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Autore: Orso Scrive    09/11/2022    1 recensioni
Il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani, del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, devono occuparsi di una nuova grana: un vandalo dall’improbabile nome di Sukker ha preso di mira i graffiti rupestri della Valle Camonica, in provincia di Brescia, imbrattandoli con bombolette spray.
Riusciranno i nostri eroi a fermare Sukker, prima che i suoi danni divengano irreparabili? Ma, soprattutto, scopriranno il mistero che si cela dietro ai graffiti rupestri, un mistero che sembra parlare di antichissime visite di esseri provenienti da altri pianeti e da altri universi? Alberto e Aurora scorgeranno questa antica verità, o il mistero resterà celato ai loro occhi?
Genere: Fantasy, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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18.

 

 

Peschiera del Garda, provincia di Verona, agosto 2009

 

 

Era alto sopra il lago di Garda, sulla perpendicolare di Sirmione. Sfolgorava di una luminescenza incredibile e incontrastabile, al punto che le numerose luci accese sulle coste apparivano poco più che lumini appena percettibili.

Era immenso. Un grande disco nero, dalla cui sommità emanava una luce rossa roteante, come se inviasse un segnale misterioso in tutte le direzioni. Se ne stava immobile, vincendo la forza di gravità e sfidando tutte le leggi della fisica. Ma la stessa esistenza di quell’oggetto, in fondo, era una vera sfida, uno schiaffo in faccia alla scienza che avrebbe comunque continuato a negarlo. Attorno gli giravano delle luci più piccole, numerose, dai colori indefinibili. Dava l’impressione di stare guardando attraverso un caleidoscopio in cui, una per una, si sommavano tutte le luci iridescenti dell’arcobaleno, o forse delle più lontane e irraggiungibili galassie, nebulose, costellazioni.

La cosa più strana, in tutto questo, era la totale assenza di rumori. L’aria era immobile, e non si udiva un solo fischio, nemmeno il più minuto. Persino l’acqua sembrava essersi fermata, e non si udiva nessuno dei tipici suoni della risacca.

All’improvviso, il disco cominciò a ruotare su se stesso. Sembrò quasi che non aspettasse altro che di essere osservato da tutti quegli occhi meravigliati per poter dare spettacolo. Ruotò sempre più veloce, assumendo la forma di una trottola, o forse di un fiore a tre petali. Le luci più piccole iniziarono a loro volta a roteargli attorno, formando una corona di colori che si mischiarono fino a fondersi in un’unica tonalità da cui non fu più possibile discernere un tono dall’altro. Presto, i colori mischiati tra di loro divennero di un bianco abbagliante, accecante.

Per un momento, fu come se dal disco si fosse dipartito un raggio luminoso che scese fino a terra, lambendo un punto imprecisato della spiaggia. Fu un attimo, un istante irripetibile, e poi il misterioso oggetto volante – silenzioso e discreto com’era apparso – tornò a sollevarsi verso il cielo, sempre più alto, stella tra le stelle, fino a scomparire del tutto.

 

* * *

 

Pippo non smise un solo istante di guaire, nascosto dietro le gambe del suo padrone. Quest’ultimo restò a bocca spalancata di fronte a quella visione. Si sentì le ginocchia diventare molli per lo spavento e fu costretto ad aggrapparsi al tronco di uno dei pini marittimi piantati lungo il marciapiede, tutto crepato e sollevato dalle loro radici.

Nonostante il terrore crescente, Gianluca non riuscì a muovere un passo fino a quando il disco volante non si fu innalzato nel cielo fino a scomparire. A quel punto scosse la testa e tornò in sé.

Abbassò gli occhi. Cane e umano si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«Che dici? Ce lo siamo sognato, vero?» bofonchiò.

Pippo agitò la coda in un segno affermativo.

«Ho esagerato a bere tre Peroni doppio malto a cena, dico bene?» chiese ancora Gianluca.

Di nuovo, Pippo diede il suo assenso.

«Devo smetterla di bere così tanto. Non è solo perché mi cresce la pancia», ragionò Gianluca, battendosi sul ventre che in effetti era parecchio rigonfio, «ma soprattutto perché mi fa male alla testa. Da domani si comincia a bere solo acqua, siamo intesi?»

Il modo in cui Pippo trotterellò attorno alle sue caviglia significò che sì, erano intesi. Basta birra. Solo acqua.

«Solo acqua», ripeté Gianluca. «Solo acqua.»

