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Autore: Adeia Di Elferas    29/11/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il controverso ordine che il Valentino aveva dato ai soldati stava dando effetti abbastanza inattesi.

Nella notte più cupa di Senigallia, i borgiani avevano fatto razzia non solo dei beni personali dei quattro condottieri presi prigionieri, ma si erano presi la libertà di infierire anche sugli uomini ai comandi del Vitelli, degli Orsini e dell'Euffreducci.

In pochissimo tempo, tra grida e cariche improvvisate, i campi militari fuori e dentro la città si erano trasformati in un inferno. I soldati di Oliverotto, subodorando la disfatta del loro comandante, si erano subito dati alla fuga, senza badare più ai beni materiali e cercando solamente di aver salva la vita.

Gli armigeri degli Orsini e quelli di Oliverotto, invece, fecero in fretta fronte comune e provarono a contrastare gli uomini del Valentino. Gli scontri furono aspri e sanguinosi, ma alla fine i soldati dei condottieri ribelli riuscirono a ritirarsi in modo decoroso, salvando gran parte dei loro averi e, soprattutto, delle loro scorte di cibo.

Probabilmente proprio a causa dello smacco ricevuto ed essendo rimasti in troppi a mani vuote, gli uomini del Duca voltarono in fretta le loro attenzioni dagli altri soldati agli abitanti di Senigallia.

I borgiani entravano nelle case uccidendo gli uomini e usando violenza alle donne, svuotando le dispense e rubando tutti i soldi e l'oro che fossero capaci di trovare. Sfondavano porte, distruggevano mobili e strappavano i vestiti di dosso ai senigalliesi.

La notizia – e il frastuono – di quello che stava accadendo arrivò rapida all'orecchio di Cesare, ma questi, in un primo momento, fu restio a prendere una posizione, temendo che opporsi alle truppe si rivelasse un gravissimo passo falso.

Si risolse a porre un freno a quello sfacelo solo quando Miguel, dopo aver riferito della morte di Vitellozzo e Oliverotto, gli suggerì: “Meglio fermarli, o conquisterai un cimitero.”

Riottoso all'idea di uscire al freddo di quella notte che odorava di neve, il Borja mandò prima avanti il Corella e Marco Romano, assieme alla sua guardia personale e poi, solo quando le acque furono relativamente calme, indossò un mantello pesante e si palesò ai soldati e alla popolazione.

Non fece discorsi, né gesti eclatanti, ma ordinò in fretta che venissero giustiziati ribelli a sufficienza da rendere inoffensivi tutti gli altri. Vennero quindi imprigionati sia uomini del Borja, che avevano ecceduto nel saccheggio, ma anche uomini dei quattro condottieri morti, che si erano attardati troppo prima di cercare la fuga. La sorte però fu differente per i due gruppi di arrestati: i primi vennero subito uccisi, davanti alla popolazione, per far capire che la giustizia del Duca era dalla parte di Senigallia, mentre i secondi vennero messi in catene, con l'idea di spostarli a Pesaro, e da lì chiederne un riscatto ai relativi parenti.

Infine, come atto dimostrativo, Cesare diede ordine che i corpi nudi e sporchi di Oliverotto e Vitellozzo venissero esposti in pubblica piazza per almeno tre giorni, affinché tutti sapessero cosa succedeva a chi credeva di potersi prendere gioco di lui.

A quel modo, in meno di mezz'ora, il Duca di Valentinois aveva riportato la pace in Senigallia e il popolo, ancora sanguinante e disperato per il breve, ma intenso saccheggio, cominciava già a dividersi tra chi osannava questo 'nuovo Giulio Cesare' e chi invece lo vedeva solo come un nuovo tiranno, che li avrebbe governati con il bastone e la carota, illudendoli di avere giustizia al solo fine di potersi approfittare di loro come meglio credeva.

 

Quando Fortunati era tornato, la sera prima, Caterina l'aveva accolto con calore, ma senza lasciargli il tempo di iniziare qualsivoglia discorso. L'aveva convinto a rinviare il tutto, benché l'uomo apparisse molto preoccupato e teso.

