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Autore: Glenda    27/11/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi scuso per la lentezza nel postare, ma ci sono stati dei problemi tecnici ^_^

Ora dovrei poter tenere ritmo settimanale fino alla fine di questa storia, che si avvia al suo epilogo...

 

Capitolo 22 – “Fratelli”

 

Segùr.

Lant.

Le amministrative.

Perdere quelle dannate amministrative.

Le meringhe, il caffè, la tiepida domenica di settembre.

Segùr completamente solo in un ufficio vuoto.

Le sue previsioni.

Il suo disprezzo.

...

Noam vagò tutto il giorno per la città senza avere l’energia di fare niente, sorvegliato a distanza da uno sconosciuto assegnato alla sua sicurezza, e il fatto stesso che non trovasse quella situazione imbarazzante la diceva lunga sul suo stato emotivo.

Avrebbe tanto voluto chiamare Adrian, chiedere alla sua voce salda di mettere ordine nella sua testa, trattenerlo dal seguire il filo dei suoi pensieri che si aggrovigliavano in una matassa informe.

Ma ogni volta che tirava fuori il telefono si ripeteva che, se lui aveva avuto bisogno di andare da qualche parte e mentirgli, allora era meglio non cercarlo, anzi, era meglio che non sapesse proprio niente… e non capiva se era premura, la sua, o solo stupida ripicca; se non voleva imporgli la sua presenza o se voleva tenergli un segreto.

Il ricordo della conversazione di quel mattino continuava a torturarlo.

Nessuno gli aveva mai parlato di morte con tanta naturalezza.

Di quella di Lant. Della sua.

Nessuno gli aveva mai detto, parafrasato nella sua disarmante e dolorosa semplicità, “se ti ammazzano non me ne importa niente: te la sei cercata”.

Nessuno lo aveva mai accusato di star mettendo a rischio la vita di un’altra persona.

Un giorno aveva detto ad Adrian che la politica era una serie di esperimenti che spesso si facevano sulla pelle degli altri… ma non così: lui non voleva farlo.

Eppure, fin da quando aveva accettato di sostenere Màrna, aveva saputo che non stava più mettendo in pericolo solo se stesso. Lant correva un rischio maggiore del suo, perché ci sarebbe stato lui, a Mòrask, e avrebbe portato il peso delle scelte di entrambi. Non solo: Segùr aveva ragione nel pensare che il partito avversario avrebbe colto un qualsiasi attacco contro un sindaco filo-separatista come un perfetto assist per affossare ogni futura possibilità di dialogo, e questo era vero anche senza bisogno di uccidere nessuno… Minacce, incidenti, proteste di piazza – tutte cose che Noam sapeva ci sarebbero state – potevano essere strumentalizzate per dimostrare che i darbrandesi non desideravano scendere a compromessi, che erano le solite teste di pietra con cui era inutile trattare.

D’altro canto era anche possibile che annoverare tra le proprie fila un martire portasse una pioggia di consensi a Liberi Insieme…

Sentì la testa girare.

Non così, non così. Così non andava bene.

Era entrato in politica per colpa di un dannato, inutile martirio: lo aveva fatto per impedirne altri. Come aveva potuto mettersi nella posizione di aprire la strada a questa eventualità?

Màrna ne era cosciente, certo: Màrna aveva fatto una scelta e accettato la posta in gioco. Ma, maledizione, anche suo padre l’aveva fatto.

All’improvviso gli risuonarono nella mente le parole dell’uomo che lo aveva soccorso quel giorno, ovattate e confuse dalle grida dei superstiti, dal crepitio delle fiamme e dal fischio che gli trapassava la orecchie: Fidòr avrebbe voluto così. Avrebbe voluto cosa? Che suo figlio ne uscisse vivo o che una galleria crollasse, uccidendo quattro persone? Avrebbe voluto non morire? O invece voleva proprio morire e che la sua morte diventasse simbolo di una rinnovata lotta? E cosa voleva, Lant Màrna? E lui? Cosa voleva lui? Lui voleva restare vivo, fare cose, incontrare persone, avere amici, guardare orizzonti, invecchiare. Lui amava la vita. E allora perché giocava a vivere sul filo del rasoio, come gli rimproverava Segùr e come gli aveva rimproverato anche Adrian?

