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Autore: Adeia Di Elferas    19/11/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Una luce malevola rischiarava l'ultimo tratto del pomeriggio, gettando su Senigallia lunghe ombre che rendevano le mura sinistre, quasi spettrali.

Alla fine Cesare e Michelotto avevano preferito non separarsi, pensando che sarebbe stato meglio farsi vedere assieme. Se Oliverotto, com'era prevedibile, non sarebbe arrivato a salutarlo assieme agli altri, allora avrebbero agito come concordato in precedenza, ma con gentilezza, senza insospettire le altre prede.

“Mi spiace solo che quel gran farabutto del Baglioni si sia dato malato...” borbottò Cesare, che, pur non avendo creduto nemmeno per un istante alle scuse avanzate settimane prima da Giampaolo, aveva preferito non insistere, sempre per paura che altri bersagli, molto più pregiati, mangiassero la foglia e gli sfuggissero.

“Verrà il suo tempo.” ribatté, impassibile, il Corella.

I due cavalcavano lentamente, seguiti da una nutrita scorta. Era palese che la città di Senigallia ormai fosse caduta: non c'era alcun segno di assedio, alcun segno di tensione o di recente battaglia.

L'unico indizio di un'occupazione militare erano proprio le colonnine di fumo che si alzavano dal campo dell'Eufreducci, a lato della cinta muraria.

“Hanno detto che sarebbero accorsi appena fuori dalle porte, per accoglierci...” borbottò tra sé il Borja, stringendo gli occhi contro il vento freddo che, purtroppo, prometteva ancora neve.

Rallentando ulteriormente il passo, forse per un inconscio timore di incorrere in una trappola, il Valentino si fece ancor più allerta, allungando le orecchie e prestando attenzione a ogni minimo movimento che si poteva scorgere nell'orizzonte imbiancato.

Alla fine, proprio dalla direzione attesa, si vide giungere un piccolo drappello. Davanti, in sella a dei muli, si palesarono gli Orsini e il Vitelli. Questi, in particolare, era in testa al gruppo e spiccava, tra la neve, per il mantello pesante orlato di verde che gli avvolgeva le spalle.

“Patetici...” sospirò il Borja, vedendo in quello sfoggio di umiltà una presa per i fondelli.

Dietro ai tre muli seguiva uno sparuto gruppo di cavalieri che, però, restavano a distanza considerevole, come a voler sottolineare la propria inoffensività.

Già stufo di quella messinscena, ma ben deciso a farla funzionare, il Duca di Valentinois smontò di sella, quasi scivolando sul terreno ghiacciato, e attese l'appropinquarsi dei condottieri.

Smontati a loro volta dalla loro umili cavalcature, Paolo e Francesco Orsini rimasero un po' in disparte, mentre Vitellozzo, con espressione dura, ma con voce quasi tremante, andò incontro a Cesare e lo abbracciò.

Teso, temendo che quello fosse il preludio a un attacco, l'uomo ricambiò la stretta, ma tastando con attenzione i fianchi del guerriero, per assicurarsi che non fosse armato.

Non appena il Vitelli si scostò un po', volendo eccedere nella sua recita, il figlio del papa lo baciò su entrambe le guance ed esclamò: “Vitellozzo!”

Quella riconciliazione parve convincere tutti quanti e così il Borja si ritenne soddisfatto e chiamò a sé con un gesto anche i due Orsini. Strinse loro la mano, cordiale e sorridente e poi, fingendosi sorpreso, domandò dove fosse Oliverotto.

I tre uomini si guardarono l'un l'altro, come se si fossero a loro volta accorti solo in quell'istante dell'assenza dell'Eufreducci.

“Forse – esclamò Cesare, allargando le braccia – il nostro amico aveva vergogna a presentarsi qui, ma non sa che il mio cuore è grande e misericordioso. Come ho perdonato voi tutti, così ho perdonato lui... Miguel...”