La cena era stata soddisfacente e tranquilla e la veglia in vista del nuovo anno aveva rasserenato in parte il piovano, che, però, a notte fatta, mentre tutti si ritiravano per riposare un po', si era lasciato riprendere dall'ansia.

“Dobbiamo parlare, Caterina...” disse alla Tigre, avvicinandola con discrezione.

La donna, che avrebbe voluto solo tuffarsi nelle lenzuola pulite e, magari, approfittare della ritrovata presenza di Francesco, storse la bocca e chiese: “Si tratta di cose urgenti, intendo davvero urgenti, o possiamo parlarne anche tra qualche ora, quando sorgerà il sole? In fondo è Capodanno...”

“Non è Capodanno...” borbottò, ostinato Fortunati.

“Noi non siamo fiorentini – tagliò corto la Sforza, arrabbiandosi – e quindi lo festeggiamo oggi.”

“Tuo figlio Giovannino lo è, però... Lui è fiorentino.” ribatté il piovano, salutando con un cenno del capo frate Lauro, uno degli ultimi a ritirarsi.

Nella saletta in cui fino a poco prima avevano tutti ascoltato con piacere Bianca cantare, ormai erano rimasti solo la Leonessa, il piovano e Bernardino con Galeazzo, che stavano giocando una combattuta partita ai dadi, usando quelli intagliati di persona proprio dal Riario.

“Hai ragione, Giovannino, per metà, è fiorentino. Purtroppo, però, non è qui con noi al momento...” soffiò la donna.

“Infatti devo parlarti anche di quello...” provò a dire l'uomo, pensando che, forse, partendo dalle novità circa il processo, la sua amata Caterina sarebbe stata più propensa ad ascoltarlo.

La donna, invece, parve solo farsi più spazientita, tanto che guardò di traverso Galeazzo e Bernardino e disse loro, con una durezza poco si sposava con la lieta quiete che aveva regnato per tutta sera: “Non vi sembra il caso di andare a dormire?”

I due ragazzi, capendo al volo il tono anomalo della voce della madre, smisero all'istante di lanciare i dadi e, scusandosi, lasciarono in fretta la sala, augurando ancora una volta un buon anno nuovo.

“Cosa devi dirmi del processo?” chiese a quel punto Caterina, gli occhi verdi fissi su Fortunati.

“Sembra che il tribunale abbia fissato la data definitiva delle tue deposizioni per il ventun gennaio, ma non hanno ancora depositato la convocazione ufficiale.” spiegò lui, attendendo con ansia una reazione della Sforza.

Questa, stringendo un attimo i denti, sollevò poi le sopracciglia, commentando: “Prima o dopo doveva essere... Affronterò una cosa per volta.”

“Mi fa piacere sentirti così serena, riguardo al processo.” commentò l'uomo, senza particolari intenzioni, solo constatando quello che gli sembrava di vedere e sentire.

Quella frase, detta senza riflettere, fece arrabbiare la Tigre più di qualsiasi altra cosa il piovano avesse potuto dire: “Serena?” chiese la donna, allibita: “Credi che io sia serena, trovandomi contro un Medici che sembra incarnare egli stesso la Repubblica, che ha portato questo processo in tribunale fiorentino, con giudici fiorentini che rispondono alla legge di Firenze?”

Francesco parve capire solo in quel momento l'errore commesso, ma, non sapendo come rimediare, si limitò a restare in silenzio, per non peggiorare ulteriormente la situazione.

“La prima volta me la sono cavata anche perché ho potuto portare il processo in un territorio relativamente neutro. Dopodiché, finendo da prigioniera a protetta dei francesi sono riuscita ad arginare il disastro...” elencò Caterina, febbrile: “Ma cosa credi che possa fare, adesso, contro Lorenzo Medici, il Popolano, quello che ha dato a Firenze un volto nuovo dopo la caduta di Savonarola? Quello che ha assicurato un'amicizia tra re Luigi e la Repubblica? Per chi credi che parteggeranno quei giudici che dal Medici possono avere riconoscenza e favori, mentre da me solo un'amicizia che sarebbe subito vista come sospetta e torbida?”