Cane e uomo si avviarono a passi lenti, senza più pensare a ciò che avevano visto, dimenticandosi in fretta di quell’immagine che non poteva essere reale. Era stata solo un’allucinazione, ovvio. Un’allucinazione dovuta all’abuso di alcol.

Non c’era altra spiegazione.

Maledetta birra.

 

* * *

 

Paolo e Daniele restarono immobili, le mani che ancora si sfioravano. Non una sola parola uscì dalle loro bocche, mentre con gli occhi seguivano quello spettacolo insieme misterioso e meraviglioso.

Mille diverse emozioni attraversarono i loro corpi, facendosi largo fin nei recessi profondi delle loro menti. Ma tra queste emozioni non vi fu la paura. Per loro, costretti sempre a nascondersi, a sfuggire la cattiveria della gente, a dover tenere celato il loro amore proprio per paura delle reazioni degli altri, questa volta non vi fu traccia di quel timore che li seguiva ovunque andassero.

Si sentirono riempire, invece. Si sentirono pervadere da uno strano calore, da una sensazione di benessere e di appagamento. Quella visione disse loro che non erano soli, che non solo il pianeta Terra, ma l’universo intero è fatto di diversità, di differenze, di tutte cose non uguali tra loro, e che è la somma di tutte questa immensa mole di variazioni a creare a quell’insieme unico e variegato racchiuso entro i confini indeterminati del Tutto.

Loro ne erano parte. Non erano esclusi da tutto questo.

Quella luce che brillò nel cielo e che danzò davanti ai loro sguardi prima di risalire nelle profondità stellari, parve venuta a comunicare proprio questo: siamo tutti diversi, eppure tutti apparteniamo allo stesso mondo, abbiamo la medesima origine. E la differenza non deve essere motivo di paura, perché in essa si cela la grandezza, la capacità di andare oltre l’apparenza dettata dalle imposizioni altrui e apprezzare tutto, fin nel suo essere più profondo.

Quando la luce se ne fu andata dal cielo, continuò a brillare negli occhi di Daniele e di Paolo. I due ragazzi la videro riflettersi nei loro sguardi quando li alzarono e li fecero incontrare.

Capirono che rimanere nascosti, d’ora in poi, non sarebbe stato altro che un errore. Non erano loro a essere sbagliati. Sbagliati erano quelli che non volevano capirli, quelli convinti che il mondo fosse regolato da leggi ben definite e immutabili, come se tutto avesse inizio e termine lì, in quei concetti a cui gli esseri umani continuavano a essere legati in modo maniacale. Troppo a lungo gli uomini avevano avuto paura di guardare oltre, di aprire gli occhi su ciò che veramente li circondava da ogni parte.

Non loro. Non più.

Si sarebbero mostrati come parte del mondo, dell’insieme, del tutto. Quella luce che si era palesata loro, sembrava essere venuta a comunicare che i vecchi concetti erano ormai sul punto di crollare – se già non lo avevano fatto – e che un mondo nuovo sarebbe nato dalle ceneri immonde di quello vecchio. Un’epoca nuova era sul punto di cominciare, un’’epoca di uguaglianza e di libertà, dove non ci sarebbero più state sciocche e inutili differenze dettate da paure ataviche e insulse.

Le loro bocche si sfiorarono per un altro bacio. Un bacio nuovo, dolce, pieno, che sapeva di spensieratezza, di vita, di futuro luminoso e acceso da una nuova consapevolezza.

«Andiamo?» sussurrò Daniele.

«Andiamo», rispose Paolo.

Si tennero per mano e uscirono dall’ombra.

Entrarono nella luce, liberi.

 

* * *

 

«Ma porca di quella…»

Marta trattenne a stento l’imprecazione. Francesca non fu altrettanto raffinata.

«Cazzo! Che cazzo è?!»

Fabio e le sue pretese qualità sessuali svanirono come nebbia al sole. Tutto ciò che seppero fu che, in quel momento, la cosa più assurda che avessero mai visto si stava svolgendo proprio davanti ai loro sguardi.

Di dischi volanti, di UFO e di extraterrestri ne avevano sentito parlare spesso. Durante l’anno scolastico, guardare Voyager il lunedì sera e Mistero il mercoledì era quasi un obbligo. Lo facevano tutti, in classe, e il giovedì mattina, alla prima ora, quando le ragazze si radunavano nello spogliatoio per prepararsi alla lezione di educazione fisica – e fosse maledetto l’idiota che aveva messo la ginnastica proprio alle otto del mattino – discutere di quello che avevano visto la sera prima era un rito imperdibile.

