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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Prenderai i miei gioielli.” aveva detto Caterina, in quel freddo pomeriggio di Natale, mentre parlava con la figlia a tu per tu riguardo il futuro: “Avrai bisogno di qualcosa da poter impegnare all'occorrenza... Troilo è stato molto chiaro con me, e spero che lo sia stato anche con te: San Secondo è uno Stato che va ricostruito dalla fondamenta e i soldi vi serviranno più di ogni altra cosa...”

La Riario, un po' in imbarazzo, aveva provato a rifiutare: “Quei gioielli sono anche dei miei fratelli...”

La Tigre, però, non aveva ammesso repliche e aveva sedato la questione spiegando: “I gioielli sono innanzitutto miei, dunque ne dispongo come meglio credo. In secondo luogo, Ottaviano e Cesare da me non avranno più che lo stretto dovuto. Galeazzo, Sforzino e Bernardino avranno da me quel che potrò dare loro e Giovannino potrà fare affidamento sugli immobili di suo padre, se vincerò il processo...”

Tanto era bastato alla Riario per placare i propri sensi di colpa, mentre la Leonessa, complice la stanchezza che provava quel giorno e qualche colpo di tosse di troppo, aveva continuato a pensare a quello scambio di battute per tutto il resto della giornata.

Ancora a notte fatta, la sua mente si trovava ingarbugliata nella questione della sua eredità. Ciò che la innervosiva non era pensare a come dividere i suoi – pochi – beni, perché più o meno aveva già deciso. Avrebbe lasciato a Ottaviano e Cesare quel poco che fosse stato sufficiente per non sembrare una madre degenere, a Galeazzo avrebbe riservato una cifra maggiore, se l'avesse avuta, e possibilmente del terreno, o lì a Firenze, o, se fosse riuscita, gli avrebbe destinato il Bosco, che, a detta del De Rossi, poteva essere recuperato nel giro di un anno o due, lavorando di concerto col Trivulzio. Per Sforzino avrebbe stanziato un fondo per pagargli ulteriori studi e avrebbe cercato di farlo accettare in qualche corte, o da qualche parente... A Bernardino avrebbe lasciato del denaro, gli animali e poi qualcuno che lo sostenesse e lo tenesse a bada. A Giovannino, processo consentendo, ci aveva provvidenzialmente già pensato Giovanni. Per Bianca, invece, aveva intenzione di fare soprattutto donazioni in vita, in termini di gioielli e abiti e si faceva punto d'onore di aiutarla sempre e comunque, nei limiti delle sue possibilità.

Ad angustiarla, quindi, davvero non era stata l'indecisione sul da farsi, ma l'idea che il momento di fare testamento potesse essere sempre più vicina. Finché era stata giovane e relativamente in salute, la Tigre aveva sempre pensato alla sua morte come a un pericolo costante, ma la valutava come parte del suo mestiere. Benché non fosse stata un soldato in piena regola, aveva vissuto come se la fosse, e perciò aveva accettato serenamente l'ipotesi di rimanere uccisa in battaglia, con la spada nel pugno e le grida dei nemici nelle orecchie.

Dopo la lunga prigionia, però, quell'immagine che si era fatta della propria dipartita era svanita e lasciava il posto a prospettive molto meno epiche e assai più prosaiche.

Era ancora giovane, dato che avrebbe compiuto nell'anno venturo quarant'anni, ma il suo fisico era provato e a tratti – come quel giorno – le ricordava come aver passato anni a ignorare il riposo e aver indugiato in certi eccessi portasse a invecchiare precocemente.

Insonne, aspettando che sorgesse l'alba di quel Santo Stefano del 1502, la Leonessa si alzò da letto e, come se servisse a qualcosa, accese un paio di candele e raggiunse la bacinella di acqua alle rose che teneva quasi sempre in camera. Con fare metodico, più per tenersi impegnata che non perché ne sentisse il bisogno, cominciò a usare la mistura per ammorbidire le mani e poi, sciacquandosi con rigore, controllava di non avere calli o altre imperfezioni.

Era sempre stato un suo vanto, quello che avere mani pressoché perfette, malgrado l'uso delle armi e la passione per la caccia.

