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Autore: softandlonely    20/11/2022    1 recensioni
La stanza di Chrissy nell’appartamento di Bedford Avenue è molto più piccola rispetto a quella di Hawkins ma altrettanto vuota. Il letto, una scrivania, uno specchio, l’armadio. Nessun quadro alle pareti verde pallido, leggermente scrostate.
E lei, rannicchiata tra le lenzuola, una maglia nera troppo grande, la lettera stretta contro il petto.
Ha dovuto rileggerla tre volte per rendersi conto che è tutto vero.
Sarebbe tutto perfetto se non fosse che…
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chrissy Cunningham, Eddie Munson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota autrice: è triste, ma poi migliora. Promesso :)
 
Hawkins
Ottobre 1987
 
“Che ci fai ancora qui? Credevo te ne fossi andato.”
 
“No. Dovevo solo fare… una telefonata.”
 
Eddie solleva la testa che teneva tra le mani e rivolge a Dustin un’occhiata annoiata. “Voi ragazzini non avete programmi per stasera?”
 
“Eddie…”
 
“A quest’ora tua madre avrà già chiamato la polizia. Vai a casa.” lo rimprovera.
 
La sua voce è stanca, poco incisiva, mentre si volta verso la grande porta rossa, l’unica nota di colore in quella stanza così fredda, una scatola vuota con le pareti bianche e asettiche, illuminate dalle luci al neon.
Sono ore che la fissa, con i suoi piccoli oblò e tutti quei cartelli appesi, perlopiù divieti, aspettando che qualcuno varchi la soglia. Quasi non si accorge quando il suo piccolo amico si avvicina per sedersi lì accanto, prendendo posto su una delle poltroncine disposte in fila.
 
“Hai bisogno di dormire, Ed.”
 
Il suo tono pieno di saggezza, quasi fosse lui l’adulto tra loro due, lo fa sentire riconoscente, ma anche infastidito.
 
“Tra poco me ne vado. Tra poco, Henderson. Lasciami stare qui ancora un po’. Non è così male, dopotutto.” gli risponde, nel modo più rassicurante che gli riesce.
 
Anche se odia ammetterlo, Dustin ha ragione. Dovrebbe dormire, fare un pasto decente.
Non succede da troppi giorni e ne ha davvero bisogno. Solo che ancora non gli va di andarsene.
Nella sua testa continuano a girare parole a vuoto, le stesse frasi confuse che ha sentito pronunciare al telefono dal caporeparto della fabbrica dove suo zio si è spaccato la schiena per più di metà della sua vita.
 
La caduta, l’emorragia.
La terapia intensiva, la possibile operazione.
 
Niente a cui sia mai stato minimamente preparato.
Quando qualcuno gli chiede della sua famiglia, è di Wayne che parla, dei suoi modi bruschi, della sua passione per la pesca e per il baseball. A pensarci bene non hanno poi tanto in comune, eppure suo zio si è sempre preso cura di lui, a modo suo. Per questo quando ha ricevuto quella telefonata si è messo alla guida, senza mai fermarsi. Come un automa, come se fosse anestetizzato. Senza riuscire a provare niente, il che è piuttosto strano per uno come lui, che ha passato la vita a sentirsi eccessivo, sopra le righe, dilagante in tutto.
 
“Ehi, Eddie.”
 
“Che c’è ancora?”
 
“Prometti di non incazzarti con me?”
 
“Spiegati meglio.”
 
“Niente, dico in generale. Tu prometti e basta.”
 
“Ok, come vuoi. Non ho intenzione di farlo, se è questo che vuoi sentirti dire. Ma ora sparisci.” ripete lui senza riflettere, agitando una mano in aria.
 
Più tardi, dopo aver parlato con l’infermiera, si convince a tornare a Forest Hills per provare a riposare qualche ora.
La situazione è stabile, i dottori non hanno ancora deciso, gli ha detto, con quell’espressione materna a cui non riesce ancora a fare l’abitudine. Lungo il tragitto Eddie riprende confidenza con le strade di Hawkins, ritrovandole esattamente uguali a come le ha lasciate. Si era ripromesso di non mettere più piede in quella città e ora si maledice per non averlo fatto più spesso, per non aver chiamato di più, per non essersi preoccupato abbastanza.
Quando parcheggia e infila le chiavi nella serratura, i rimproveri di Wayne gli invadono la mente come se fossero rimasti lì per tutto il tempo, impigliati tra le lamiere e la ruggine del vecchio caravan che gli ha fatto da casa per anni.
 
Quanto cazzo hai fumato.
 
