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Autore: Nike90Wyatt    25/11/2022    1 recensioni
Milano, 2016. Marinette Dupain-Cheng vive la nuova realtà di studentessa dell’Accademia di Moda Bellerofonte per coronare il suo sogno di diventare un giorno una stilista di livello internazionale. Quella borsa studio ottenuta grazie al suo immenso talento è stata una vera benedizione del cielo. Ma la strada verso la gloria è frastagliata e irta di imprevisti e le certezze di Marinette, lontana dal sostegno dei suoi amici, iniziano a vacillare fino a crollare del tutto quando una minaccia tanto pericolosa quanto imprevedibile inizia a incombere su Milano. I poteri di Ladybug potrebbero non essere sufficienti per affrontarla; pertanto, Marinette dovrà ricorrere a tutto il suo coraggio e fare delle scelte che cambieranno per sempre la sua vita.
[Cover Credits: https://www.instagram.com/my_bagaboo_/]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nonna Gina, Tikki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alessio si sistema il cravattino di seta nera appuntato al colletto. Lancia un ultimo sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio. «Come sto?»
Sorrido. «Sei perfetto.»
Alessio si volta. «Detto da te, vale dieci volte di più rispetto al giudizio degli altri.» La sua espressione diviene seria. «Ricorda, dopo la mia presentazione sfileranno le raga—»
«Le ragazze della collezione estate. Poi, sarà la volta della presentazione delle prossime date e, infine, sfilerà il capo vincitore della gara.» Gli picchietto la spalla. «Tranquillo, ricordo tutto.»
Alessio mi tira a sé e mi abbraccia, accarezzandomi la schiena. «Andrà tutto bene.»
«Lo so. Nel caso non dovesse, darò a te tutta la colpa. Sappilo.»
Alessio si stacca dall’abbraccio e schiocca la lingua. «Sei terribilmente furba.» Abbassa la maniglia. «Fa attenzione.»
Gli rispondo facendogli l’occhiolino. La porta si chiude.
«Perdonami, Alessio, ma non potevo coinvolgerti ulteriormente,» mormoro a voce bassa.
Seguendo il piano architettato da Portanova, l’attacco dovrebbe iniziare proprio a cavallo tra la fine della sfilata e la presentazione delle nuove date, nel momento in cui l’affluenza degli invitati sarà al culmine.
Mi spoglio della tuta da addetto alla manutenzione, apro lo zaino e indosso la tuta bianca e rossa che utilizzo di solito per le ore di educazione fisica.
Tikki svolazza intorno a me. «Cosa farai se qualcuno dovesse sospettare di te?»
«Tutto questo piano è un azzardo, Tikki.» Il polso accelera. «Ma, sai come si dice: “La fortuna aiuta gli audaci”.»
«E a te l’audacia non manca di certo.»
Calzo le scarpe e infilo il berretto sulla testa, nascondendo a dovere i capelli. Metto lo zaino in spalla, lascio che Tikki si nasconda all’interno della giacca ed esco.
Faccio un passo verso l’uscita posteriore, mi fermo. Prima che cominci il tutto, vorrei almeno dare un’occhiata alla passerella; non so se un’occasione del genere mi ricapiterà molto presto.
Passo davanti allo stand con le modelle pronte a sfilare, nessuno tra staff e tecnici sembra badare a me. Mi accosto al tendone e sbircio verso l’esterno.
La platea è gremita di ospiti; gioielli, pagliette e lustrini apposti sui vestiti eleganti brillano sotto le luci di grandi faretti colorati fissati al soffitto. Delle torce a fuoco circondano la passerella, creando un ambiente molto suggestivo.
È uno spettacolo fantastico, mi piange il cuore al pensiero di dovervi rinunciare.
Arretro di un passo, ma mi blocco. In prima fila, sul lato opposto della passerella, è seduta Letizia. Alla sua sinistra, siede un tipo ben piantato, spalle e collo larghi, completo nero; alla destra, invece, c’è la ragazza che lei ha etichettato come sua cugina, vestita con un abito dorato, una cascata di riccioli biondi le incornicia il volto.