Proprio mentre controllava contro la luce la lucentezza della sua pelle candida, le tornò in mente come anche suo padre fosse attento alle proprie mani. Anzi, a voler essere oggettivi, Galeazzo Maria Sforza era stato ossessionato dalla cura delle proprie mani, tanto da arrivare a portare i guanti perfino quando non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.

Caterina era ancora una bambina, quando il Duca indugiava in queste attenzioni, eppure ricordava benissimo ogni cosa.

Smettendo all'istante di osservarsi le dita, la donna avvertì un crampo allo stomaco. Era riuscita per tutto il giorno ad allontanare da sé il ricordo dell'assassinio del padre, e ora, in un lampo, aveva riportato tutto davanti ai suoi occhi.

Galeazzo Maria era stato ucciso ad appena trentadue anni. Lei ne aveva già quasi otto in più...

Con un sospiro tremulo, interrotto da un colpo di tosse, la donna cercò una mantella per coprirsi un po' di più e poi lasciò la propria stanza. Voleva scrollarsi di dosso quella sensazione di morte imminente in qualche modo e pensò subito che passare del tempo con il nipotino potesse essere un buon modo per farlo.

Attraversò la villa in silenzio, diretta alla stanza in cui riposavano Pier Maria e la sua nutrice. Il fatto di essere comunque considerata la nonna del piccolo bastava a permetterle anche quel genere di visita notturna.

Arrivò alla porta e attese qualche secondo, tendendo l'orecchio, indecisa se entrare o meno. Il bisogno, però, di sentirsi vicina a una creatura viva e tenera come il piccolo De Rossi era così impellente da farle vincere ogni indugio.

Aprendo lentamente l'uscio, guardò nel buio della stanza, e quasi sobbalzò nel vedere una scena che non si era attesa. Al posto della balia, sulla poltrona imbottita c'era Troilo, in brachette e camicione, con il figlio accoccolato sull'ampio petto.

L'uomo, nel vedere la futura suocera, ebbe un moto di agitazione e Pier Maria schiuse gli occhi, disturbato da quel sussulto improvviso.

Caterina, richiudendo subito la porta, si mise l'indice sulle labbra e fece segno all'uomo di restare dov'era, poi, con un sussurrò, chiese: “La nutrice..?”

Il De Rossi scosse il capo: “Credo che quella ragazza non si faccia domande: la pagate bene e tanto le basta. Le ho detto di andare a riposarsi nei locali della servitù...”

La Sforza annuì, ma trovò imperdonabile che la balia avesse lasciato il piccolo nelle mani di un ospite. Per quello che ne sapeva lei, il De Rossi avrebbe potuto farne qualsiasi cosa, magari per sfregio alla loro casata o anche solo per cattiveria...

Proprio per discolpare la giovane nutrice, però, Troilo soggiunse: “O meglio, credo che non si faccia domande, perché ha già capito tutto...”

Un po' rabbonita, la Tigre si sistemò sulla sedia davanti al futuro genero e guardò per un istante quella scena, trovandola incantevole. Era felice di vedere l'emiliano affettuoso con il figlio e sempre di più si convinceva che Bianca avesse visto molto altro, oltre alle spalle larghe e alle gambe lunghe.

“Adesso torno in camera...” fece all'improvviso la Sforza, rialzandosi di scatto: “Non voglio disturbarvi...”

Pier Maria si era riassopito, e la grande mano del De Rossi gli accarezzava lentamente la testa, tuttavia, nel parlare, l'uomo denunciò una profonda inquietudine: “Come mai siete sveglia a quest'ora? Siete preoccupata per il processo..?”

Immaginando che fosse stata Bianca a parlare con Troilo del processo, Caterina sollevò un sopracciglio e sospirò, tornando a sedersi: “Anche... Ma più che altro sono un po'...” strinse le palpebre e, scrutando nella penombra si rese conto per la prima volta che l'emiliano aveva grossomodo la sua età, anzi, un anno in più, e quindi, probabilmente, poteva capirla meglio di tanti altri: “Stavo ripensando a cose del passato e... Mi sono resa conto di essere sempre più vecchia e più vicina alla fine dei miei giorni.”

L'uomo la guardò in modo strano, e poi diede un baciò al figlio. Si accigliò, schiuse la labbra, e poi tacque.