Vattene a scuola una benedetta volta.
 
Non fare tardi.
 
Cristo, cosa darebbe adesso per poter ingannare il tempo, sentirsi sgridare ancora.
Quando varca la soglia il confine tra passato e presente sembra svanire. Tutto è al proprio posto, come al solito, quasi come quella vecchia baracca stesse aspettando indifferente il ritorno di suo zio, e il suo.
Anche la sua stanza è uguale a come l’ha lasciata l’ultimo giorno, comprese le scatole accatastate accanto al letto. Frugandoci dentro, Eddie riesce ancora a sentirla, la debole scia di quel profumo, che gli penetra nelle narici come una cura.
 
 
Hawkins
Settembre 1986
 
Il destino aveva voluto che il suo ultimo giorno a Hawkins fosse un martedì.
E il martedì significava solo una cosa: suonare all’Hideout. Solo che quella sera sarebbe stata l’ultima volta, la fine di tutto ciò a cui teneva di più. E l’inizio di qualcosa di nuovo e sconosciuto, che aveva atteso per tanto tempo, sicuro che quella città rappresentasse la morte di tutti i suoi desideri.
Alla fine del concerto lui e i ragazzi si erano abbracciati per la prima volta: era stato breve, strano, anche abbastanza inquietante, ma necessario.
Era la fine di un’era, di un sogno in cui si erano rifugiati per anni per combattere la loro solitudine, per sentire che anche loro erano parte di qualcosa. E lui non era ancora pronto a rinunciare a quel qualcosa.
 
Lei era lì, era stata lì tutto il tempo. Delicata e fragile, forse un po’ imbarazzata. Totalmente fuori contesto e ancor più meravigliosa proprio per questo. Aspettando paziente mentre lui smontava gli strumenti e li caricava nel furgone per l’ultima volta, fermandosi di tanto in tanto per salutare qualcuno che probabilmente non avrebbe più rivisto.
Mentre lo faceva, Eddie la teneva sempre sotto controllo, come se temesse che potesse sparire troppo presto.
E poi l’aveva presa per mano, senza mai lasciarla nemmeno mentre si rovistava nelle tasche alle ricerca delle chiavi di quella che, da poco tempo, era la casa di entrambi.
Una volta dentro era rimasta immobile, appoggiata alla porta d’ingresso che la incorniciava come fosse un dipinto, le mani dietro la schiena e gli occhi fissi sui pochi bagagli già pronti per il giorno seguente, accatastati vicino alla poltrona.
Non gli era sfuggita, quell’ombra nella sua espressione.
 
“Hai… preso tutto?” le aveva chiesto, camminando avanti e indietro nel minuscolo ingresso con le mani affondate nelle tasche nei jeans, nel disperato tentativo di non gesticolare.
 
“Credo di sì.” aveva annuito, incerta. “Wayne sarà contento eh? Finalmente gli lasciamo campo libero.” aveva aggiunto poi, sforzandosi di scherzare.
 
Eddie avrebbe voluto dimostrarsi sicuro. Invece aveva sollevato un angolo della bocca, in uno stupido ghigno pieno di incertezza che faceva trapelare tutta la sua frustrazione.
 
“Già. Non vedeva l’ora che ci levassimo dai piedi. E anche io, a dire la verità.”
 
“Ah sì?”
 
“Certo. Hai idea di quanto ti muovi nel sonno?”
 
“Senti chi parla.”
 
“E hai un sacco di roba. Gesù, non ci si passava più in camera mia con tutte le tue cose. Cominciavo a non poterne più.”
 
Lei aveva scosso la testa, nascondendo un sorriso. Illuminata dalla debole luce del soggiorno, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro impedendogli di ragionare, lo faceva sentire il più fortunato e il più miserabile bastardo della terra allo stesso tempo.
 
“Sul serio, come ti senti Chrissy?”
 
“Spaventata.”
 
Le aveva accarezzato il viso, con la consapevolezza che poteva essere l’ultima volta in cui lo faceva, sfiorandole le labbra con il pollice mentre le lo osservava sotto le sue lunghe ciglia.
 
“Anche io.”
 
“Davvero?”
 
“Sì. Sto solo cercando di fingere.”
 
L’aveva baciata, leccando nella sua bocca, sulla pelle accaldata del suo collo. Guardandola, come se gli occhi potessero dirle tutto quello che le parole non riuscivano.
 
Non te ne andare.
Ho paura. Paura che non tornerai mai più.
 