Francesco, a quel punto, aveva avuto modo di pensare a una difesa e così ribatté, flebile, ma sicuro dei suoi argomenti: “Lorenzo non è mai stato così poco popolare come adesso... La Signoria lo guarda con sospetto e gli dà sempre meno importanza... Certo, molto dipenderà da come finiranno le cose a Senigallia e in Umbria, ma se il Valentino non verrà fermato da un fulmine o da un'inondazione, è probabile che arrivi a Siena e da lì alle porte di Firenze... A quel punto chi parteggerà per Lorenzo? Chi vorrà appoggiare l'uomo che ha portato la Repubblica a finire preda dei Borja?”

“Che intendi dire, che il Valentino potrebbe arrivare alle porte di Firenze..?” chiese la Tigre, senza fiato, mentre tutto il resto perdeva di importanza: “Il figlio del papa è amico di Firenze... Hanno degli accordi... Il re di Francia non...”

“Sono successe molte cose in queste settimane.” la prese alla lunga il piovano: “Siediti e ne parliamo...”

La Leonessa avrebbe voluto sottrarsi a quell'incombenza, soprattutto per paura di sentire cose che avrebbero distrutto quella parvenza di stabilità che sentiva di aver guadagnato nelle ultime settimane. Tuttavia, abituata ad affrontare le avversità con durezza, alla fine non si sottrasse e, sistemandosi il più possibile vicino al camino, indicò a Fortunati la sedia vicina e lo invitò a parlare.

Prima di tutto, il piovano le spiegò come la situazione a Senigallia fosse ormai decisa: il Borja aveva conquistato la città, anche se forse restava qualche resistenza della cittadella. La cosa grave, però, riguardante quella conquista non stava tanto nel passo avanti fatto dal Valentino, quanto dall'atteggiamento strano che aveva avuto nei confronti di alcuni uomini ritenuti suoi alleati.

Le spiegò di come Ercole Bentivoglio fosse stato preso prigioniero e fosse ancora dal destino incerto. Le raccontò parimenti della concentrazione quanto mai strana di condottieri che un tempo erano stati ribelli, proprio a Senigallia.

“Ora non sappiamo se il Borja sia già là – concluse il pernsiero Francesco – ma non è strano pensare che da Senigallia usciranno vivi solo o i condottieri ribelli o il Valentino stesso...”

Caterina aveva sentito un brivido correre lungo la schiena, nel valutare approfonditamente una simile esternazione. Era credibile che il figlio del papa volesse liberarsi fisicamente di quelli che avevano cercato di mettergli i bastoni tra le ruote, e, di contro, era credibile che i ribelli fossero ancora tali e avessero accettato solo per facciata gli accordi stretti pochi mesi prima... Tuttavia un'azione tanto muscolare, da una parte o dall'altra, sarebbe stata un tale azzardo da rischiare di rimescolare le carte in tutta Italia.

“Calcolando la fine che ha fatto Ramiro de Lorca...” sussurrò il piovano, ricordandosi solo in quel momento di non averne parlato alla Tigre.

Man mano che spiegava il come e il presunto perché della morte violenta del vecchio luogotenente di Cesena, la Sforza inziava a impallidire. Se Cesare si era fidato a far assassinare a quel modo Ramiro, allora era scontato quale sarebbe stato l'esito del suo incontro coi condottieri a Senigallia...

La donna era già presa dai suoi pensieri, sudata e così nervosa da avere le mani percorse da un leggero tremito, ma il fiorentino non se ne avvide, troppo concentrato com'era a riassumere a dovere le ultime notizie.

“Ad aggravare la situazione, per Firenze, c'è il fatto che il Valentino non ha un controllo pressante da parte dei francesi, visto che Luigi sta facendo anche troppa fatica al sud...” grattandosi il mento, l'uomo cercò di spiegare in modo semplice quanto accaduto: “I francesi stanno collezionando una vittoria dopo l'altra... Pochi giorni fa, a Seminara, hanno sbaragliato gli spagnoli... Quindi stanno credendo molto in questa guerra e si distraggono da quello che succede in centro Italia. Senza contare che stanno spendendo molto per la storia di Barletta...”

“Che sta succedendo a Barletta?” ebbe lo spirito di chiedere Caterina.