Michelotto, ancora in sella, allargò un po' le spalle e rimase in attesa dell'ordine ufficiale.

“Vai a prendere il nostro amico e portalo al palazzo in cui sarò ospite, affinché anche lui possa unirsi a noi per discutere le prossime mosse della nostra vittoriosa campagna...” disse Cesare, mellifluo.

Il Corella annuì e partì subito al galoppo, seguito da un manipolo di soldati armati di tutto punto e con addirittura la celata già calata.

Gli Orsini non parvero dare molto pesa a quel dettaglio, mentre Vitellozzo sbiancò e perse la parola per qualche istante.

“State bene?” gli chiese il Duca, fingendosi molto preoccupato.

“Certo...” rispose lui, appena udibile, sforzandosi, perfino, di sollevare un po' gli angoli delle labbra.

Invitati dal Borja, tutti e tre i condottieri rimontarono sui rispettivi muli e, a passo lento, ritornarono verso la città. Paolo Orsini si mise a spiegare, quasi con allegria, di come la città di fatto ormai fosse presa e di come non aspettassero altro che Cesare si imponesse sul Doria – era chiaro che ancora pensasse che il Duca non sapesse la verità circa la fuga dell'armigero – e si facesse consegnare anche la cittadella. Francesco Orsini, meno loquace, ma altrettanto rilassato, faceva eco di quando in quando, permettendosi, addirittura, un paio di battute gioviali.

Solo il Vitelli sembrava un condannato a morte: macilento, pallido e con gli occhi persi, che cercavano a destra e a manca un appiglio cui aggrapparsi per salvarsi. Eppure, malgrado quel groviglio di ansia e paura che aveva nel centro del petto, il possente Vitellozzo si lasciò portare con gli altri oltre il portone d'ingresso della città e da lì, lungo le vie serpeggianti di Senigallia, fino al palazzo in cui il figlio di Alessandro VI avrebbe messo dimora per tutto il tempo del suo soggiorno.

 

Era il 31 dicembre e stava, pian piano, scendendo la sera. Caterina, ferma nella sua decisione di festeggiare il Capodanno così come avrebbe fatto se fosse stata ancora in Romagna o, ancor meglio, a Milano, aveva dato ordine che venisse preparata una cena degna di tal nome e aveva predisposto affinché venisse servita più tardi del solito.

In tutta onestà, dato che il De Marzi in quei giorni era distratto con la difficile contabilità della villa e il De Rossi era già ripartito da un po', la Tigre aveva pensato in un primo momento di uscire a caccia di nascosto e prendere con le proprie mani qualche preda da mettere sul fuoco per festeggiare, ma alla fine aveva desistito, scontrandosi sia con i propri limiti fisici – stava meglio, ma non si sentiva ancora abbastanza sicura da prendere un cavallo e inoltrarsi in quel bosco ancora così sconosciuto – sia con la paura di pregiudicare in qualche modo il processo che stava per essere officiato.

Non mancava più molto e, la Leonessa ne era più che certa, alcuni dei servi che erano lì a Castello dovevano essere ancora in contatto con Lorenzo. Se avessero testimoniato che lei si fosse presa certe libertà senza chiedere il permesso a nessuno, quale sarebbe stata la reazione della giuria? E ancor peggio, come avrebbero potuto ricamare su una sua sortita improvvisa e segreta? Avrebbero detto che si era incontrata con chissà quali rivoltosi per mettere a ferro e fuoco Firenze? L'avrebbero accusata di star tramando contro il Valentino assieme a qualche fuoriuscito? O, forse ancor più pericoloso, per il tipo di processo cui andava incontro, avrebbero detto che si era inoltrata sola nei boschi per unirsi a qualche amante misterioso, dimostrandosi una donna squallida e lussuriosa, del tutto incapace e immeritevole di curare il piccolo Giovannino, figlio di un illustre fiorentino morto in circostanze ancora – secondo Lorenzo – da chiarire del tutto?