Quel modo confuso di reagire, però, non stupì troppo la Leonessa che, con un mezzo sorriso, commentò: “Lo so, tu non la vedi come me... Hai appena avuto un figlio, stai per sposarsi... Un po' è come se la tua vita stesse cominciando adesso...”

Troilo non disse nulla, ma il modo in cui le sue labbra fremettero fu una conferma per la Tigre che, in fondo, ne fu felice. Sua figlia si era scelta un quarantenne, ma almeno ne aveva scelto uno che ragionava come se di anni ne avesse appena venti, e questo era un tassello importante della loro relazione, probabilmente.

“Il punto è che mi aspettano ancora delle sfide complicate, tra cui il processo, come giustamente dicevi...” riprese la Sforza, stupendosi della propria loquacità, ma avendo un bisogno disperato di condividere con qualcuno la sua ansia: “Io per tutta la mia vita ho sempre fatto affidamento sul mio fisico. Ero veloce, ero resistente ed ero forte, tanto, dicevano i miei soldati, da poter sollevare il carico di dieci uomini tutto da sola.”

Il De Rossi ascoltava in silenzio, curioso di sentire la Tigre parlare di se stessa. Era convinto che la sua Bianca avesse preso tanto dalla madre, benché l'avesse spesso declinato in versioni più dolci e docili, e quindi conoscere meglio Caterina gli avrebbe permesso di conoscere ancora un po' di più la sua sposa.

“Adesso, adesso che ne avrei un disperato bisogno, il mio corpo è qui pronto a tradirmi...” sospirò lei.

“Non state bene?” si informò l'emiliano.

“Mi stanco in fretta e ci sono giorni in cui mi sembra di avere un po' di febbre. Oggi ho tossito molto e al mattino avevo dei dolori tremendi alle articolazioni...” riassunse lei: “Il punto è che io ho camminato in mezzo agli appestati senza mai ammalarmi. Ho partorito otto figli in salute senza mai perderne uno durante la gravidanza e ogni volta, dopo pochissimi giorni, ero già in sella al mio cavallo. Ho perfino preso Castel Sant'Angelo mentre ero incinta, prossima al parto...”

L'uomo era immobile e l'ascoltava, senza lasciar trapelare nulla dalla sua espressione. Forse, pensò la donna, la comprensione che cercava non l'avrebbe trovata in lui, ma in qualcun altro, come Fortunati... Peccato che il piovano fosse così lontano...

“Forse il mio errore – concluse la Tigre, quasi tra sé – è stato credermi invincibile. Anche se ormai non è più così, forse per troppi anni ho commesso l'errore che fanno tutti i potenti, dall'ultimo dei Conti fino al papa in persona...”

“Ossia?” domandò Troilo, non riuscendo a intuirlo da solo.

Alzandosi dalla sedia, questa volta per andarsene davvero, la milanese sorrise, un po', intristita, e concluse: “Ossia credersi immortali...”

Interdetto, il Marchese di San Secondo deglutì un paio di volte e poi aprì la bocca, per dire qualcosa per trattenerla, convinto di essere stato in qualche modo sgarbato e di averla così involontariamente convinta a lasciare la camera.

La Sforza però lo frenò subito, alzando una mano: “Passa ancora qualche tempo con tuo figlio: è importante... Potrebbe dover restare qui più di quanto pensiamo... Invece di pensare a me, concentrati su di lui o verrà un giorno in cui ti pentirai di non averlo fatto. Fidati: so di cosa parlo.”

Con queste ultime parole, Caterina uscì, richiudendosi la porta alle spalle, e il De Rossi rimase solo con il figlio. Annusando il profumo dolce del piccolo, il Marchese si trovò a pensare che la suocera aveva ragione: doveva sfruttare tutte le occasioni che aveva per stare un po' con Pier Maria, anche se non era facile, dato che, ufficialmente, non aveva nulla che lo legasse a lui.

“Ci raggiungerai a San Secondo appena sarà possibile – bisbigliò, le labbra solleticate dai pochi capelli chiari del bambino – ma è proprio perché ti amo che voglio che tu venga a San Secondo solo quando sarà sicuro farlo... Che padre sarei, se per un mio capriccio, ti mettessi nella posizione di non avere, un domani, un titolo e un'eredità stabili e indiscutibili?”