Sapeva che quella città era relativamente vicina a Bari, dove viveva sua cognata Isabella d'Aragona. Non aveva più avuto notizie di lei da molto tempo e si chiedeva se potesse avervi qualcosa a che fare. In effetti la risposta che le diede Fortunati le diede ragione.

“I francesi hanno sotto assedio Barletta da mesi... Da settembre, se non vado errato. La città però non cade, anche perché Prospero Colonna ce la sta mettendo tutta per non farla cadere, specie ora che Isabella gli ha dato pieno mandato, dichiarandosi completamente a favore della causa spagnola...” fece Francesco: “Ora... Io non so se sia vero, ma...”

Attese qualche istante, studiando la reazione della Leonessa con un paio di rapide occhiate. Dato che la donna pareva abbastanza tranquilla, per quanto partecipe, decise che riferirle quello che poteva essere anche solo un pettegolezzo sarebbe stato comunque utile per aiutarla a comprendere meglio la situazione generale.

“Ecco, dicono che ora anche Prospero Colonna sia un suo amante...” provò a dire.

“In che senso anche?” la voce di Caterina era sottile, ma i suoi occhi erano così confusi da far capire appieno quanto quella notizia la cogliesse di sorpresa.

“Sembra che Isabella, da qualche tempo, da quando... Insomma, da quando ha una certa stabilità economica e un discreto potere, possedendo Bari, ecco... Sembra che non voglia più fare la vedova inconsolabile.” il panegirico di Fortunati irritò la Tigre, ma lo lasciò proseguire, decisa a sapere ogni dettaglio: “Ha subito esercitato il suo potere e sembra non si faccia molti problemi a vivere l'amore in modo molto... libero. Basta pensare a quello che ha fatto con Giosué De Ruggiero...”

“Non ho voglia di sciarade: dimmi quello che sai e basta.” la pazienza della Sforza stava davvero finendo, e il suo interlocutore finalmente lo capì.

Lasciando da parte la pudicizia da prete che a volte mostrava ancora perfino con lei nell'intimità, Francesco si schiarì la voce e rispose: “Sembra che questo Giosué sia il suo favorito... Figurati che in ottobre, Isabella ha fatto prendere con le armi Ceglie e gliel'ha donata in cambio dei suoi servigi...” l'uomo scosse tra sé il capo, come rimprovero silente per la condotta licenziosa dell'Aragona, e poi riprese: “Dicono che non sia l'unico, benché sia il preferito, nonché il suo tesoriere e il suo consigliere più stretto. Ha imbastito una corte molto nutrita, con tante dame, certo, e istitutori famosi per la figlia Bona, ma soprattutto con tanti uomini ricchi di fascino e con alcuni cavalieri giovani e forti... Ora anche Prospero Colonna sembra essere entrato nelle sue grazie e sembra che sia i suoi occhi e le sue orecchie sul campo di battaglia...”

“Davvero ha fatto prendere una città con le armi solo per darla al suo favorito?” chiese, ancora interdetta, Caterina.

“Così sembra... Sta creando non pochi imbarazzi agli spagnoli, con il suo modo di vivere, ma sta anche risolvendo loro molti problemi, con il suo esercito e le sue azioni decise...” soppesò il fiorentino.

Senza preavviso alcuno, la Tigre si alzò in piedi di scatto e, cominciando a camminare veloce, le mani che gesticolavano come mulinelli, si mise a bestemmiare come non faceva da tempo e poi esclamò: “Ah! Se solo avessi ancora il mio esercito! Se solo potessi montare ancora il mio stallone e impugnare lo spadone a due mani! Io e Isabella potremmo mettere a ferro e fuoco Roma, sterminare i Borja, cacciare gli stranieri e riportare l'ordine! Faremmo nascere l'Italia! Se solo avessi ancora il mio esercito! Io impazzisco a starmene qui come una statua... Io ho bisogno del campo di battaglia, dei soldati, della carica della cavalleria!”

Francesco la guardava in silenzio, aspettando che sbollisse. Dovette sorbirsi ancora qualche minuto di quelli che a lui parevano vaneggiamenti, e poi, solo quando fu certo che l'arringa fosse finita, si permise di frenare l'ardore della sua amante.