Tutte quelle domande l'avevano portata a scartare l'idea di una battuta di caccia in solitaria e così la Sforza aveva passato l'intera giornata a vagare senza una metà precisa in giro per la villa.

Bernardino aveva cercato la sua compagnia e anche Galeazzo, a un certo punto, aveva provato a richiamarne l'attenzione, chiedendole un aiuto nel corso della lettura di un testo latino che avevano nella biblioteca, ma in entrambi i casi la donna aveva trovato una scusa e li aveva evitati.

Così, ancora ora che stava scendendo il buio, Caterina si aggirava pensierosa, incapace sia di stare ferma, sia di combinare qualcosa di concreto. Teneva le mani strette dietro la schiena e lo sguardo basso, concentrandosi su ogni suo passo, avvertendo come non mai il peso del tedio e le catene dell'immobilismo. Avrebbe preferito mille e mille volte poter prendere una spada, salire in sella a un cavallo degno del suo stallone nero morto in battaglia, e buttarsi alla carica, poco importava contro chi e perché.

Stava ripercorrendo con la memoria una delle prime cariche a cui avesse mai preso parte, sotto la guida esperta di Virginio Orsini, quando vide Bianca vicino a una finestra, con Pier Maria in braccio.

Rallentando la camminata, la milanese la osservò con attenzione. La Riario stava indicando qualcosa al piccolo, forse degli uccelli nel cielo, vista l'angolatura del suo dito, e ogni tre o quattro parole, gli dava un bacio sulla fronte, in modo quasi automatico. I suoi occhi blu erano tristi, malgrado le labbra si aprissero di continuo in un sorriso rassicurante, a beneficio del figlio.

Non era difficile immaginare cosa si agitasse nell'animo di Bianca in quei giorni. L'attesa la stava distruggendo. Da un lato era ovvio che non vedesse l'ora di andare a Roma e ricongiungersi con l'uomo che amava, ma dall'altro la giovane era cosciente che quella partenza sarebbe stata un distacco, non solo dal figlio, che, comunque, primo o poi l'avrebbe raggiunta, ma soprattutto da quel che restava della sua famiglia d'origine. In tempi così incerti non era assurdo pensare che non sarebbe mai più riuscita a vedere i fratelli e, soprattutto, la madre.

Caterina, dal canto suo, avvertiva a sua volta l'avvicinarsi del momento in cui dire addio alla figlia.

Non era la prima volta che provava quell'ansia indicibile. Le bastava ricordare quando l'aveva vista partire per nascondersi a casa di Luffo Numai e da lì scappare, all'avventura, verso Firenze...

Questa volta, almeno, sapeva che l'avrebbe lasciata partire per un motivo lieto. Era chiaro ed evidentissimo che Bianca e Troilo fossero innamorati. Alla Tigre era bastato vedere il modo in cui si erano fissati senza sosta, il giorno in cui l'emiliano era ripartito. In quell'occasione aveva quasi sentito il bisogno di suggerire loro di fuggire, di ritagliarsi una vita felice e tranquilla da qualche parte nel mondo, lontano da guerre e giochi di potere... A trattenerla non era stato altro che il ripensare a come anche lei e Giacomo, a volte, si erano detti, tra il serio e il faceto, che sarebbe stato meglio scappare nei boschi e vivere di quello che la natura avrebbe dato...

“Cresce a vista d'occhio, vero?” sussurrò la Leonessa, quando ormai fu certa che la figlia si fosse accorta di lei.

La giovane annuì e poi ribatté: “Vorrei poterlo portare con me a Roma, quando sarà il momento di partire... Ma so che, per amor suo, è giusto fare come abbiamo deciso.”

La Tigre strinse un po' le labbra. Sarebbe stato inutile dire a voce alta che quella situazione si era venuta a creare solo perché Bianca e Troilo non avevano avuto pazienza. Non se la sentiva di rimproverare la figlia per una colpa che, ai suoi occhi, non era poi così grave.

