a quattro zampe e, incespicando, si allontanò in fretta da lei. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riuscì a rimettersi in piedi. Zoppicando, senza più voltarsi indietro, si inoltrò nel bosco e scomparve.

Aurora sorrise.

Il suo incontro con il giovane bullo era durato forse tre minuti di orologio, ma era un’esperienza che Sukker non avrebbe scordato mai più. Anzi, fu più che certa che quel ragazzo, da quel momento in avanti, non avrebbe mai più utilizzato quel soprannome ridicolo.

Si girò verso il nocciolo, di cui intravedeva a malapena la forma nell’oscurità.

«Manfredi!», chiamò. «Cazzo, tenente, muovi il culo! Sempre tutto a me, tocca fare!»

Accompagnato dal rumore di foglie secche e di bastoncini spezzati, Alberto apparve nella radura.

«Io faccio finta di non avere visto nulla», sbottò. «E, se qualcuno lo domanda, tu sei sempre stata insieme a me e non abbiamo incontrato nessuno. Però, davvero, non puoi trattare a quel modo un sospettato, io credo che…»

«Taglia corto, Manfredino», replicò lei. «Il caso è chiuso.»

Colpì con un calcio lo zaino con spray e pennarelli, rimasto abbandonato sul terreno.

«Qui ci sono i corpi del reato, pronti da sequestrare. Nel verbale scriverai che il vandalo era da solo e che, appena ci ha visti, si è dileguato. Puoi usare pressappoco queste parole: appena si accorgeva della nostra presenza, il teppista prendeva la via del bosco. Lo inseguivo invano, perché sono un gattone abituato a stare in poltrona e non riuscivo a mantenere il suo passo nel bosco…»

Per tutta risposta, Alberto sbuffò. Preferì non replicare nulla.

«Si può sapere che cosa gli hai detto, per spaventarlo tanto?» domandò, invece. «Ho visto che gli parlavi all’orecchio e, quando lo hai fatto, è diventato così bianco che vedevo la sua faccia attraverso le tenebre.»

Aurora si strinse nelle spalle.

«Cose mie. Ma, se una di queste sere vieni a casa con me, posso provare a spiegartele…»

Prima che Manfredi avesse avuto il tempo di aggiungere altro, arrivarono i due carabinieri. Erano ancora più sudati e stanchi di prima, nonostante fosse chiaro che avessero approfittato di ogni roccia e di ogni tronco rovesciato per fare una sosta. Con il fiato corto, non sembravano avere un’aria molto minacciosa. Il tenente sperò con tutto il cuore che a nessuno venisse mai in mente di mandare loro a fare un pronto intervento.

«Dov’è il vandalo?» domandò uno dei due.

Manfredi assunse un cipiglio severo.

«Ci è sfuggito per colpa vostra, che siete rimasti indietro!» ringhiò. «E dubito che lo prenderemo mai più. Comunque, ha lasciato qui lo zaino con le sue attrezzature, prendetelo e mettetelo nel magazzino della roba sequestrata.»

L’altro agente sollevò un sopracciglio.

«Forse, esaminandolo, si potrebbe scovare qualche indizio per…»

«Sì, sì, mandiamolo al RIS, a Parma, sono certa che non abbiano altro di cui occuparsi che non analizzare lo zaino di un adolescente che va in giro a scribacchiare il suo nomignolo», lo interruppe Aurora, sarcastica. «Forza, prendete quell’affare a tornate in caserma. Io e il tenente Manfredi abbiamo deciso di rimanere qui tutta la notte a fare la guardia.»

«Ma…» provò a dire uno dei due agenti.

«Ma…» gli fece eco Alberto.

«Abbiamo deciso così», tagliò corto Aurora.

I due carabinieri non sentirono la necessità di replicare altro. Cercarono lo sguardo di Alberto che, rassegnato, fece loro cenno di obbedire. I due uomini, preso con sé lo zaino, fecero un breve saluto e si rimisero in cammino per tornare a valle.

Alberto e Aurora restarono soli in mezzo alla radura.

«Cos’è questa storia che dobbiamo restare di guardia?» domandò il tenente, non appena fu certo che i due agenti fossero fuori portata della sua voce.

Aurora stava armeggiando con una sigaretta e non rispose subito. Diede fuoco all’estremità e ne trasse una lunga boccata di fumo.

«Cazzo, se mi ci voleva», mormorò, infine. «Era da quando ci siamo messi a camminare su per la montagna, che avevo voglia.»

Si girò a guardarlo.

«Siamo in un posto magico, in una notte magica, Manfredino», soggiunse. «Magari non succederà nulla, oppure succederà di tutto, chi può dirlo. Mi piace essere qui e voglio rimanerci, tutto qui. Non ho voglia di andarmene tanto alla svelta. Qui si sta bene. Sento che in te vibra qualcosa di speciale, quindi sono contenta di essere qui, insieme a te. Ma non farmene pentire. Smettila di fare domande idiote e sdraiati qui con me.»

Aurora si lasciò scivolare sull’erba umida e vi si appoggiò con tutta la schiena, continuando a fumare. Dopo un attimo di esitazione, Alberto la raggiunse. I loro corpi si sfiorarono e i calori che emanavano si mischiarono insieme.

Sopra di loro, nella vastità nera della notte, brillavano le stelle.

 

 
   
 
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