“Tu e Isabella potreste ben poco contro i francesi e il Valentino, ora come ora... Barletta è una questione insoluta solo perché re Luigi non si è ancora deciso a richiamare all'ordine l'Aubigny, ma se lo mandasse in loco subito, confezionerebbe un altro capolavoro, come a Seminara...” fece il piovano.

La Leonessa si fermò di colpo: “C'era l'Aubigny alla guida dei francesi, a Seminara?”

Vedendo Fortunati che annuiva, la donna si rimise subito a sedere. Quel francese, per quanto avesse avuto un ruolo cruciale anche nel fuggire dalla prigionia, era stato per lei uno dei simboli della disfatta.

Era ovvio che militasse per i francesi in quella guerra, eppure, sentendolo nominare, la Sforza perse ogni vigore. Un po' come le era successo per anni con Girolamo, che pur disprezzava e riteneva suo inferiore, le era bastato il nome di quel condottiero per sentirsi persa.

La Leonessa sentiva il fiato venirle meno, mentre provava a combattere con le immagini, sempre più crude e sempre più violente della sua cattura e della sua lunghissima prigionia.

Al solo scopo di distrarsi, chiese: “E i Salviati? Ti avevo scritto che ero pronta a vederli... Che ne è stato di loro?”

“Non è il momento giusto per loro, adesso.” fu la risposta del piovano: “Jacopo è troppo impegnato... Firenze potrebbe ritirare presto Machiavelli e lui vorrebbe proporsi al suo posto come ambasciatore presso il Borja... Sembra che Niccolò sia ritenuto troppo di parte... C'è chi dice che si sia infatuato del Valentino...”

La Tigre non ribatté con alcun motto sarcastico e questi impensierì molto il fiorentino. Osservando bene il suo volto, poteva capire quanto fosse agitata e confusa. Si rese addirittura conto che la Tigre non aveva nemmeno ascoltato la sua ultima dichiarazione.

“C'è altro di cui devi parlarmi?” gli chiese lei e, quando l'uomo fece segno di no, lo pregò, con un tono che sfiorava la supplica: “Adesso vai a dormire... Io resto qui ancora un istante e poi mi ritiro...”

Francesco non obiettò, alzandosi, ma non riuscì a nascondere quanto avrebbe voluto la sua delusione, dato che per tutto il tempo in cui erano stati separati, non aveva desiderato altro che non passare di nuovo la notte con lei.

Capendo il suo tentennamento, la milanese sussurrò: “Perdonami... Stasera preferisco restare da sola...”

L'uomo fece un breve sorriso di circostanza e poi soffiò: “Dormi bene.” e lasciò la stanza.

Caterina ci mise qualche minuto per riuscire a radunare un po' le idee. Tutte le cose di cui il piovano le aveva parlato meritavano attenzione e un attento approfondimento, eppure nella sua testa sembrava esserci spazio solo per qualche nome – come quello dell'Aubigny – e per alcune immagini confuse, ma riconoscibilissime, della cella di Castel Sant'Angelo che l'aveva tenuta celata al mondo per mesi.

Camminando lentamente, al buio, la donna raggiunse la sua camera da letto e, prima di spogliarsi e coricarsi, andò alla finestra. L'aprì e inspirò l'aria gelida di quella notte immobile. Tutt'attorno alla villa c'erano solo neve e silenzio. Quella quiete portata all'estremo livello di norma l'avrebbe fatta sentire meglio, ma in quel momento le ricordava troppo la prigionia. Anche quando era rinchiusa con lei c'erano solo il silenzio e il freddo...

Richiudendo tutto, andò sotto le coperte, gli occhi che si perdevano negli ultimi riflessi del camino che si stava spegnendo, lasciando nella camera un piacevole profumo di legna e una luce soffusa e accogliente.

Malgrado tutto, si sentiva così stanca che scivolare dalla coscienza all'incoscienza completa fu un istante. La tiepida e rassicurante stanza della villa di Castello si trasformò in fretta in un rettangolo gelido e buio. Il pavimento sterrato era l'unico letto possibile e le grate fitte e distanti, da cui scendeva di quando in quando un refolo di polvere, erano l'unico contatto con il mondo.