Letizia ha di nuovo quell’atteggiamento strano dell’altro giorno. È sempre stata piena di energia, pimpante e con la lingua affilata; stasera sembra spenta. Ha la coda ai capelli e porta una semplice camicetta bianca, pantaloni e scarpe basse. Occhiaie profonde le solcano il viso e il punto vita è fin troppo magro. Qualcosa non va.
  Schiaffeggio il tendone e mi allontano. Con tutti i problemi che ho, non posso soffermarmi anche sulle angosce di Letizia. Magari, quando tutto sarà finito le potrei parlare…
Scaccio via il pensiero e allungo il passo. Ho i minuti contati; finora tutti gli attacchi degli anarchici sono stati effettuati con una precisione chirurgica. Oggi dovrebbe essere quello più eclatante, sono certa che spaccheranno il secondo.
Raggiungo la porta tagliafuoco, abbasso il maniglione ed esco all’esterno. I due energumeni che pattugliavano l’ingresso sono spariti. Come aveva previsto Portanova nei suoi appunti, avevano l’incarico di sorvegliare chi entrava solo fino ad un certo punto della serata, poi si sarebbero dovuti spostare sul lato della passerella, lasciando questo spazio sgombro.
Il parcheggio sul retro è ancora deserto fatta eccezione per l’auto di Alessio e un’utilitaria color argento. A qualche metro dall’ingresso, c’è la zona di carica-scarico merci, ma anch’essa è vuota.
Strano: è da lì che dovrebbero arrivare i furgoni che trasportano gli abiti della serata. Alcuni li avranno già scaricati, ma gli altri?
Un rombo cupo di motore giunge dal vicolo che conduce allo spiazzale. Sono due furgoni bianchi, dall’andatura lenta.
Lancio uno sguardo intorno a me. Sulla sinistra c’è un basso muretto sormontato da una spoglia siepe. Non è un granché, ma spero mi nasconda a dovere. Mi acquatto e sbircio il parcheggio.
I due furgoni accostano di sbieco dietro l’auto di Alessio. I due autisti smontano dai rispettivi posti, si scambiano un cenno e vanno ad aprire i portelloni posteriori. Un coro di voci gracchianti, cavernose e squillanti si solleva dagli interni dei furgoni. Insulti, improperi di ogni tipo e schiamazzi di scherno si alternano nella cacofonia di voci.
Piegata sulle ginocchia mi sposto fino all’angolo del muretto e allungo il collo. Il gruppetto di uomini stanno imbracciando fucili d’assalto, mitragliette, coltelli e tirapugni.
Ognuno di loro indossa una maschera nera con le più disparate fantasie colorate di rosso.
Ci siamo.
Faccio uscire Tikki dalla fodera della giacca.
Scocca una rapida occhiata al gruppetto di Satiri e mi guarda preoccupata. «Ti prego, Marinette. Fa attenzione.»
Annuisco. «Tikki, trasformami.»
«Che diavolo è?» urla uno dei Satiri.
Il lampo di luce che accompagna la trasformazione deve averli messi in preallarme.
Spicco un salto e atterro sul tettuccio di uno dei furgoni. Gli anarchici caricano le loro armi.
Uno di loro mi indica. «È quel ragazzo di cui parlava il capo.»
Il compagno vicino toglie la sicura alla pistola. «Facciamogli passare la voglia di giocare.»
Balzo su un trio vicino prima che riescano a puntarmi contro i loro fucili; assesto sui primi due un calcio sulle loro tempie, atterro di schiena sull’asfalto. Spingo con le braccia a terra, mi rizzo in piedi e tiro un montante sul terzo.
«Non sparate!» urla uno dei due autisti. «Ci sentiranno.»
Bene. Se non possono usare armi da fuoco, saranno costretti ad affrontarmi corpo a corpo.