“Vedrai che si sistemerà tutto, con il tempo.” la rassicurò quindi e, dando una carezza al piccolo, soggiunse: “Hai per caso capito se la nutrice ha avuto qualche sospetto, quando era qui Troilo..?”

“Se devo dirla tutta – ammise la giovane, appena udibile – ho il sospetto che abbia capito tutto quanto, ma che questo lavoro le serva più di ogni altra cosa...”

“Farò in modo di farle aumentare la paga.” sospirò allora la milanese: “E le proporrò di restare con noi anche dopo... In fondo un lavoro le servirà anche dopo aver svezzato Pier Maria...”

Bianca annuì, stringendosi al petto il figlio con un certo slancio: “Avrei preferito allattarlo sempre io.”

La Tigre non commentò, capendo solo in parte quel desiderio. A parte Giovannino, non era mai riuscita ad accudire serenamente nessuno dei suoi figli, da neonato, quindi le risultava difficile empatizzare troppo con Bianca.

Desiderosa, comunque, di mostrarsi comprensiva e materna con la figlia, la Leonessa provò a dire, sempre in un sussurrò: “Il prossimo potrai allattarlo finché vorrai.”

La Riario sorrise, sicura che la madre avesse ragione e, soprattutto, felice di sentirla parlare in modo tanto disteso di una sua futura seconda gravidanza. La giovane era certa che la Tigre avesse ormai accettato la sua unione col De Rossi, tuttavia avvertiva ancora un po' di freddezza, quando le ripeteva che il suo progetto era quello di avere una prole numerosa. La maggior parte delle madri avrebbe salutato con gioia quel proponimento da parte di una figlia, mentre sembrava che per la Sforza quella fosse una volontà incomprensibile.

“Ascolta, Bianca – fece a un certo punto la Leonessa – a Roma non abbiamo più molti amici, specie ora che Raffaele non si fida a tornare in Vaticano... Però Baccino è di servizio lì presso un alto prelato...”

La Riario sapeva che la madre aveva sempre avuto un debole per quel cremonese ed era anche a conoscenza del ruolo importante che quell'uomo aveva svolto, nei difficili giorni in cui si erano decisi i tempi e i modi della prigionia della Sforza. Dunque nel sentirlo nominare non si stupì più di tanto, malgrado fosse da molto tempo che nessuno vi faceva anche solo cenno.

“Posso cercare di entrare in contatto con lui – spiegò la donna, che pur si chiedeva come fare, non volendo attirare l'attenzione del papa su Baccino, malgrado fosse passato molto tempo da quando l'aveva fatto credere un semplice coppiere – e di chiedergli di vigilare su di te, nel caso in cui ci fossero pericoli di cui tu non ti accorga...”

Mentre Pier Maria squadrava assonnato la nonna, ben arrotolato nelle fasce che la Riario insisteva per fargli mettere, Bernardino arrivò di corsa dalle scale ed esclamò: “Madre! Mi hanno detto di avvisarvi! Sta arrivando messer Fortunati!”

Caterina rimase immobile, facendo appena un cenno con il capo, per congedare il Feo, ma non riuscì a nascondere del tutto la sua gioia e il suo sollievo, nel sapere che Francesco, infine, era tornato da lei.

“Non ti trattengo...” fece Bianca, comprensiva.

La Sforza le lanciò una breve occhiata e poi sospirò: “Fammi sapere, per Baccino...”

L'altra annuì e poi, incoraggiante, ribadì: “Davvero, so che hai voglia di rivederlo... Vai ad aspettarlo all'ingresso, ne sarà felice.”

Per qualche istante madre e figlia sentirono i loro ruoli ribaltati rispetto a quello che era stato a Natale. Se prima era stata Caterina a coprire la figlia e ad approvarne la relazione clandestina, adesso spettava alla Riario fare altrettanto con la madre.