La Tigre si divincolò, si arrovellò, si disperò, ma la cella si faceva sempre più stretta attorno a lei, il fiato via via le mancava e il cuore correva come un cavallo impazzito, andando a sbattere contro il suo sterno, facendole quasi male. Non vedeva nulla, non sentiva alcun rumore. Il tempo era dilatato e inutile, il giorno e la notte avevano lo stesso volto, la veglia e il sonno si inseguivano senza un rigore logico e le sue membra invecchiavano senza che avessero speso nemmeno un istante di vita...

All'improvviso, sentì dei colpi alla porta. Doveva essere uno dei suoi carcerieri che le portava qualcosa, oppure che la veniva a prendere per condurla infine davanti a un boia. La seconda opzione, in quel momento, quasi l'allettava.

Il battere si faceva sempre più insistente e la Tigre si premeva contro la parete fredda, scrutando nel buio, non riuscendo a distinguere altro che ombre su ombre...

Con il respiro mozzo e il camicione da notte zuppo di sudore ghiacciato, la Sforza si svegliò di soprassalto. Aveva le orecchie che fischiavano e la gola stretta. Sapeva di essere al sicuro, nella sua stanza, ma il camino spento e il buio la confondevano. Si mise a sedere e poi, a tentoni, cercò le candele che stavano sulla scrivania e, dopo qualche tentativo maldestro, riuscì ad accendere la prima. Le mise in fila una dopo l'altra, accendendone molte più del dovuto, ma le sembrava ancora che ci fosse troppo buio e che quella camera le stesse troppo stretta.

Mentre appicciava ancora un lume di più, si rese conto che il bussare che aveva sentito nel suo incubo era reale. Non era né insistente né violento come l'aveva sognato, ma c'era.

Andando alla porta, con una candela in mano, chiese chi fosse e non si sorprese più di tanto nel sentire la voce del piovano dire: “Sono io, scusami... Ma non ero tranquillo... Ti ho vista troppo agitata, prima, così ho pensato che fosse meglio...”

Ancora prima che il fiorentino concludesse l'ultimo pensiero, la Leonessa già gli stava aprendo la porta, lasciandolo entrare.

Francesco guardò stranito dapprima tutte le candele accese messe in fila sulla scrivania e poi, ancor più allarmato, si soffermò sul viso tirato della donna. Aveva i capelli umidi di sudore e i suoi occhi avevano un lucore strano, come se avesse la febbre.

“C'era buio...” provò a spiegare lei, capendo la perplessità del piovano.

“Forse – provò ad assecondarla lui, per prendere tempo – dovremmo sistemarle meglio, in modo da avere più luce...”

Mentre Fortunati spostava le candele, posizionandole in ogni angolo della camera, ottenendo, in effetti, un'efficienza maggiore dalle loro fiammelle, Caterina si sedette sul letto. Non riusciva a togliersi di dosso la sensazione tremenda di essere ancora a Castel Sant'Angelo. Si sentiva sporca, fredda e disperata. Si guardava il camicione, sudato, ma pulito, poi le mani, di nuovo morbide e curate, eppure i suoi nervi erano ancora a fior di pelle e la sua mente preda della paura.

Il fiorentino ci stava mettendo più del dovuto, per sistemare l'illuminazione, ma la Leonessa non si accorgeva della sua lentezza. Stava pian piano metabolizzando quello che le stringeva il cuore.

Francesco, di quando in quando, le lanciava un'occhiata tesa. Anche se la Sforza sembrava ogni giorno tornare sempre più in sé, i momenti come quello gli facevano capire che le ferite che aveva subito non si sarebbero mai rimarginate e che un certo grado di instabilità le sarebbe sempre rimasto.

A lui non spaventava più l'idea di dover gestire quest'enorme fragilità: ciò che lo atterriva era pensare che la sua donna soffrisse ancora così tanto per qualcosa che, ormai, faceva parte solo del suo passato.

