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Autore: nephaelibatha    02/12/2022    0 recensioni
Tutti nel Mondo Magico conoscono i Black. Forza; onore; lealtà: queste sono le caratteristiche che hanno scritto la storia centenaria della famiglia, il cui destino sembra quello di continuare a prosperare nella purezza di generazione in generazione. Ma quando una terribile tragedia colpisce la famiglia, sta alla minore delle sorelle, Narcissa, con l'aiuto di un vecchio amico di famiglia, impedire che un oscuro segreto offuschi lo splendore della stella dei Black.
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Famiglia Black, Lucius Malfoy, Narcissa Malfoy, Severus Piton | Coppie: Lucius/Narcissa
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Prologo
 

I cespugli di ortensie ondeggiavano adagi alle carezze del vento, diffondendo nell'aria tiepida il profumo delle dolci promesse di giugno. La bambina sfrecciò accanto a uno di essi, frustandone con un lembo del vestito la corona e lasciandosi alle spalle una scia di petali color indaco che si librarono in aria per un po' come buffi coriandoli prima di cadere sull'erba finemente tosata. La bambina continuò a correre senza voltarsi. Il vestito, il bel vestito di seta bianca regalatole da zia Walburga, era irriconoscibile: ormai vagamente bianco, con l'orlo imbrattato di terra e le maniche stropicciate che ricordavano gli stracci appesi ad asciugare giù in lavanderia. Se sua madre l'avesse vista in quello stato sarebbe morta sul colpo ancor prima di poter solo pensare di diseredarla. Ma in quel momento il viso altero di sua madre non rappresentava una grossa minaccia; qualcos'altro, un'angoscia più grande, l'aveva spodestata dal piccolo cuore impazzito della bambina.
«Petit!» gridò, con tutto il fiato che aveva nei suoi piccoli polmoni da bambina.
Aveva appena superato il recinto con le rose di suo padre quando avvertì il tanto familiare e per questo detestato pizzicore agli occhi. Non ora, per favore. Ma le lacrime cominciarono a scendere imperterrite sul suo volto morbido d'infanzia, quasi facendo a gara tra loro. Con rabbia, la bambina si passò il dorso della mano sul viso, decisa a voler cancellare ogni traccia di pianto. E tuttavia un istante dopo le lacrime ripresero a scendere, con capricciosa ostinazione. Decise che se le sarebbe mangiate il vento. Accelerò l'andatura e in una manciata di minuti si ritrovò a superare il confine con il bosco che circondava la sua casa. Alle sue spalle, più lontano di quanto la sua giovane mente potesse calcolare, le torri del maniero si stagliavano contro il cielo bruneggiante come i profili di due genitori severi.
Un'altra bambina, una bambina che avesse conosciuto l'aspetto di una vera casa, probabilmente avrebbe corso in quella direzione e non in quella opposta, ma per lei che conosceva soltanto un edificio monumentale pieno di stanze in cui perdersi, la fuga era l'unica direzione. Naturalmente un pensiero del genere non le aveva nemmeno sfiorato la mente. Era troppo piccola per interrogarsi sul motivo profondo dietro al prurito che le faceva scattare i piedi; in quel momento sapeva solo che era necessario, quasi vitale, e questo le bastava. Sarebbe stato perfino piacevole, se ad animarla non ci fosse stato un amalgama di paura misto ad angoscia: la terra che si scioglieva in un nastro infinito sotto i suoi piedi, il rumore dei passi che accompagnava l'avanzata come un canto di tamburi, il respiro che si assottigliava sempre di più, frammentandosi nell'aria. C'erano momenti in cui si perdeva totalmente nella corsa, e lei stessa diventava energia pura e liquida.
«Petit!»
All'improvviso cadde. Come le era stato insegnato, allungò prontamente le braccia in avanti e la testa fu salva. Un gemito strozzato le sgusciò fuori dal petto al contatto con il terreno duro e umido. Almeno le lacrime si erano freddate in sottili rigagnoli ai lati del viso e non minacciavano di scendere ancora. Per un attimo rimase ferma dov'era, troppo sorpresa per provare dolore o spavento. Poi si girò sul fianco e solo allora scoprì la causa della caduta: una grossa radice nascosta all'ombra di una quercia imponente. Con una smorfia, si chinò sul piede che aveva sbattuto contro la radice: le doleva, e sentiva la caviglia pulsare a un ritmo preoccupante. Di nuovo sentì affiorare le lacrime, che tuttavia si cristallizzarono ai lati degli occhi non appena lo sguardo le si posò sulla scarpetta nuova: il fiocco di raso che la decorava si era scucito e ora penzolava dalla punta, appassito e sporco; il resto della scarpa era completamente ricoperto dal fango, e lo stesso valeva per l'altra. Con una smorfia di dolore più per il raso che per il piede, si sfilò la scarpetta. Una macchia rosso vivo imporporava la calza all'altezza del malleolo in un disco perfetto. Per la piccola fu troppo. Di colpo avvertì tutta insieme la stanchezza che fino a quel momento era rimasta soffocata dietro l'apprensione, e subito una paura diversa, più materiale, cominciò a insinuarsi nel suo cuore affaticato. Si guardò intorno e suo malgrado scoprì di essersi spinta troppo oltre. Quella non era la prima volta che si addentrava nel bosco; fare passeggiate nella natura era un'abitudine che aveva preso da qualche tempo, ma mai da sola e di certo non a quell'ora così tarda. Gli scenari più drammatici le si snodarono davanti agli occhi come sequenze di una pellicola lasciata girare a vuoto senza che lei riuscisse a fermarli. E se avesse trascorso il resto dei suoi giorni lì, senza cibo né acqua? Il suo corpo era troppo viziato per sopravvivere in quelle condizioni, senza contare il fatto che era ferita e che il vestito della zia non era tanto pesante quanto era bello. Sarebbe morta di freddo, o di fame, o dissanguata. O uccisa e divorata da qualche animale selvatico. C'erano lupi lì? E gli orsi?