Una dozzina di coltelli, pugnali e tirapugni luccicano tra le mani dei Satiri. Mi hanno circondata. Agguanto il braccio di quello più vicino a me, con uno strattone lo proietto su altri due compari e rovinano tutti a terra come birilli da bowling.
Due Satiri mi aggrediscono da due lati opposti, uno di loro cala dall’alto il pugnale. Salto a sinistra, la lama mi passa a un pelo dallo stomaco e colpisce la spalla dell’altro, che urla di dolore.
Altri tre Satiri si accalcano alle mie spalle. Mi piego sulle ginocchia e scivolo sotto le gambe di uno, lo sgambetto e provoco un effetto domino per cui anche gli altri finiscono a terra. Strappo via dalle mani di un anarchico il fucile, lo sollevo oltre la mia testa e lo scaglio contro il tizio più lontano. Il calcio del fucile lo prende in pieno sulla testa e lo manda nel mondo dei sogni.
Mi volto. In piedi è rimasto solo un Satiro, gli altri giacciono a terra doloranti o spaventati dal mio show.
Questo tipo ha il fisico tozzo e dei riccioli di barba ispida che gli fuoriescono dalla maschera. Apre e chiude le mani per esibire i suoi tirapugni dorati.
Gli faccio segno di colpire, in modo da provocarlo. Lui ringhia come un mastino e carica a testa bassa. Schivo un diretto, gli afferro il braccio e gli tiro un pugno sulla gola; dalla sua bocca spira un rantolo. Gli stringo la mano e gliela rigiro dietro la schiena. Gli pianto un tacco sul fondoschiena, mandandolo a sbattere contro il furgone.
Lo tiro per il colletto della maglietta, lo giro e gli afferro la carotide, l’altra mano a tappargli la bocca. Una ginocchiata nello stomaco e si piega carponi senza cacciare un urlo.
Rantola e sputa a terra. «Non… non puoi fermar…» Aspira più aria che può. «Dentr… dentro ce ne sono altri, misc… mischiati alla folla.»
Lo spingo con la punta del piede sul fianco e lo costringo a mettersi supino. Mi piego su un ginocchio che gli premo sullo sterno. «Dimmi un po’, ti sei guardato in torno? Eravate in dieci o forse di più ma non ho nemmeno un graffio. Credi che abbia paura di qualche vostro compare infiltrato lì dentro?»
Gli levo la maschera.
Il tizio ha due occhiaie viola e gli zigomi pronunciati che disegnano un volto scavato.
Strabuzza i suoi occhietti castani. «Ti… ti prego non farmi altro male…» 
Lo libero dal ginocchio. «In gruppo fate i superiori, ma presi singolarmente siete un branco di vigliacchi, così come il vostro capo. Dimmi dove lo posso trovare.»
«Non… non lo so. Solo gli autisti dei furgoni lo sanno.»
Mi volto a guardarli. Sono ancora a terra, ma diversi di loro si stanno riprendendo.
Afferro il tizio per il colletto, con l’altra mano indico il gruppo di Satiri. «Ora dirai ai tuoi compari di ritirarsi. Altrimenti, verrò di nuovo e non sarò benevola come adesso. Sono stata chiara?»
«Sì… sì, ti prego lasciami andare…»
Lo accontento. Mi rialzo, apro lo yo-yo e dirigo il fascio di luce verso le armi a terra. La magia del Miraculous le risucchia tutte. Senza quelle, sono del tutto indifesi e non potranno fare del male ad anima viva. Raccolgo lo zaino e salto via.
Ora devo solo aspettare le loro prossime mosse.
 
***
Come avevo previsto, il tipo con la barba non ha perso tempo e subito si è rialzato in piedi non appena sono sparita alla sua vista.
Appollaiata sul tetto del padiglione, attendo che cada dritto nella trappola che ho architettato per lui e per il questore. Stringo tra le dita lo smartphone che userò per inchiodarlo e assicurarlo alla giustizia. La città merita un leader delle forze dell’ordine migliore di un uomo corrotto dalla sua stessa ambizione.