La Tigre, invece, stava ormai seguendo tutto un altro filo di ragionamenti. Pensare a se stessa e alla propria prigionia, l'aveva portata a chiedersi se anche quelli che lei stessa aveva messo in cella a Ravaldino avessero passato ciò che aveva passato lei. Le segrete della sua rocca non avevano nulla da invidiare a quelle di Castel Sant'Angelo. Forse erano meno isolate le une dalle altre e forse erano meno silenziose... Ma se mancava la solitudine, abbondavano i ratti, se mancava il silenzio assordante, c'era l'eco delle grida degli altri condannati, e se mancava l'assenza totale di luce, c'era quella di cibo e acqua, serviti sempre con parsimonia, fino alla sospensione totale nel corso dell'assedio del dicembre 1499...

“Che cosa ho fatto?” chiese, in un bisbiglio, la donna, guardandosi le mani, ricordando tutte le volte in cui quelle stesse mani avevano percosso o ucciso uno dei tanti prigionieri che aveva tenuto nelle celle di Ravaldino.

Il piovano non capì il senso di quella domanda, ma colse appieno l'inquietudine della sua amata.

Così, guardingo, si andò a sedere vicino a lei, avendo cura di non sfiorarla nemmeno: “Vuoi parlarmi di qualcosa?”

Dapprima la milanese scosse il capo e poi, accigliandosi, domandò: “Se ci si rende conto di aver commesso un errore gravissimo, un errore imperdonabile, e si riconosce di averlo commesso, ma se non si è sicuri che, potendo tornare indietro, si eviterebbe di farlo... Ci si può confessare ugualmente ed essere perdonati?”

“Per ottene l'assoluzione – rispose l'uomo, con tono quasi accademico – ci vuole spirito di contrizione e pentimento. Quindi si dovrebbe essere sicuri che, potendo tornare indietro, non si rifarebbe quell'errore.”

Caterina deglutì un paio di volte e poi, asciugandosi gli occhi, da cui intanto erano scappate un paio di lacrime, scosse con forza il capo e commentò: “Non importa, allora...”

“Però se vuoi parlarmi di qualcosa, io...” si propose di nuovo Francesco.

“Non avrebbe senso...” tirò su col naso lei, facendosi di nuovo scontrosa: “Perché so, nel profondo, che se tornassi indietro lo farei di nuovo.”

Chiedendosi quale delle tante colpe della Leonessa si nascondesse dietro a quella frase sibillina, il piovano si arrese e chiese: “Vuoi che ti lasci sola?”

“No, ti prego resta.” rispose subito lei: “Non ce la faccio più a stare da sola...”

L'uomo capì subito che dietro a quell'esternazione non c'era nessuna proposta particolare e il modo dimesso in cui la Tigre si infilò subito sotto le coperte tolse ogni altro possibile dubbio. Così, con un sospiro, Fortunati si alzò di nuovo e soffiò su una candela, ma non andò oltre.

“Lasciale accese.” ordinò Caterina, il volto in parte coperto dal lenzuolo, quasi vergognandosi per la propria richiesta: “Non voglio che torni il buio. Non voglio riaddormentarmi e sognare ancora quella cella.”

Finalmente, almeno in parte, il fiorentino capì il motivo di tutta quell'agitazione e provò una compassione e un'umana vicinanza così forti, da trovarsi sul punto di piangere a sua volta. Si ricordava molto bene della condizione drammatica in cui si trovava la Sforza, quando era prigioniera dei Borja, e non poteva nemmeno figurarsi cosa avesse potuto provare in quei lunghissimi mesi di isolamento.

Senza dire nulla, quindi, tornò a letto, si mise al fianco della sua amante e, senza prendersi neppure la libertà di darle un bacio, le sussurrò: “Per qualsiasi cosa, conta su di me.”

La Leonessa annuì e poi, con un sospiro pesante, si sistemò meglio e, contro ogni sua aspettativa, si riaddormentò all'istante. Francesco, invece, si trovò, senza aver calcolato di farlo, a vegliarla fino all'alba, attento e vigile come una balia intenta a vegliare un neonato in difficoltà, e solo quella notte capì davvero l'essenza e la forza dell'amore che provava per lei e si sentì rincuorato nel capire che non si sarebbe mai esaurito, per nessun motivo.

   
 
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