Gli sembrò che le macerie gli crollassero addosso, gli sembrò di cadere: gli sembrò di risentire sulle braccia le mani ruvide che lo avevano trascinato fuori dalla galleria, e quella voce, le parole che aveva detto. Papà – aveva detto – papà. Papà. E poi i pensieri che non erano diventati parole, tutti quei pensieri, la matassa aggrovigliata che era rimasta lì, che sarebbe rimasta lì per sempre, a fare la muffa, a ristagnare, a contaminare ogni cosa. Volevo salvarli tutti. Volevo salvare te - tutti quei pensieri annodati, quei pensieri pietrificati, sempre lì, sempre lì… - Ti odio. Non morire. Ti amo. È colpa mia. Papà. Thièl. Dove sei, Thièl.

Gli sembrava di sentire quelle mani, quella voce: “Fidòr avrebbe voluto così”.

Che cosa ne so, io, di quello che avrebbe voluto Fidòr? Che cosa ne sappiamo, maledizione? Cosa voglio, io? Cosa voglio fare? Perdere queste elezioni? Vincerle? Salvare qualcuno? Salvare me?

Invece sulle sue braccia c’erano altre mani, ed un’altra voce.

“Signor Dolbruk, si appoggi a me… faccia come le dico… ”

Cosa stava succedendo?

La vista si era completamente appannata. Vedeva solo l’ombra della guardia del corpo che lo aiutava a sedersi sul bordo del marciapiede (con che nome si era presentato? Che vergogna, lo non ricordava… ).

“Si stenda: deve appoggiare la testa per terra, così. Mi sente?”

“Sì… ”

Appena si trovò sdraiato, le immagini cominciarono a ritrovare la forma.

“Va meglio?”

“Sì… ”

“Bene.”

Sopra di lui, nuvole sfilacciate nel cielo pallido di un tardo pomeriggio di settembre.

Sotto di lui, l’asfalto ruvido e la giacca dell’uomo di cui aveva smarrito il nome.

Intorno, un capannello di passeggiatori domenicali.

“Pressione bassa?”

Mise a fuoco lo sguardo: il suo soccorritore si era chinato su un ginocchio ma stava a distanza, come a volergli lasciare spazio attorno, e si stava preoccupando di tenere lontano anche il resto dei curiosi.

“Mia moglie ha spesso di questi mancamenti, so come funziona. Respiri più lentamente che può e resti fermo finché la vista non torna nitida. Sta molto scomodo?”

No, non stava scomodo, e quell’uomo era premuroso e sicuro di se stesso. Fu contento che fosse lì.

“Mi scusi…” mormorò “la prego, non si offenda… potrebbe ripetermi il suo nome?”

 

***

 

“Devo riconoscere che lei ha svolto il suo compito magistralmente… mi ha salvato dal rompermi la testa su un marciapiede o qualcosa del genere! I marciapiedi sanno essere ben più pericolosi dei terroristi, sa? E restano sempre impuniti!”

La sua guardia del corpo temporanea – che si chiamava Klet Ròxaviy, e che non si era affatto offeso per quella mancanza di attenzione – si era rivelata una persona spiritosa ed acuta; del resto, come gli aveva spiegato Adrian, la parte più importante del lavoro nella sicurezza stava nella capacità di “leggere gli altri”, e quell’uomo aveva, se non altro, “letto” il suo malessere in tempo, soccorrendolo prima che lui potesse perdere conoscenza e rovinare a terra.

Dopo che Noam si era ripreso, Klet si era offerto, più per formalità che per reale preoccupazione, di accompagnarlo al pronto soccorso, ma poi aveva convenuto con lui che si era trattato di un episodio di poco peso, spiegabile col superlavoro e la carenza di sonno.