Il tizio con la barba claudica fino ai suoi compari, alcuni ancora privi di sensi, altri storditi ed incapaci di riuscire a comprendere quanto successo. Si china in avanti e schiaffeggia uno dei due autisti dei furgoni. Assicuratosi che non è in grado di reagire, fruga nella sua tasca e pesca un mazzo di chiavi.
Gira i tacchi e corre zoppicando al furgone, si infila dentro e parte.
Perfetto.
Mi piego sulle ginocchia e spicco un salto; stendo lo yo-yo, avvolgendolo intorno al collo di un lampione, e atterro senza far rumore sul tettuccio del furgone in movimento.
Mi stendo prona, allargo le braccia e agguanto le due estremità per evitare di scivolare via.
Il furgone accelera lungo una stradina che conduce verso la periferia della città. Sul fondo, si erge un prefabbricato dall’aria abbandonata, poche luci stradali illuminano il tratto che conduce ad un’entrata il cui cancello è stato divelto. Ampie folate mi sferzano il viso e mi intirizziscono le guance.  
Il furgone procede sullo sterrato, la strada dissestata provoca degli scossoni che rimbombano dal tettuccio nel mio stomaco. Dal terreno sale un olezzo di ferro battuto e fogna.
Il furgone si ferma davanti ad un ampio ingresso, un cordone rosso e bianco, che forse serviva per sigillare l’edificio da visite, penzola da una colonna in ferro e svolazza agitato dal vento.
Il tizio smonta dal posto di guida e si trascina all’interno dell’edificio, borbottando qualcosa sulla sua paga o qualcosa del genere. Credo che resterà molto deluso.
Mi sollevo sulle ginocchia e mi guardo intorno. La desolazione totale mi circonda. Se prima avevo una certa tempra alimentata dalla fiducia che riponevo negli uomini al servizio del Signor Tancredi, ora me la dovrò cavare da sola.
Salto giù e seguo a distanza il Satiro, puntando i piedi per fare meno rumore possibile. Un corridoio con le finestre sporche e una moquette deturpata dallo scorrere del tempo conduce a una sala con un macchinario posto al centro.
Diversi scatoloni imballati ed impolverati mi offrono un’adeguata copertura. Accendo lo smartphone ed imposto la modalità video. Avvio la registrazione.
Seduti sul nastro trasportatore ci sono il questore Giovanni Portanova e il gigante che ho affrontato in passato durante le due scorribande degli anarchici.
Il tizio con la barba avanza verso di loro, a metà strada si inginocchia. «Abbiamo seguito le sue indicazioni, signore. Ma quella ragazza…» Raschia con la gola e sputa a terra. «Quella ragazza è un demonio.»
Portanova guarda il gigante inarcando un sopracciglio. «Ragazza? Dunque, la causa delle nostre sciagure è una semplice ragazza che ama vestirsi in modo sciocco?»
Stringo il pugno. Tra un po’ vedrai quanto sciocco sembrerai tu quando avrò finito di prenderti a schiaffi.
Portanova scuote la testa. «E gli altri dove sono?»
«Catturati. Sono fuggito prima che arrivassero i rinforzi.»
«Quali rinforzi? Sono io che gestisco l’ordine in questa città…» Sventola una specie di walkie-talkie con il display a colori. «Non ci sono state segnalazioni, quindi nessuno sarebbe giunto lì per arrestarvi.»
Il tizio si prona. «Le assicuro che c’erano. Quando la ragazzina mi ha sopraffatto, i nostri uomini che erano all’interno hanno urlato nei microfoni chiedendo aiuto perché stavano per essere sopraffatti.»
Portanova si ficca un mozzicone di sigaretta spenta tra i denti. «Sei un idiota.» Fa un gesto pigro e volta il capo.
Il gigante si alza in piedi ergendosi in tutta la sua colossale figura. Avanza a passi pesanti con un ghigno dipinto sul volto. 
Il tizio alza le mani. «La prego! Ho fatto tutto quello che—»
Il gigante apre il palmo, una nube nera si manifesta dalle dita e avvolge la gola del tizio.