Pier Maria, che, com'è ovvio, non aveva capito mezza parola di quel discorso, parve comunque coglierne il tono e, con un piccolo movimento di spalle, fece un sospiro quasi rassegnato e, con un sorriso beato, si accoccolò di nuovo sul petto del padre e si riaddormentò.

 

Niccolò Machiavelli stava raccogliendo i suoi ultimi bagagli, pronto a partire in direzione Pesaro, per seguire, a brevissima distanza, il corteo di Cesare Borja. Dapprima si era rabbuiato al pensiero che il Valentino non l'avesse voluto al suo direttissimo seguito, ma poi si era rabbonito nello scoprire che il Duca gli aveva lasciato una discreta somma da spendere come meglio credeva, a mo' di scusa per quel mezzo sgarro.

Cesare aveva capito fin da subito quali fossero i maggiori vizi del fiorentino – in primis il vino e le donne – e, sapendo che si trattava di cose dispendiose, se cercate con tanta assiduità, era sicuro che qualche moneta d'oro fosse l'indennizzo in assoluto più gradito all'ambasciatore.

“Vedete di sbrigarvi...” borbottò Niccolò, diretto ai due servi che il Borja gli aveva momentaneamente concesso.

Il Valentino aveva infatti anche capito come il fiorentino patisse la sua situazione incerta e priva di ogni comodità e aveva fatto il possibile per farlo sentire apprezzato e quasi coccolato. Era uno schema che gli era servito per accattivarsi anche uomini come Andrea Bernardi a Forlì, e dunque ormai il figlio del papa aveva preso dimestichezza con quel genere di cortesie e le elargiva ogni qual volta pensasse che il ricavo finale, in termini di convenienze e amicizie, sarebbe stato più grande della spesa, tutto sommato esigua.

Uscendo dal palazzotto che l'aveva ospitato in quei giorni, Niccolò ribadì la sua intenzione di partire presto, ma precisò che, prima di partire, desiderava fare ancora due passi nel centro di Cesena, in modo da poterla descrivere al meglio al Gonfaloniere, una volta che fosse tornato a Firenze.

Man mano che avanzava sulla strada coperta di neve, però, il suo proposito veniva meno. In fondo era stato in piazza già molte volte e quindi vederla anche quella mattina avrebbe fatto ben poca differenza, nelle sue descrizioni...

Stava quasi per tornare sui suoi passi, quando sentì delle grida arrivare proprio dalla direzione della piazza. Incuriosito, tese l'orecchio e capì subito che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante.

Accelerando e stando ben attento a non scivolare rovinosamente in terra, il fiorentino imboccò la via più breve che conoscesse e si rese conto che in molti, come lui, stavano accorrendo in piazza.

Appena vi giunse, capì all'istante cosa fosse accaduto. Nonostante la folla assiepata e la confusione che si faceva sempre più caotica, era palese che nel mezzo della piazza vi fosse un cadavere fatto a pezzi.

“Ma è il Ramiro!” gridava qualcuno: “Il Ramiro dell'Orca!”

“Ramiro! Hanno accoppato lo straniero!” gridava un altro.

“Il tiranno è morto! Il Valentino l'ha punito!” insisteva un terzo.

Machiavelli, con movimenti secchi, ma efficaci, si fece via via largo tra i presenti e alla fine riuscì a vedere distintamente quello che rimaneva di Ramiro de Lorca. Riconobbe subito il volto, per quanto tumefatto e in parte coperto dai capelli. Osservò in silenzio il corpo, che risultava distintamente tagliato in due parti. Da un lato c'era un coltello insanguinato e appena accanto un pezzo di legno, di cui il fiorentino comprese solo in parte il significato recondito, che, in ogni caso, aveva a che fare con il tradimento e la contravvenzione degli ordini.

Sapeva bene chi c'era dietro a quello scempio e, benché in parte ne capisse la ragione, non poteva giustificarne in toto la moralità.

Trattenendo un conato di vomito, sensibile come era sempre stato a quel genere di visioni, Niccolò sgomitò per tornare indietro e poi, senza più voltarsi, quasi corse fino al palazzotto.

Trovò i due servi pronti, ma questa volta fu lui a temporeggiare. Scusando con tutti, padrone di casa compreso, chiese il necessario per scrivere e si chiuse in una delle sale per vergare un messaggio da far recapitare a Firenze.