Spostando la mano che teneva aggrappata al suo fianco era sceso fino a sollevarle la gonna.
Le sue dita avevano incontrato la stoffa della sua biancheria e avevano scoperto qualcosa di diverso da quello che indossava di solito.
 
“Cunningham, mi meraviglio di te. Avevi già deciso come concludere la serata.”
 
“Non so di cosa stai parlando.” aveva risposto lei, sforzandosi di rimangiarsi un sorriso.
 
Aveva spostato le dita oltre quel tessuto ruvido. E lei era così bagnata, un regalo solo per lui ancora per un giorno, che non attendeva altro che essere scartato. Aveva spinto le sue dita dentro di lei. Voleva darle qualcosa di ricordare, anche quando sarebbe stata nel posto più lontano del mondo, con chiunque. Era un pensiero stupido, lo sapeva, ma non poteva farne a meno.
 
E all’improvviso, quella maledetta sensazione. La voglia di scappare a gambe levate, per non sentirsi così debole.
Il terrore di essere perso lontano da lei, lei che presto si sarebbe accorta che c’era un mondo, là fuori, che la stava  aspettando e poteva offrirle molto di più di quel poco che lui aveva da dare.
E lui odiava sentirsi così, odiava pensare di non essere abbastanza. Detestava quel senso di sfiducia e di solitudine che per fin troppo tempo aveva fatto parte della sua vita e che era sempre stato determinato a cancellare.
Anche se sapeva che, almeno in quel caso, era il segnale della sua esigenza più urgente.
 
Ti amo così tanto da avere paura. Paura che tutto questo possa uccidermi.
Dopotutto sarebbe stato un bel modo per morire. Una cosa molto cool da scrivere sulla sua lapide.
Glielo avrebbe voluto dire, ma non era abbastanza coraggioso per farlo.
Lui che la spronava a comunicare, a tirare fuori il suo dolore, a fare le sue scelte, non era nient’altro che un codardo.
Chissà se lei lo aveva già capito.
 
Aveva spinto un altro dito dentro di lei, sempre più a fondo, trovando il ritmo che aveva fatto tremare le sue gambe, rendendola instabile tra le sue braccia. Soffocando i suoi respiri nella sua bocca, costringendola a nascondere il viso nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli.
 
“Guardami.” le aveva chiesto.
 
“No, per favore.” aveva bisbigliato lei.
 
“Guardami, voglio vederti.” Più che un ordine, suonava come una dannata preghiera.
 
I suoi occhi avevano il colore del cielo dopo una tempesta.
E aveva capito. Per lei valeva la pena di essere rischiare, anche se il rischio era quello di essere vulnerabile, come non lo era mai stato. Le avrebbe dato qualcosa da ricordare? Si stava raccontando una bugia.
Era lui ad averne bisogno. Sarebbe stato lui a ricordarsi di quel momento, del suo viso, per sempre.
 
 
Eddie tamburella le dita sulla stoffa consumata dei suoi jeans scuri e getta un’altra occhiata alla maledetta finestra a forma di oblò dal quale non si affaccia nessuno da ore.
Dalle grandi vetrate della sala entra l’autunno. È già quasi buio quando si alza per sgranchirsi le gambe, con un disperato bisogno di fumare. Il pacchetto di sigarette, gettato sulla sedia lì accanto, è ormai praticamente vuoto.
Ne afferra una, la lascia pendere dalle labbra, imprecando fra i denti contro il dannato accendino che non è mai al suo posto quando serve. Quando finalmente lo trova e sta per uscire, lei è lì, sulla porta. È costretto sbattere le palpebre un paio di volte per essere sicuro che non sia solo il frutto di un’allucinazione.
Ma Chrissy è lì, con le braccia incrociate, avvolta da un cappotto scuro e una sciarpa colorata e lui riesce solo a fissarla come un idiota. Dopo tutto il tempo in cui se l’è portata dentro, eccola lì. Sempre lei, eppure così diversa.
 
“Ciao.” gli dice. “Ti trovo bene, Eddie.”
 
“Sul serio?”
 
Chrissy scuote la testa, agitando la solita coda alta in cui ha raccolto i capelli. “No. Sto solo cercando di capire se l’adulazione funziona ancora con te.”
 
Lei sorride e lui con lei, per la prima volta dopo tanti giorni. “Cosa ci fai qui? Hai deciso di fare una gita in città per Halloween o…”
 
“Dustin.”
 
Rimangono in silenzio, per un minuto buono. Scrutandosi a distanza di sicurezza, lui con le mani infilate nelle tasche, lei immobile come fosse paralizzata. In imbarazzo come non sono mai stati, nemmeno la prima volta che si sono incontrati al tavolo da pic-nic nel bosco.
 