Che diavolo…
La nube si intensifica fino a formare un vero e proprio cappio che si stringe; il tizio rantola finché la sua voce non si riduce ad un flebile sussurro. La nube intorno si dissolve e lui crolla a terra, l’incarnato è diventato violaceo.
Sono sgomenta. Quel gigante possiede dei poteri soprannaturali…
Questo spiega il motivo della sua forza devastante in grado di tener testa ai poteri del mio Miraculous. Chiudo gli occhi e mi accorgo di tremare. Non riesco a capire se sia per ciò che ho visto o per la paura di affrontare di nuovo quel tipo. Anche se ho scoperto dei suoi poteri, non ne conosco la natura, men che meno fin dove possono spingersi.
Poggio il palmo su una pila di scatoloni impolverati, torno ad inquadrare i miei due obiettivi.
Portanova si toglie il mozzicone da bocca e lo schicchera via. «So che sei qui, ragazzina. Fatti vedere, non essere codarda. O forse hai troppa paura per quello che hai visto?» Ride. «Ne dubito, onestamente. Ritengo che anche tu, come me, abbia delle abilità speciali, qualcosa che trascende la semplice comprensione umana.» Si alza e si spolvera i pantaloni grigi. «Ho ragione? Credo proprio di sì.»
Il gigante prende a passeggiare intorno al corpo esanime. Tre passi avanti, batte un piedone a terra, ruota il corpo e compie tre passi nella direzione opposta.
Continuo la registrazione. Una goccia di sudore mi cola dalla fronte: dalle parole del questore, mi sembra di capire che il gigante risponde solo su suo comando. È lui a tenere in mano le briglie: sottomettendolo, vincerò anche il gigante.
Portanova si picchietta un dito sulla tempia. «Le persone comuni non possono capire ciò che guida noi esseri speciali. Queste abilità sono dei doni riservati a pochi eletti. Siamo stati scelti, mia cara. Io, però, ho deciso di far fruttare meglio ciò che avevo a disposizione. Io ho scelto di schiacciare l’insolenza dei poveri stolti; ho plasmato a mio piacimento i pensieri dei cittadini ed ora sono pronto a farmi eleggere da loro come unico eroe. Anche mia moglie si pentirà di avermi lasciato solo.»
Fermo la registrazione, il cellulare salva in memoria il filmato. Ho abbastanza materiale per inchiodarlo. Questo video, insieme a tutte le foto e gli appunti che ho fotografato nel suo appartamento, sono la chiave per voltargli contro l’intera opinione pubblica e le altre autorità che gestiscono le forze dell’ordine.
Apro lo yo-yo e vi ripongo dentro lo smartphone.
Prendo un lungo respiro. Vorrei tanto evitare uno scontro diretto, ma temo di non avere scelta. Per estirpare la minaccia di Portanova, devo privarlo dei suoi poteri o continuerà a perseguitare me e Milano.
Esco dal mio nascondiglio e mi paleso di fronte ai miei due avversari.
Il gigante ghigna. «Sei finita.»
Portanova porta la mano lungo il fianco, con le due coppie di dita forma una V e il gigante si ferma. «Non ancora. Voglio prima conoscere meglio la mia nemesi mascherata.»
Sorrido. «Vuoi procedere con le presentazioni? Io conosco già il tuo nome, Giovanni Portanova.» Mi indico col pollice. «Tu, invece, puoi chiamarmi Stiletto.»
«Sembri molto sicura di te, Stiletto. Ma non capisco dove appoggi questa tua sicumera, visto che nei due scontri precedenti hai sempre avuto la peggio.»
«Sono stata colta di sorpresa. Non succederà di nuovo.»
Portanova schiocca le dita.
Il gigante carica ringhiando a denti stretti. Inclina in avanti il busto e balza nel tentativo di placcarmi. Pianto i piedi a terra, mi piego all’indietro e poggio i palmi a terra. Il gigante mi vola sopra e mi manca del tutto; si va a schiantare contro una montagna di scatoloni e li manda in frantumi, schiocchi di ogni tipo si levano nell’aria, assieme al rumore di vetri che va in frantumi.