Da parte sua, Noam sapeva di non aver bisogno di un medico: il suo mancamento non aveva a che fare con un problema di salute… semplicemente, le parole di Segùr lo avevano sbattuto indietro di sei anni, portato a rivivere cose e beh… era andata come era andata.

“Sono lieto di constatare che le è tornato il buon umore. Giuro che stava riuscendo a smentire tutto ciò che si dice di lei in un solo pomeriggio!”

Klet era un uomo tra i cinquanta e i sessanta, dietro l’aspetto stereotipato nascondeva un carattere affabile, poca affezione per un lavoro ad alto livello di stress e tanta voglia di un pensionamento anticipato: ma ci teneva ad essere gentile, come se questo fosse ancora parte integrante del suo intervento di primo soccorso.

“Davvero? E che si dice di me?”

“Le cose che avrà sentito mille volte. Che è solare, divertente, che sorride sempre, che è uno straordinario intrattenitore, che tiene testa in qualsiasi conversazione ma nessuno riesce a farle perdere la pazienza. Le solite cose… ”

“Il soave Dolbruk, eh già… Così poco darbrandese che ci si impegnano tutti di brutto per vedermi arrabbiato. E io invece non mi arrabbio:” allargò le braccia e gli strizzò l’occhio “semmai svengo!”

L’altro sorrise.

“Qualcuno oggi l’aveva fatta molto arrabbiare?”

“No. Solo intristire. Ma lei ha ragione: ho rischiato di smentire le stereotipo, e questo non è affatto bello!”

“Perché?”

“Perché lo stereotipo mi piace: ci tengo ad assomigliargli.”

 

***

 

Noam non avrebbe mai potuto immaginare che una giornata tanto disgraziata potesse concludersi in quel modo: era appena sceso dalla macchina, seguito dal suo accompagnatore, quando, per la seconda volta in poche ore, sentì la testa girargli e il fiato mancare.

“Li conosce, signor Dolbruk?”

Klèt era avanzato di un passo, ponendosi, prontamente, tra lui e le tre persone che stavano sedute sui gradini del portone, con l’inequivocabile atteggiamento di chi sta aspettando qualcuno.

Noam non riuscì a rispondere subito, forse perché era confuso, turbato, emozionato e molto altro, o forse perché la domanda era mal posta: quella giusta avrebbe dovuto essere: “Li riconosce?”.

Forse no, accidenti.

Forse, se non li avesse incontrati lì, sotto la sua casa, forse, se li avesse incrociati tra la folla, sperduti in una qualche città, non ne sarebbe stato capace, tanto erano diversi. Tanto gli anni erano passati.

“Dzjorzj…”

Credette di parlare, ma la voce gli uscì così smorzata che Klèt gli appoggiò una mano sulla spalla e chiese:

“Si sente di nuovo male?”

Lui scosse appena la testa, mentre il giovane si era alzato in piedi, imitato subito dalle due ragazze, e gli stava andando incontro.

“N-no…” farfugliò Noam “E non si preoccupi… Sì, li conosco. Li conosco tutti e tre.”

Ma prima che potesse finire di parlare, una delle due gemelle (Era Trèxia o era Alma?) gli corse incontro e lo abbracciò di slancio.

“Noaaam!” (era Trèxia: quella era assolutamente la voce di Trèxia) “Sei bellissimo!”

Gli afferrò il viso tra le mani e gli stampò un bacio sulla gota, e poi un altro, saltando sul posto come una bambina impazzita di gioia. Accidenti, era lei ad essere bellissima: la ragazzina tutta ossa e complessi si era trasformata in una donna slanciata ed energica, con un atteggiamento del corpo che irradiava entusiasmo.

Finalmente Noam si sentì tornare il respiro e il suo viso si illuminò di un sorriso emozionato e confuso.

“Trèxia…”

Lo sguardo corse da lei a Alma, che era rimasta indietro, poi di nuovo a Dzjorzj. Era diventato incredibilmente alto, un po’ impacciato e spigoloso, l’unico in famiglia ad avere ereditato la barbetta ispida del padre e i suoi zigomi severi: ma lo sguardo era ancora quello troppo timido dell’adolescente che fuggiva la compagnia e amava intagliare il legno in solitudine.