Quello che era capitato quel giorno non era un avvenimento da poco: Ramiro de Lorca era stato uno dei maggiori detentori del potere del Valentino lì in Romagna. Ucciderlo solo per addossargli le colpe che il popolo imputava al Borja aveva un'utilità spicciola, secondo Machiavelli: a lungo andare quel gesto avrebbe aperto un vaso di Pandora impossibile da richiudere.

Perciò, con le mani che tremavano un po', giunse al fulcro del messaggio e scrisse: 'Messer Rimirro questa mattina è stato trovato in dua pezzi in sulla piazza, dov'è ancora, e tutto questo popolo lo ha possuto vedere; non si sa bene la cagione della sua morte, se non che gli è piaciuto così al Principe, il quale mostra di sapere fare e disfare gli uomini a sua posta secondo i meriti loro'.

Dopo aver letto e riletto almeno quattro volte, Machiavelli finalmente chiuse la lettera, la sigillò e poi la consegnò a chi di dovere, chiedendo con fermezza che venisse recapitata in fretta e solo nelle mani del Gonfaloniere Soderini.

“Adesso andiamo...” lo invitò uno dei due servi, che aveva già caricato i muli e iniziava a tremare di freddo: “Presto potrebbe scendere una nuova tempesta di neve...”

“Avremo a vederne, di tempeste...” sbuffò Niccolò, seguendolo suo malgrado: “Ma non di neve, amico mio: di sangue e lacrime...”

 

Troilo aveva aspettato il più a lungo possibile, quella mattina, prima di alzarsi dal letto. Natale e Santo Stefano erano passati, e così il 27 dicembre e ormai si vedeva costretto a riprendere il suo cammino e raggiungere Roma, ma era come se una forza invisibile lo volesse trattenere alla villa.

“Quando ti raggiungerò?” chiese Bianca, ancora sotto le coperte, gli occhi che inseguivano il profilo elegante del De Rossi che si stava infilando gli abiti tolti la sera prima.

“Non lo so... Direi che non dovrebbe passare molto tempo... Devo parlare con il papa e far sì che tutto vada come il Trivulzio ha programmato...” soppesò lui, allacciandosi le brache e poi dedicandole una breve occhiata e un sorriso quasi timido: “E poi finalmente potrai diventare mia moglie.”

La giovane annuì e poi, controvoglia, lasciò il tepore del letto e cominciò a sua volta a vestirsi. In cuor suo avrebbe voluto trattenere l'emiliano e pregarlo di restare lì per sempre, a condurre una vita immobile, ma perfetta, come quella che avevano assaporato in quei placidi giorni di neve. Tuttavia sapeva bene che la sua sarebbe stata una pretesa impossibile da realizzare e così puerile da poter scatenare l'ilarità del suo uomo e lei, in quel momento specialmente, non voleva suscitarne il riso.

“Stai attento.” disse, invece, andando verso di lui e sfiorandogli appena la guancia, senza andare oltre, per paura di sentir venire meno la propria determinazione a lasciarlo andare: “E non preoccuparti né per me, né per nostro figlio. Io ti raggiungerò presto, e Pier Maria sarà al sicuro, qui con mia madre.”

Troilo si disse d'accordo, tuttavia, nel sentire nominare Pier Maria, uno strano velo gli coprì gli occhi. Sarebbe stato facile interpretarlo come semplice mestizia all'idea che il figlio sarebbe stato separato da lui chissà per quanto tempo, ma in realtà dietro al suo impercettibile cambiamento d'umore c'era qualcosa di molto più sottile.

Esattamente com'era successo alla Riario, il De Rossi si sentiva orrendamente in colpa al pensiero che l'idea di separarsi dal suo primogenito, dal suo unico figlio, dall'erede del suo titolo, fosse ben più che sopportabile, pensando che, in cambio, avrebbe potuto coronare il suo sogno d'amore con Bianca. Che padre era, si chiedeva, un padre che antepone senza nemmeno un piccolo indugio, il desiderio per la propria donna a quello di crescere e accudire il proprio figlio?

Non volendo rispondersi, il De Rossi fece un sorriso un po' più stiracchiato e sospirò: “A proposito di Pier Maria... Vado a salutarlo...” poi si sporse in avanti e diede un bacio alla giovane e soggiunse, serio: “Sarai anche tu al portone per salutarmi, vero?”