Ma un conto era vedere certe robe in televisione.

Tutt’altra faccenda era trovarsele di fronte nella vita reale.

«Oddio, dici che vogliono rapirci?!» domandò tutto a un tratto Francesca. Prese la mano dell’amica e la strinse, forse per cercare protezione, forse per trascinarla con sé nel caso un qualche tipo di raggio misterioso fosse disceso a lambirla.

Per un attimo, entrambe ripensarono a storie di donne rapite e messe incinte, di uomini portati a bordo di astronavi e analizzati in ogni loro parte. Storielle a cui, fino a quel preciso momento, avevano creduto e non creduto. Perché sì, era bello seguire certi programmi, perderci un paio di ore da sottrarre allo studio o ai compiti di algebra… ma, in fondo, non è che ci si credesse realmente, no?

«No, cazzo, non voglio!» strillò Marta.

Cercò di sottrarsi alla presa dell’amica.

«Voglio restare qui! Non ho ancora nemmeno mai scopato! E se devo perdere la verginità, voglio farlo con un manzo terrestre, non con un essere deforme e con le antenne viscide!»

Terrorizzate, il cuore che batteva a mille, le due amiche girarono le spalle alla misteriosa apparizione. Senza attendere di vedere che cosa sarebbe accaduto a quel punto e come si sarebbe comportato lo strano oggetto volante, cominciarono a correre e si defilarono nella notte.

 

* * *

 

 

 

Ivano Fagioli fu costretto a strabuzzare gli occhi.

Una volta, due. Tre.

Per un momento restò incredulo, domandandosi se quello a cui stava assistendo fosse almeno in qualche modo reale. Poteva essere che fosse solo un parto della sua immaginazione. A furia di parlarne e di scriverne, forse adesso aveva le allucinazioni. Un po’ come quando, durante il giorno, ci si occupa a lungo di qualcosa e si finisce di sognarlo durante la notte. Che fosse una sorta di sogno a occhi aperti?

Sbatté le palpebre.

Il disco volante era ancora lì.

Sollevò gli occhiali, si sfregò gli occhi con i polpastrelli. Guardò di nuovo. Rimise a fuoco in fretta e quell’oggetto misterioso si trovava ancora nel cielo, di fronte a lui, a emanare luci, a vorticare su se stesso senza produrre alcun tipo di suono.

Almeno, non un suono percettibile dall’apparato sensoriale umano. Perché chi mai avrebbe potuto asserire che quell’affare non vibrasse su qualche frequenza a ultrasuoni, impercettibile all’uomo?

L’ufologo si svegliò di colpo. Le più disparate teorie gli fluttuarono nella testa, vorticando proprio come il disco. Ma, prima di affrontare quelle idee, avrebbe dovuto dare la precedenza a una cosa fondamentale.

Fotografarlo.

Ivano alzò la macchina fotografica, si portò l’obiettivo agli occhi, regolò la messa a fuoco e cominciò a scattare. Scattò a raffica, un’immagine dietro l’altra, immortalando ogni singolo istante, ogni movimento del disco. Lo seguì e lo bloccò nei suoi movimenti sussultori e ondulatori, accompagnandolo nella sua salita verso l’alto, avvicinandolo con lo zoom man mano che si allontanava sempre di più, fino a quando divenne un puntolino indistinguibile dalle altre stelle e poi nemmeno più quello.

«Gesù Cristo…» fu il solo commento che Ivano Fagioli fu in grado di formulare.

Erano anni che scriveva di quell’argomento. Anni che andava alla ricerca di oggetti volanti non identificati. E adesso che ne aveva visto uno di persona, non avrebbe saputo come definirsi.

Appagato?

Forse.

O, per meglio dire, illuminato. Non avrebbe saputo dire di preciso che cosa avesse visto, in quella calda notte d’estate. Sapeva soltanto di averla vista, e questa significava una cosa ben precisa: le sue ricerche non erano vane. Non stava inseguendo un fantasma, non stava dando la caccia al fumo cercando di afferrarlo a mani nude. C’era qualcosa di reale, di concreto, in quello che faceva.

Non sapeva dove lo avrebbe condotto tutto questo. Ma adesso aveva le prove, dentro la sua macchina fotografica. Prove inconfutabili riguardo al fatto che non tutto si limitasse al solo pianeta Terra. C’era altro, là fuori, altro che aspettava di essere scoperto e studiato, qualcosa che anelava un contatto vero, con gente disposta a credere.