“Perdonaci l’improvvisata,” la sua voce si era fatta adulta, roca e calda “ma siccome tu non ti sei degnato di cercaci in tutti questi anni, alla fine lo abbiamo fatto noi.”

Noam arrossì, colto in fallo, ma il rimprovero faceva ben poco male se messo a confronto con la gioia di rivederli.

“Signor Ròxaviy,” sorrise con orgoglio “le presento i miei fratelli!”

 

***

 

Trèxia non smetteva più di fare giri panoramici della casa, in preda ad un’eccitazione festosa che faceva risaltare di più l’immobilità quasi statuaria di Alma, che si era seduta in punta di una sedia e si era mossa solo per scegliere cosa versarsi da bere tra le numerose alternative che Noam aveva disposto in tavola. Non avevano mai amato l’essere confuse l’una con l’altra e loro madre per prima, del resto, detestava quello che chiamava il “giochino borghese” di vestire le figlie con gli stessi abiti, figuriamoci poi due gemelle! E però, erano davvero due gocce d’acqua: avevano dovuto impegnarsi molto negli anni per distinguersi e ci riuscivano solo grazie a quella prossemica così contrastante.

“Certo che, con lo stipendio che prendi, potresti pure darci una mano con l’affitto, eh? Studiare fuori sede è un salasso!”

Per fortuna Trèxia era spudorata e diretta: Noam ne aveva bisogno. La sua sfacciataggine lo salvava dai non detti e dal vago turbamento degli altri due. Sforzò una risata, mentre Alma arrossiva e lo nascondeva incassando la testa nelle spalle.

“Trè, ti prego! Come se queste fossero le cose importanti da…”

Ridere per dare l’impressione che tutto andasse bene. Che quei sei anni non fossero passati.

Cosa avrebbe dovuto dire? Qualunque risposta, qualunque umile giustificazione gli sarebbe suonata falsa. Dov’era mentre le sue sorelle riempivano una valigia e partivano per Kor? Come l’aveva presa loro madre, come aveva reagito Thièl? Erano state ostacolate? Sostenute? Erano state trattate come due fuggiasche, due codarde, come lui? E, soprattutto, aveva diritto di chiederglielo?

“S-sì… hai ragione… ” balbettò, imbarazzato, rivolto a Trèxia “avrei dovuto pensarci io…”

Ma non era quella la questione, e forse anche la sua espansiva sorella si aggrappava a frasi fatte perché nessuno di loro aveva gli strumenti per riempire l’abisso degli anni.

“… però posso rimediare, se me lo permettete…”

Stavano seduti nel suo salotto, con la luce dolce della sera che sbiadiva lenta oltre la grande vetrata di un appartamento così diverso dalla casa in cui erano cresciuti, e parlavano del niente per tenersi in equilibrio sul baratro; Noam lo percepiva al di sotto di ogni pensiero: il baratro di un padre morto e di una verità che lui, Thièl e loro madre avevano nascosto.

Pregò che non la sapessero mai.

Che la maledizione di Mòrask non li intrappolasse mai.

“Credevo che non voleste avere più niente a che fare con me.” disse, d’un tratto.

Dzjorzj sbuffò.

“Sei un po’ sbrigativo nell’arrivare a conclusioni e mi risulta che la nostra opinione non sia mai stata chiesta.” si mordicchiò nervosamente un’unghia. “Ma dopotutto per te conta solo quella di Thièl, e Thièl è un imbecille.”

Sentir pronunciare quel nome gli diede un brivido, ma Dzjorzj lo pronunciava con la beata normalità con cui avrebbe dovuto essere pronunciata una frase del genere. La beata normalità di chi non abita un mondo pieno di scheletri.

“Cazzo, sono stato cresciuto da due imbecilli: come ho fatto a venir su così maturo, intelligente e bravo a vivere?”