“Sì.” annuì lei, benché fosse convinta che sarebbe stato più prudente evitare.

“Allora ci saluteremo ancora dopo, io e te.” concluse l'emiliano.

“Tanto sarà per poco tempo...” provò a dire la ragazza: “Quasi non ci accorgeremo del tempo che passa, e già saremo di nuovo insieme...”

Il De Rossi fece cenno di sì con la testa, ma i suoi calmi occhi ambrati mostravano un'inquietudine viva e opprimente, comprensibile, vista la delicatezza della loro intera situazione e l'incertezza che sempre portava con sé anche il più semplice dei viaggi, soprattutto in inverno.

“Vado da Pier Maria...” ripeté l'uomo e, senza più tentennare, andò alla porta e camminò veloce fino alla stanza in cui il piccolo ancora sonnecchiava sotto l'occhio attento della nutrice.

 

Cesare Borja era arrivato a Pesaro da poche ore, ma non aspettava altro che ripartire. Gli era arrivata voce che a Cesena la morte di Ramiro de Lorca avesse avuto l'effetto sperato e voleva continuare a battere il ferro finché era incandescente.

Gli era anche arrivata notizia di una battaglia avvenuta, si diceva, proprio il giorno di Natale a Seminara, tra i francesi e gli spagnoli. Gli uomini di re Luigi XII, guidati dall'Aubigny, avevano sbaragliato i nemici, prendendo anche alcuni prigionieri di vanto, come Antonio di Serra e Consalvo d'Avalos. Quella spinta alla causa francese dava sicuramente, per riflesso, impulso anche alle imprese del Valentino.

Malgrado avesse avuto screzi e incomprensioni con il re d'Oltralpe, se conveniva, il Duca era ben disposto a dichiararsi nuovamente suo amico, senza problema alcuno.

“Ecco, è arrivato il messaggio da parte degli Orsini. È sottoscritto anche da Vitellozzo.” la voce di Miguel non era mai giunta in modo tanto celestiale alle orecchie del Borja.

Facendolo entrare nella stanza con un cenno della mano, lo convinse anche a sedersi, mentre leggeva la breve missiva mandata dai tre condottieri. Non era stato facile, ma alla fine Paolo Orsini era riuscito almeno in parte a svolgere inconsapevolmente l'ingrato compito di condurre in trappola i propri amici.

“Mi chiedono di accorrere a Senigallia, perché Andrea Doria si consegnerà solo ed esclusivamente nelle mie mani...” ridacchiò il figlio del papa, una mano che grattava le cicatrici luetiche sulla guancia: “Come se io fossi così stupido da non sapere, come sanno anche loro, che il Doria se l'è data a gambe da tempo...”

Michelotto non diceva nulla, limitandosi a guardare l'amico e aspettare un ordine. Siccome questo non arrivava, si permise di fargli notare un dettaglio che, evidentemente, gli era sfuggito.

“Hanno sottoscritto i due Orsini e Vitellozzo. Manca Oliverotto...” disse, restando poi nuovamente in attesa.

Cesare parve pietrificarsi. Non aveva più calcolato l'Euffreducci...

“Oliverotto è al campo, sicuramente, appena fuori le mura di Senigallia...” soppesò: “Ci andrai di persona e lo preleverai di peso, se necessario. Prima, ovviamente, prova a convincerlo con le buone, dicendogli che gli Orsini l'aspettano, che io voglio ringraziarlo, che Vitellozzo chiede di lui... Non lo so, inventati qualcosa. E portamelo in città, a Senigallia, perché per allora io sarò già il nuovo signore della città, a tutti gli effetti.”

Il Corella chinò il capo, in segno di ubbidienza e poi chiese: “Con che pretesto verranno riuniti tutti in un unico luogo?”

Ancora una volta, il Valentino ebbe la sgradevole sensazione che il suo amico gli stesse mettendo in bocca le risposte. Non aveva ancora pensato a come arrestare fisicamente i quattro uomini, né aveva pensato che fosse una cosa intelligente farli confluire volontariamente in un unico luogo, per poterli imprigionare in un colpo solo.

Simulando una certa sicurezza, però, riprese presto le redini e rispose, con tono arrogante: “Che domande... Li inviterò a cena...”

   
 
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