E Ivano adesso sapeva che sarebbe stata una sciocchezza non credere. Se fino a quel momento – ora se ne rendeva ben conto – si era occupato di ufologia solo per passatempo, magari anche per passione, ora lo avrebbe fatto con uno scopo ben preciso: divulgare al mondo intero quella che non si sarebbe più potuta considerare come una semplice fantasia.

Ivano Fagioli aspirò una lunga boccata di aria umida, che sapeva di lago, e restò a guardare il panorama nero punteggiato dalle luci accese sulle coste.

 

* * *

 

Luisa sollevò le braccia verso quell’apparizione.

Non poté fare a meno di trattenere le lacrime di gioia, quando i suoi occhi si fissarono sull’immagine del disco volante, che passò dal rosso a una serie multicolore di variazioni luminose. Tese le dita e, dalle sue labbra commosse, fluttuarono parole in una lingua sconosciuta, quella stessa lingua che le aveva insegnato Selenius Maximus durante i loro accoppiamenti a distanza.

C’era Selenius su quella nave cosmica? Un suo inviato?

Luisa se lo domandò per un solo momento, perché poi comprese la verità. La verità era che non c’erano Selenius, né Luisa, né mille altri nomi differenti, ma solo tante differenti entità, uniche e irripetibili, che assumevano un’identità differente a seconda del contesto, ma che tendevano tutte alla stessa cosa: il Centro. Il Luogo da cui il Tutto era scaturito nel principio e dove il Tutto sarebbe tornato nella Fine. Il Mare delle Origini, il Lago Cosmico che aveva assistito all’Alba della Creazione.

Luisa queste cose le sentiva lì, nella sua mente, mentre se ne stava distesa sui sassi, a fissare l’apparizione iridescente che vorticava e saliva verso il cielo, consapevole che il suo messaggio fosse passato.

L’Età dell’Acquario era giunta, Luisa lo sentì. Era arrivato il momento di prepararsi al Grande Ritorno. E sarebbe toccato a lei farsi portavoce di quella rivelazione, di condurre i suoi simili lungo la Via della Verità. Sarebbe stato difficile, ma Luisa sentì che non sarebbe stata sola, in tutto questo. Altri, di sicuro, avevano visto e recepito il messaggio, e l’avrebbero sostenuta – chi in un modo, chi nell’altro – nel portare avanti la sua missione speciale.

Luisa sorrise, mentre l’invadeva un appagamento profondo, il più forte degli appagamenti, che non aveva provato mai, nemmeno nei momenti più intensi vissuti insieme a Selenius Maximus.

Restò inerte sulla spiaggia, lasciando che i sensi esplodessero nell’intensità di quell’istante magico.

 

* * *

 

Le ginocchia di Lanfranco, già messe alla prova dalla lunga camminata, ebbero un tremito. Fu costretto a inginocchiarsi, senza staccare un solo momento gli occhi da quella visione.

Dentro di sé, il vecchio figlio dei fiori sentì risuonare una voce, una voce lontana e vicina, una voce sconosciuta ma che riconobbe all’istante.

«Sono tornato per riprenderti, mio ambasciatore. Per lunghi anni hai portato al mondo intero il messaggio di Vrillon. Chi ha voluto ti ha ascoltato, ma molti sono stati sordi alle tue e alle mie parole. Ora, se lo vorrai, l’arduo compito di recare la novella della mia prossima venuta passerà ad altri, e tu potrai per sempre riposare insieme a me. Altri mondi ti attendono, altre esperienze, nuove consapevolezze. Ma solo se lo vorrai.»

Senza smettere un solo istante di sorridere e di contemplare il disco volteggiante, Lanfranco meditò su quelle parole e sulle conseguenze che avrebbero avuto.

Provò a pensare a cosa sarebbe accaduto se non le avesse ascoltate. Sarebbe rimasto al suo posto, sempre più solo, sempre più ignorato e incompreso da quelli che sempre meno considerava suoi simili, sino a quando sarebbe giunto il momento di andarsene per sempre. Forse, restando, avrebbe potuto scrivere ancora qualche storiella, che nessuno avrebbe mai letto. A meno che, ovviamente, dopo la sua morte qualche editore furbacchione non avesse deciso di sfruttare il suo nome, di rilanciarlo e di farlo riscoprire. Succedeva sempre così, quando moriva uno scrittore misconosciuto.