Senza farselo ripetere, prendendo ormai come assodato il fatto che Bianca – e forse anche Galeazzo e Bernardino – fossero al corrente del reale legame che c'era tra lei e il piovano, la Leonessa salutò e si mise a camminare veloce, finalmente con una meta concreta da raggiungere.

La giovane, che in realtà aveva sempre lavorato per supposizioni, avvertiva un certo peso sullo stomaco, nel pensare che la madre e Fortunati fossero davvero amanti. Non perché l'idea l'infastidisse: aveva sopportato che la Tigre avesse amanti peggiori... E non era nemmeno perché volesse sapere la madre da sola... Tutto ciò che la preoccupava era pensare alla possibili conseguenze che avrebbe potuto avere quel genere di legame, specie calcolando l'avvicinarsi del processo per la custodia di Giovannino.

Sospirando, baciò il suo Pier Maria e sussurrò: “Tieni d'occhio la nonna, quando io lascerò questa villa...”

Il piccolo, poco più che un neonato, fece un breve gorgoglio, quasi a voler assentire, e poi sbadigliò, tornando a dedicarsi all'attività che più amava, ossia pisolare tra le braccia sicure di sua madre.

 

Michelotto aveva cavalcato subito fino al cuore pulsante del campo di Oliverotto e non gli era stato affatto difficile trovarlo. L'Euffreducci, infatti, era in mezzo ai suoi uomini, intento a guidare un'esercitazione militare.

L'aria era rilassata e anche se stava calando il buio, la gran quantità di torce accese illuminava a giorno lo spiazzo in cui gli armigeri davano mostra delle proprie capacità.

“Messer Oliverotto!” la voce del Corella, sempre un tono sotto al dovuto, ma vibrante come una freccia appena scoccata, fece girare subito il condottiero.

In realtà si era accorto del piccolo drappello che portava le insegne borgiane già da qualche minuto, ma aveva deliberatamente finto che così non fosse, sperando, forse, di sembrare più credibile quando disse, teatrale: “Messer Miguel... Che piacere vedervi qui! Credevo che già gli Orsini e il Vitelli fossero venuti ad accogliervi... Che onore, che siate venuto fin qui a salutarmi!”

“Non sono qui per salutare...” ribatté, senza smontare di sella, l'amico del Valentino: “Dovete seguirmi.”

“Come mai..?” Oliverotto da Fermo abbozzò un sorriso, ma non mosse un passo.

“Il Duca sta discutendo con gli altri le prossime mosse di questa guerra: non potete mancare.” fu la semplice risposta del Corella.

Sudando freddo, occhieggiando a destra e a sinistra per cercare una scusa per non andare con Michelotto, Oliverotto si schiarì la voce e poi provò a giustificarsi: “Devo finire questa esercitazione e poi pensare alla rassegna... Domattina parlerò volentieri con il Duca, ma per ora mi rimetto alle sue decisioni...”

“La sua decisione è che anche voi siate presente alla riunione.” tagliò corto Miguel: “Seguitemi e basta.”

Non vedendo via di scampo, l'Euffreducci controllò con discrezione di avere ancora sotto al giubbone il pugnale che portava quasi sempre con sé e poi, con la morte nel cuore, assunse un atteggiamento gioviale e ribatté: “Se è così, ne sono lieto: andiamo!”

Preso un cavallo, Oliverotto si accodò al braccio destro del Borja e lo seguì a passo lento fino a passare dalle porte di Senigallia e da lì fino al palazzo che era stato destinato a ospitare il Valentino e il suo seguito più stretto.

“Oliverotto!” esclamò proprio Cesare, nel momento esatto in cui riconobbe gli occhi grandi e i lineamenti fini del condottiero.

Questi, mentre il Borja era ancora intento a fargli la riverenza, smontò di sella e si avvicinò, scambiando qualche occhiata nervosa con gli Orsini e il Vitelli che attendevano alle spalle del Duca.