Sul suo viso si aprì un sorriso ironico: dio, quanto era bello vederlo così.

Come erano belli, tutti e tre.

“Bravo a vivere… ” fece eco Noam “un’espressione meravigliosa. No, non te l’ho insegnato io.”

“Appunto.”

Esisteva un mezzo per ristabilire un contatto che ignorasse una terrificante, colossale menzogna? E quanto diritto aveva di essere amato nonostante quella?

Noam non riusciva a parlare: non riusciva a fare altro che guardarli, cercando invano gli anni della loro vita che si era perso. Davvero non aveva avuto altra scelta che perderli?

I suoi fratelli.

La sua famiglia.

Cosa sapevano di lui?

Cosa gli aveva raccontato Thièl?

Doveva chiederglielo?

Con che razza di diritto poteva?

Finché Alma ruppe lo stallo.

“Porca puttana, Noam, mi sei mancato da morire!”

Quello sbotto improvviso lasciò tutti di sasso, compresa Trèxia, che si bloccò sul posto con la mano a mezz’aria a contemplare un qualche soprammobile che l’aveva incuriosita.

Alma, invece, si era appena sbarazzata del turbamento collettivo e si ergeva solida nel silenzio che era riuscita a creare, il silenzio di cui Fidòr non era capace, il silenzio e il sottovoce che Noam aveva costruito per loro, tutti i giorni, per anni, prima di sparire senza chiedere la loro opinione.

“Perché non ci hai più cercati?”

Si alzò dalla sedia su cui era rimasta rigida e scomoda per tutto il tempo e lo fronteggiò.

“Io lo avrei voluto fare, ma non potevo. Fino a due anni fa non sapevo nemmeno se fossi vivo!” aveva occhi sicuri, di una donna sicura, brava a vivere nella sua timida fermezza, brava a dire il non detto, e a dirlo per tutti “I lutti si devono affrontare e noi lo abbiamo fatto: ma quando non sai se la persona che ti manca è viva o morta, rimani disarmata e non puoi andare avanti né indietro, e tu, tu ci hai paralizzati in quella situazione!”

Noam abbassò la testa, sprofondando ancora di più tra i cuscini del divano, ma Alma si chinò sulle ginocchia alla sua altezza.

“No: guardami in faccia, Noam. Perché ci hai lasciati paralizzati? Sarebbe bastato un addio: saremmo stati capaci di affrontare un addio. Io lo sarei stata.”

Noam si sentiva svuotato e impotente: non aveva le frasi giuste, non aveva i gesti giusti, non aveva un accidente. Avrebbe voluto abbracciarla, dirle che anche a lui era mancata, forse spiegarsi ma tutti i suoi strumenti, il corpo, gli sguardi, la voce, erano cose vacue e inutili. Si sentiva il più piccolo dei quattro, il più piccolo dei piccoli, il bambino rimproverato, ma anche il bambino cercato, perdonato, accudito.

I suoi fratelli non gli stavano chiedendo di fare l’adulto, volevano solo essere visti.

Essere visti.

Come si poteva essere visti essendo i fratelli di Noam Dolbuk?

Come avevano imparato ad essere bravi a vivere?

Quando aveva smesso di guardarli?

Si sentiva così egoista.

(Oh, Segùr, maledizione, sono così egoista?)

Si sentiva stanco, svuotato, sfinito.

Quella terribile e straordinaria domenica gli pesava sulle spalle, gli ottundeva i pensieri: il confine tra passato e presente era così sottile, e lui si sentiva sospeso su quel confine con una nebbia umida nella testa, nel petto e nella gola, e un grande desiderio di farla uscire fuori…

“Mi dispiace.”

Sottovoce.

“Mi dispiace.”

Non riusciva a pronunciare nessun altra parola, tante ce ne erano.

“Mi dispiace.”

Anzi no, non ce n’era proprio nessuna.

Noam scoppiò a piangere.

“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!”

Alma lo abbracciò.

“Mi sei mancato.”

  
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