E se, invece, se ne fosse andato adesso? Se avesse accettato di seguire Vrillon – perché quello era Vrillon, ne era più che sicuro – in un nuova e indeterminata avventura? Provò a pensare a cosa sarebbe successo. Prima o poi, la Marisa, la sua vicina di casa, si sarebbe accorta della sua scomparsa. Avrebbe chiamato i carabinieri o i vigili del fuoco. Avrebbero fatto irruzione nella sua casa, senza trovare traccia di lui, né nessun indizio su dove potesse essere andato. Magari, dopo qualche giorno, sarebbe intervenuto quel programma di Rai Tre, come si chiamava… ah, sì: Chi l’ha visto? Avrebbero fatto qualche domanda in giro, qualcuno avrebbe raccontato che lui era un vecchio strano, con la mania dei mondi orientali. Forse, avrebbero supposto, era tornato in Nepal, in India o in qualsiasi altro posto che avesse visitato in gioventù. Solo che non risultavano biglietti aerei o altro che avrebbero potuto suffragare questa ipotesi. Il mistero si sarebbe infittito e a quel punto sì, che qualche volpone di editore avrebbe deciso di sfruttare la sua immagine per fare un mucchio di soldi. Lo avrebbero rilanciato come Lanfranco Bonometti, lo scrittore di fantascienza svanito nel nulla, forse rapito da un disco volante. E nessuno avrebbe mai saputo di quanto si fossero avvicinati alla verità, così facendo.

Eccitante.

Questo sì che gli piaceva. Dopo una vita da emarginato, Lanfranco sarebbe stato sulla bocca di tutti. Non che gli importasse, però… doveva riconoscere che fosse parecchio divertente.

Aveva sempre saputo come fare a divertirsi con poco.

Sempre che, abbandonare per sempre il pianeta a bordo di un disco volante giunto dalle profondità del cosmo, si potesse per davvero definire “poco”.

In effetti, ci sarebbe stato qualcosa di poter dire, in proposito. Ma non spettava a lui filosofare sull’argomento. Non questa volta.

«Arrivo», disse. «Vengo con te. Sono pronto.»

Non aveva ancora terminato di pronunciare quelle parole, che un raggio luminoso lo avvolse completamente e Lanfranco non fu più visto da nessuna parte sulla Terra.

 

* * *

 

Fu quasi un istinto irresistibile. La mano di Alberto non bastò più ad Aurora. Quella visione la stava facendo sentire sempre più piccola e insignificante. E lei non era abituata a sentirsi tale. Si strinse al corpo del suo amico e lo tenne stretto come se fosse stato lui la sua ultima ancora di salvezza mentre il mondo intero, tutto ciò che avevano sempre creduto vero e reale, andava lentamente in pezzi davanti ai loro occhi.

Alberto ricambiò la stretta. Dopo la corsa, dopo l’eccitazione, cominciava ad avere paura. Aurora, avvinghiata a lui, con le gambe incastrate tra le sue, con il seno premuto contro il suo petto, con il respiro ancora pesante per la corsa che si intrecciava al suo, lo fece sentire di nuovo vivo. Di nuovo al sicuro.

Perché si poteva dire qualsiasi cosa, dell’avvistamento di un disco volante, ma non che regalasse una vera sicurezza. Un’immagine simile, tanto lontana da qualsiasi cosa fosse ritenuta normale e quotidiana, portava con sé una paura sottile, capace di strisciare nelle tenebre fino a loro, di farsi largo nelle loro coscienze e di avvilupparle con la promessa terribile di non lasciarli andare mai più.

Forse, trovarsi da soli in quel momento, con quell’apparizione negli occhi, sarebbe stato terrificante. Ma non erano soli. Erano insieme, e questo bastava.

I loro odori che si mischiavano, il caldo dei corpi sudati, il deodorante di Alberto e il profumo del tabacco di Aurora, la sensazione di contatto dei loro corpi abbracciati, tutto questo li ricondusse dove si trovavano davvero. La ghiaia sotto i piedi, il lago di fronte, gli alberi dietro e… be’, sì, quella cosa di sopra. Qualsiasi cosa fosse davvero. Ma la stavano vedendo, e potevano accettarla, perché erano insieme.

Restarono muti a contemplare.

Dopo aver sparato una specie di raggio luminoso – per una frazione di secondo, Alberto ebbe la vaga impressione di vedere una sagoma umana dentro quel raggio, ma forse quella fu davvero soltanto una fantasia – il disco volante roteò verso l’alto, fino a scomparire. Forse per sempre. Forse, invece, un giorno o l’altro sarebbe tornato.