“Non so cosa dire, e lo sai che non mi capita spesso.”
 
Chrissy diventa seria, un’ombra le attraversa lo sguardo. “Allora non dire niente, Eddie. Davvero. Non sono qui per questo. Sono qui perché lui… è stato un padre per me, quando avevo bisogno di un padre. Anche se per poco tempo.”
 
Lui sente pungere agli angoli degli occhi, come se quelle parole avessero aperto la porta a qualcosa sepolto molto in fondo ai suoi pensieri. Chrissy sembra accorgersene. Lo capisce dall’espressione lacerata sul suo viso, da quella mano che sembra volerlo raggiungere, ma poi si ritrae.
 
“Eddie, vieni?”
 
Il tempismo, nemmeno questa volta, sembra essere loro alleato. L’infermiera lo osserva con un sorriso di circostanza, ma ben allenato a dimostrare compassione. È costretto ad asciugarsi gli occhi con il dorso della mano prima di voltarsi.
 
“Arrivo.” risponde. Un secondo dopo il suo sguardo è di nuovo su Chrissy.
 
“Resti qui o…”
 
“Ok.”
 
La guarda un’ultima volta, prima di scomparire dietro la grande porta rossa.
 
 
 
Più tardi, quando esce dal reparto, si ritrova nella sala vuota. Chrissy è sparita nel nulla.
Allora percorre i gradini di corsa, esce dall’ospedale, lo sguardo che si muove tra i passanti e le auto parcheggiate lungo la strada. Ma lei non se n’è andata davvero, non questa volta. È seduta su una panchina del cortile, immersa nell’aria pungente della sera. La prima cosa che fa quando si siede accanto a lei è accendersi una sigaretta, quella che avrebbe voluto fumare già da un po’.
 
“Non è che me ne offriresti una?” gli chiede.
 
“Sei sempre la solita scroccona, eh Cunningham?”
 
“Cosa vuoi farci, certe cose non cambiano mai. Allora, ci sono novità?”
 
Eddie prende una lunga boccata prima di rispondere. “Domani. Lo operano domani.”
 
Per un po’ nessuno dei due parla, e Eddie sa che non è solo per via di Wayne.
Mentre lei continua a fumare in silenzio, lui si passa una mano tra i capelli almeno una mezza dozzina di volte.
Ha trascorso un anno a chiedersi cosa Chrissy stesse facendo, se stesse bene, e adesso che se la ritrova lì vorrebbe non aver lasciato scorrere il tempo, vorrebbe non aver allentato la presa permettendo ai loro giorni migliori di sbiadire.
E quello che vorrebbe più di ogni altra cosa è dirglielo, invece di restare lì come un coglione a lasciare che il silenzio si porti via ogni secondo di più quello che sono stati. Quando si volta per farlo però, lei lo sta guardando, gli occhi spalancanti nei suoi. Nella sua espressione c’è qualcosa che non ha mai visto prima.
 
“Ok, Eddie, senti. Lo so che ti ho detto che non ne volevo parlare ma non ce la faccio. Ho smesso di tenermi dentro quello che mi fa male. E tu mi hai fatto male, cazzo. Ho passato mesi a darmi della stupida, perché è vero che non ci eravamo promessi niente ma tu mi hai detto una bugia.”
 
“Che cosa?”
 
“Hai sentito bene. Hai fatto l’unica cosa che mi avevi promesso di non fare. Sei scomparso, mi hai mentito sulla cosa più importante. Ma è ok, davvero, l’ho accettato. E ora che te l’ho detto sto decisamente meglio e… si può sapere cos’hai da ridere?”
 
“Non sto ridendo.” le risponde, sforzandosi di tornare serio.
 
“Sì invece, stai sghignazzando e mi dai sui nervi, se lo vuoi sapere. Allora, cosa c’è di così divertente?”
 
“Niente. Solo che… sei cresciuta, Chrissy Cunningham. E io sono fiero di te.”
 
Chrissy si stringe nel cappotto, le guance arrossate. Forse è per il freddo, di certo è così.
Eddie si alza dalla panchina, si passa una mano tra i capelli per l’ennesima volta.
 
“Sai che ti dico? Mi è venuta una gran fame. Ti va di farmi compagnia? Ho davvero, davvero bisogno di passare un po’ di tempo insieme a te.”
 
Lei alza gli occhi al cielo, per poi posarli nei suoi. Il solito mare in tempesta, e qualcosa di caldo. Per la prima volta quella sera, gli sembra di rivederci dentro la sua anima.
   
 
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