Mi risollevo e mi volto. Due calici d’argento piombano a terra, rimbalzano contro i miei piedi e rotolano via. Dalla matassa di carta, cartone e polistirolo sbuca la testa pelata del gigante, gli occhi gli sono diventati neri, pupilla e sclera si sono fusi in un’unica tonalità. Con una sola sbracciata si libera della roba che lo circonda e sbuffa; le sue braccia vibrano, i grossi muscoli delle braccia e del collo si contraggono spinti dalla furia crescente.
Alle mie spalle, Portanova scoppia a ridere. «È inutile, Stiletto. Lui trae forza dalla mia voglia di rivalsa su questa società che mi ha incatenato ad una scrivania e mi ha condannato all’oblio. Anni e anni di frustrazione mi hanno donato la forza necessaria a brandire questo potere.»
Il gigante si avvicina lento e minaccioso. Sfioro con i polpastrelli lo yo-yo, ma ci ripenso. Sarebbe inutile contro di lui, devo sfruttare la superiorità nell’agilità se voglio avere qualche speranza.
Il gigante irrigidisce le mani, una nebbiolina corvina stilla dai polpastrelli. Si anima e si ingigantisce borbottando come se fosse della pasta lievitata. Il gigante stringe le dita e la nebbia diventa solida, formando una scure grande quanto una pala da giardino.
Il gigante la mulina sopra la sua testa e cala la lama dall’alto ad una velocità impressionante. Mi sposto di lato appena in tempo, la scure si pianta nel terreno e vi apre uno squarcio. Il gigante non perde tempo, la estrae da terra e carica un altro attacco, mirando al mio petto. Arretro schivando ogni colpo, la mia giacchetta sembra immune alla lama affilata ma comunque vibra ad ogni colpo.
Le mie spalle battono contro un muro. Sono alle strette.
Il gigante ghigna, sfoderando dei denti da cui stillano gocce nere come pece. Solleva l’ascia oltre la spalla, stringendola con entrambe le mani e cala il colpo.
Incrocio le braccia davanti al viso, mi chino leggermente ed impatto contro il manico della scure. Muscoli ed ossa esplodono per il dolore, e io vengo sbattuta a terra dallo slancio.
Mi massaggio gli avambracci. Ho già il fiato corto, mentre lui sembra non avvertire la minima fatica nonostante l’immensa forza bruta che ha impresso nei suoi colpi. Ho fatto un errore di valutazione: non sono più agile, nonostante la palese differenza di mole.
Mi rialzo in piedi e faccio un passo indietro. Ho gli arti che bruciano così come la pelle, ma non posso mollare.
Prendo un passo di rincorsa e gli sferro un calcio in faccia. Il gigante geme per il dolore, la sua mandibola manda uno schiocco. Gli afferro i lati del collo, sollevo le ginocchia e lo colpisco di nuovo al mento. La sua testa effettua una frustrata all’indietro. A mezz’aria, tiro a me le gambe e le stendo di scatto, piantandogli entrambi i tacchi nel petto.
Il gigante resta in piedi, ma arretra e barcolla. Sembra sorpreso dalla mia offensiva.
Prendo un’altra rincorsa, salto e lo colpisco a piedi uniti alla bocca dello stomaco. Lui barcolla ancora, una gamba gli oscilla; sembra in equilibrio precario.
Gli corro addosso, salto, gli giro attorno alla testa avvolgendogli intorno le braccia e lo trascino a terra, la sua nuca sbatte a terra con un tonfo. La scure si smaterializza, lasciandosi dietro una nebbiolina scura che si dissolve in un soffio.
Metto mano allo yo-yo e avvolgo il cavo intorno al busto del gigante che sembra inerte, privo di vitalità. Non ha perso nemmeno una goccia di sangue, è chiaro che non sia umano.
Giro il capo ed inchiodo Portanova con lo sguardo. «Dicevi?»