Senza frapporre altri indugi, il Valentino disse a tutti e quattro di seguirlo e così tutti e quattro fecero.

Il Borja chiese a uno dei servi di scortarli fino al salone più comodo che vi fosse nel palazzo e, apparentemente molto rilassato, si mise in testa agli altri e cominciò a parlare del più e del meno, come nulla fosse.

Paolo, Francesco, Oliverotto e Vitellozzo continuavano a scambiarsi occhiate nervosissime, rimpiangendo di non potersi parlare. Il loro scopo di portare lì il Borja era stato raggiunto e adesso, incredibilmente, si trovavano tutti e quattro sotto lo stesso tetto e presto sarebbero stati da soli con la loro preda... Però cosa sarebbe successo, se l'avessero aggredito in quel palazzo? Il Corella e gli altri uomini di Cesare l'avrebbero vendicato seduta stante? Forse era meglio, pensavano tutti e quattro, senza poterselo dire, smorzare la tensione, mostrarsi amici e dargli appuntamento per un secondo incontro, in un luogo a loro più congeniale e meno controllato...

Prima che potessero anche solo finire quel tacito ragionamento comune, i quattro condottieri ribelli si trovarono nel salone prescelto per la riunione. Nel centro c'era un bel tavolo, con una mezza dozzina di sedie attorno.

Il Borja chiese alle sue guardie di aspettare fuori e poi, chiusa la porta, invitò gli altri a prendere posto a sedere.

Titubanti, ma tutto sommato tranquilli, gli Orsini, il Vitelli e l'Euffreducci si sedettero e rimasero in attesa. Cesare, da buon padrone di casa – benché fosse l'ultimo arrivato, lì a Senigallia – si perse in convenevoli e poi disse che gli spiaceva di averli sottratti a una lauta cena, vista l'ora ormai tarda.

“Ci sono tante, troppe cose di cui dobbiamo parlare...” sospirò, come se fosse davvero affranto per aver scomodato i quattro condottieri: “Ma forse è meglio che faccia portare del vino... Con quello, i discorsi filano più lisci...” soggiunse, con casualità.

Pregandoli di attendere solo un istante, l'uomo andò alla porta e uscì.

“Che perdita di tempo...” borbottò Francesco Orsini, scuotendo il capo.

“Tacete!” lo rimbrottò subito il Vitelli, che temeva di veder rientrare immediatamente il Duca.

“Io trovo sia una buona occasione... Facciamogli abbassare la guardia.” provò a dire Paolo Orsini.

“A me, comunque, questa storia non convince...” borbottò Oliverotto, alzandosi: “Se davvero avesse voluto parlare con...”

Non riuscì a terminare la frase, perché da dietro le spesse tende che costeggiavano la parete piena di finestre, uscirono almeno dieci uomini e altrettanti entrarono fulminei dalla porta, chiudendo, di fatto, l'unica via di fuga ai condottieri.

Il Vitelli, rapidissimo nel reagire, estrasse lo stocco che teneva nascosto sotto al mantello, e trovò subito la carne di uno degli aggressori, tingendo di rosso tanto la lama quanto il pavimento.

I due Orsini, attoniti, erano ancora seduti quando vennero presi di peso e legati stretti come lepri appena catturate.

Oliverotto, vedendosi perso, aveva recuperato il suo amato pugnale e con un gesto risoluto, cercò di pugnalarsi il ventre, ma, per puro caso, uno dei nemici glielo impedì, sferrandogli un pugno.

Coi due Orsini ormai fuori dai giochi, solo Oliverotto – rinsavito dai proposti suicidi – e Vitellozzo stavano dando battaglia. La lotta fu furibonda e lunga, e più di un uomo del Borja finì in terra privo di sensi o addirittura in fin di vita.

Alla fine, però, anche i due irriducibili restarono senza fiato e senza forze. Proprio mentre venivano legati, Cesare ricomparve nella sala.