Chi avrebbe potuto dirlo.

Per un istante ancora, restarono muti e silenziosi.

Poi…

«Wow», fece Aurora, restando incollata a lui. «Cazzo, Manfredino. Giuro che se mi avessi fatto fare una corsa del genere per niente, ti avrei costretto a leccarmi la Filippa seduta stante, qui, sudata e puzzolente com’è, per riprendermi dallo sfinimento.»

Alberto le sorrise contro la guancia. Si trattenne a stento dal dirle che lo avrebbe fatto più che volentieri, sudata o meno, proprio lì sulla spiaggia, senza perdere un solo istante. Certe cose le pensava di continuo, ma lui non era come Aurora, non riusciva davvero a dirle. Chissà cosa sarebbe successo, tra di loro, se avesse avuto una boccaccia sfacciata come quella della sua amica.

«Ma… ma…» proseguì Aurora, guardando il cielo ormai pieno solo delle stelle. «Ma… wow…»

Da che ne avesse memoria, Alberto Manfredi non rammentava di aver mai visto la sua amica Aurora Bresciani restare senza parole. Era un evento davvero miracoloso, e solo un disco volante era riuscito a farla ammutolire. Avrebbe in qualche modo potuto approfittarne, farsi vedere padrone della situazione e altre cose del genere. Solo che non ci riuscì. Perché anche lui era senza parole.

Non fu affatto sorpreso di scoprirsi a tremare.

Tremava lui e tremava Aurora. Tremavano insieme, nell’afa della notte estiva. Tremavano come se un vento gelido li stesse sferzando. Un vento che proveniva da altri mondi… da altri universi.

Come se si fossero messi d’accordo, si abbassarono all’unisono e si misero a sedere sulla ghiaia. Aurora distese le sue lunghe gambe in direzione del lago. Alberto, vicinissimo, le sfiorò la coscia dura, dalla pelle bollente. Una carezza che riportò entrambi alla realtà, a una dimensione più concreta.

«Dici che era un’astronave o qualcosa di simile?» pigolò il ragazzo.

Lei non distolse lo sguardo dal cielo.

«Di certo non era un aereo o un elicottero», incalzò lei.

«Un’attrazione di Gardaland, magari?» provò Alberto.

«Non dire sciocchezze, Manfredino. Non hanno abbastanza soldi per fare una cosa del genere. Non credo che nemmeno l’Air Force degli USA sarebbe in grado di costruire una macchina di quel tipo.»

Alberto si grattò una guancia.

«Ho sentito dire, qualche volta, che sotto il Monte Baldo c’è una specie di base militare segreta della NATO. Tipo Area 51 o roba simile. La conoscono tutti, l’avrai sentita, no? Forse quell’affare è uscito da lì.»

Aurora ridacchiò. Si contorse per prendere il pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei suoi shorts. Nel farlo, la spallina della canottiera nera le scivolò lungo la spalla, fino a mezzo braccio. L’altra la imitò. Come suo solito, non indossava il reggiseno e le tette furono libere di guardare anche loro il lago e le stelle. Area 51 e dischi volanti svanirono in fretta dalla mente di Alberto.

Ma non da quella di Aurora.

«Se la base è segreta, com’è che la conoscono tutti?» domandò, con la sigaretta tra i denti.

«Be’…» borbottò Alberto, insicuro di che cosa dire.

Aurora fece scattare l’accendino. Prese una prima boccata di fumo e la cacciò fuori. Tenendo la sigaretta stretta nella mano destra, appoggiò la testa alla spalla dell’amico. La nuvoletta di fumo li avvolse ed entrambi la respirarono.

«Grazie per aver pensato a me e avermelo mostrato, qualunque cosa fosse per davvero e da qualunque posto venisse», sussurrò Aurora, con una dolcezza improvvisa. «Hai voluto condividere con me un istante magico. Grazie, davvero.»

Ogni tanto, lei aveva simili uscite sdolcinate. Arrivavano sempre all’improvviso, ma ogni volta erano come un’epifania. Alberto le passò il braccio attorno alle spalle e la strinse con delicatezza.

«Solo con te avrei potuto condividere questo momento», disse.

Con garbo, le risistemò le spalline della canottiera. Aurora sorrise nel prendere un’altra boccata di fumo.

Le stelle rilucevano nei loro occhi.

 

 
   
 
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