Lui comincia ad applaudire, senza perdere il suo sorriso beffardo. «I miei complimenti. Ti avevo sottovalutato. Non accadrà più.»
Allarga le braccia e spalanca la bocca. Dei crepitii giungono dal corpo del gigante, le sue membra si dissolvono in tanti piccoli frammenti che fluttuano in aria. Iniziano a vorticare formando una sorta di mulinello, poi schizzano in avanti come proiettili, crivellando il busto di Portanova.
I suoi arti sono sconvolti da spasmi continui, i suoi occhi strabuzzanti si spaccano di capillari violacei e si ingrandiscono fino a diventare delle biglie lucide.
La tempesta di frammenti si arresta e Portanova ritrova il suo ghigno. Dalla sua schiena sbucano un paio di braccia muscolose e nere, si piantano sulle sue spalle e fanno pressione per far uscire il mezzo busto di una creatura mostruosa. Spalanca le fauci e urla rabbiosa facendo tremare mura e pavimento del fabbricato.
Dalla testa si dipartono due corna arcuate, dalle cui punte sprizzano scintille azzurre. Sul petto massiccio risalta il simbolo del pavone rovesciato, in rosso, come se fosse un marchio impresso a fuoco.
La creatura cinge le braccia di Portanova con le sue, gli stringe i polsi e tra le mani del questore si manifesta un’arma ad asta lunga. La agita e pianta la lama nel petto del Satiro, che svanisce; dalla punta sprizzano altre scintille. Un’alabarda.
La mia schiena è scossa da brividi freddi. Non ho mai visto in vita mia qualcosa di più spaventoso di questa roba, nonostante tutti gli akumizzati che ho affrontato.
Portanova solleva di nuovo l’alabarda e la cala a mezz’aria, una lama di vento sferza in avanti e si abbatte su di me. Vengo catapultata sul muro alle mie spalle, la schiena striscia sulla parete. Fitte di dolore si propagano lungo l’intera spina dorsale.
Mi alzo sui gomiti a fatica.
Portanova avanza lento, brandendo l’alabarda ora nella mano destra ora nella sinistra.
Non ho altra scelta che ricorrere al mio potere.
Lancio lo yo-yo in aria. «Lucky Charm!»
Dal bagliore rosso si manifesta un libro antico. Mi cade tra le braccia. Il titolo recita SIMBOLI ESOTERICI E PAGANI.
È lo stesso libro che ho consultato in biblioteca settimane fa.
Portanova emette una specie di singulto rantolante. «Vuoi battermi a colpi di cultura?»
Cala di nuovo l’alabarda dall’alto, ma stavolta riesco a saltare appena in tempo. Mi appendo ad una trave che regge il soffitto, il libro sottobraccio. Salto di trave in trave e raggiungo un luogo più buio, così da guadagnare qualche secondo di tempo.
Osservo la copertina del libro. Fu Alessio a trovare la corrispondenza tra il simbolo del pavone e quello tatuato sul collo del gigante; ora si trova sul petto di quella creatura.
Alesso disse che la cultura pagana lo associava alla superbia, uno dei sette vizi capitali.
Un sentimento che Giovanni Portanova sembra aver abbracciato in pieno, vista la sua ambizione a coprire cariche importanti in città, sacrificando e calpestando anche l’incolumità di innocenti cittadini.
«Dove ti sei nascosta, ragazzina?» La voce di Portanova si fa sempre più cupa e grottesca. «Vieni a giocare.»
Mi premo il libro sulla fronte. Il primo attentato dei Satiri fu l’attacco alla metropolitana. All’epoca io avevo già incontrato Portanova, in quel negozio dove…
Il pendente!
Anche lì c’era il simbolo del pavone. All’inizio non ci facevo caso perché era rovesciato, ma ora tutto torna. E i poteri che questo pendente dona si fondano sui sentimenti di rivalsa di Portanova.
E io conosco un potere in grado di manipolare i sentimenti creando creature mostruose; il suo simbolo è proprio il pavone…
Quella creatura è un sentimostro.  
   
 
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