“Loro metteteli al sicuro...” disse, indicando i due Orsini: “Per ora aspetteranno... Mentre degli altri due sapete cosa fare. Io, intanto, vado a dire ai soldati che sono liberi, liberissimi anzi, di prender quel che preferiscono dalle tende di questi spergiuri...”

Oliverotto e Vitellozzo vennero a quel punto portati via di peso e trascinati fino alla chiesa di San Martino.

Lì, seguendo evidentemente un copione già scritto, alcuni uomini li denudarono, sputando loro e coprendoli di insulti, deridendoli per come erano stati sciocchi e prospettando loro la più atroce delle morti.

Così, nudi e tremanti, i due uomini vennero fatti sedere a forza su un unico scranno da chiesa, schiena contro schiena, e vennero legati assieme tanto strettamente da far quasi mancare loro il fiato.

Solo a quel punto arrivò davanti a loro Michelotto. Li guardò a lungo, in silenzio, le mani già guantate di nero.

“Non sono stato io! Io non volevo!” iniziò a gridare Oliverotto, orinandosi addosso e cominciando a piangere: “Loro mi hanno costretto! È stato Vitellozzo a voler tramare contro il Duca! Io non volevo! Io sono qui per errore! È tutta colpa sua!”

Il Vitelli, schifato tanto dalla vicinanza fisica dell'Euffreducci, quanto dalle sue parole, abbassò lo sguardo, e, con dignità, dichiarò: “Chiedo il perdono e la pietà del papa e l'assoluzione da ogni mio peccato. Se ho peccato, è stato per arroganza, non per cattiveria. Lasciate che io parli con il papa e che mi confessi... Poi potrete far di me quel che volete.”

“No, no, no vi prego, no! Uccidete lui e non me!” continuava a piangere Oliverotto, tremando incontrollabilmente: “Non sono stato io! Non è colpa mia! Io non volevo!”

Il Corella, intanto, si era fatto passare una corda di violone. Adorava quello strumento, perché non solo poteva far nascere melodie incantevoli, ma sapeva anche uccidere meglio di una comune garrota.

Forse anche in premio alla sua compostezza, o forse per far sì che fosse tormentato fino agli ultimi istanti dall'indegno spettacolo offerto da Oliverotto, Miguel arrotolò con un gesto rapido e preciso per tre volte la corda attorno al collo del Vitelli e strinse con tutte le sue forze.

Il filo, sottile e tenace, incise la pelle a la carne, soffocandolo e recidendo a un tempo i vasi sanguigni del collo, dando la morte a Vitellozzo tanto rapidamente che quasi non se ne accorse.

Sentendo gli schizzi caldi di sangue sulla propria pelle nuda, Oliverotto abbandonò ogni freno e cominciò a gridare e implorare sempre più forte, perdendo ogni più piccolo controllo delle proprie funzioni fisiologiche.

Con un'espressione di commiserazione, Michelotto arrotolò la corda di violone anche attorno al collo del superstite, ma fece con calma. Strinse poco a poco, provando un piacere perverso nel vedere quel condottiero che aveva creduto di potersi prendere gioco di tutti loro contorcersi pian piano, vomitare, sanguinare dal naso, oltre che dal collo, e poi dalla bocca. Osservò i suoi occhi sgranarsi e farsi rossi e protrudenti. Guardò le sue membra contrarsi ancora una volta, due, tre e poi più nulla...

Lasciando la presa sulla corda, il Corella fece un profondo sospiro. Poi si guardò gli stivali, scoprendoli sporchi. Con un moto di stizza, diede un calcio alle gambe ormai flaccide di Oliverotto, e poi fece un cenno ai soldati che lo seguivano.

“Preparateli per la piazza.” ordinò: “Io vado dal Duca.” concluse e, lasciandosi alle spalle i cadaveri di due uomini che erano stati a un passo dal distruggere il sogno dei Borja, si sentì indicibilmente leggero.

   
 
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