D'un tratto il dolore al piede s'intensificò, interrompendo bruscamente la proiezione mentale delle sue possibili morti per ricordarle quale fosse la priorità. Intanto l'aria si stava colorando di riflessi ramati; se voleva tornare a casa prima che facesse buio e la temperatura si abbassasse eccessivamente, doveva fasciare la caviglia. Le tornò in mente il libro che stava leggendo in quei giorni: il protagonista, un bambino che da solo era sopravvissuto a un naufragio, approdava su un'isola con un braccio ferito. Dopo aver estratto con i denti una dopo l'altra le schegge rimaste conficcate nella ferita, aveva fasciato il braccio ricavando delle bende rudimentali dai pezzi della vela del vascello, approdati insieme a lui sulla battigia. La bambina guardò con espressione colpevole in direzione dell'orlo ricamato del bel vestito regalatole dalla zia, dopodiché, mentre prendeva un gran respiro, tirò forte con entrambe le mani finché non sentì il tessuto cedere in uno strappo netto. Arrotolò la stoffa ben stretta attorno alla caviglia, sopra la calza, e quando ebbe finito fissò il tutto con una forcina tolta dai capelli. "Ay-oh! Ben fatto, capitano", avrebbe gridato il naufrago del suo libro, e per un attimo la piccola rimase a rimirare la sua opera con riscoperto orgoglio. Un attimo, e poi la sua mente riprese a lavorare frenetica in cerca del successivo problema da risolvere. Doveva avvicinarsi a casa. Ma se l'avesse fatto, le possibilità di trovare Petit si sarebbero ridotte vertiginosamente. Petit rientrava sempre in casa prima del tramonto; l'aveva fatto ogni giorno, per quattro anni, da quando era saltato fuori dalla scatola infiocchettata che suo padre le aveva fatto trovare in camera sua, la mattina del suo quarto compleanno. A Petit piaceva gironzolare nel grande giardino che costeggiava il maniero dei Black, annusare le diverse fragranze dei fiori che vi crescevano, mangiucchiare l'erba che delimitava il confine con il bosco che, proprio come nel caso della sua padroncina, non poteva oltrepassare da solo. Era compito della piccola chiudere bene il cancelletto che avrebbe tenuto Petit al sicuro, e vi adempieva tutti i pomeriggi con dedizione, ma quel giorno sua madre aveva monopolizzato la totalità delle sue attenzioni perché zia Walburga aveva mandato un pacco per lei, un pacco contenente il – ormai non più – bellissimo vestito di seta bianca, e lei doveva provarlo. Così si era dimenticata di chiudere il cancelletto. Quando poi si era ricordata, ormai a pomeriggio inoltrato, ed era scesa giù in giardino, il suo adorabile coniglietto era sparito. In preda al panico, lo aveva cercato in tutti i suoi nascondigli preferiti, invano; le era rimasto solo il bosco, e così ci si era fiondata. E ora eccola: sola, infreddolita, ferita, fuggiasca e colpevole. Si sentiva tremendamente responsabile per tutto: per il suo amato Petit, per aver ceduto alla vanità di provare un vestito nuovo, per essere scappata senza avvisare nessuno, e per aver imbrattato di fango e sangue il regalo della zia. Probabilmente se fosse rimasta lì a vagare come una naufraga della terraferma per giorni, in mezzo a schiere di alberi che al suo occhio pigro da aristocratica sembravano tutte uguali, se lo sarebbe meritato. Si sentiva così sciocca e ridicola, e tuttavia quel pensiero abitò la sua mente solo per un istante. Non si sarebbe pianta addosso; lei era una Black: si sarebbe rimboccata le maniche, avrebbe ritrovato il suo Petit, e insieme anche la strada di casa, in tempo per la cena, per giunta.
Si tirò su, animata da quell'improvvisa ondata di ottimismo. Quasi non sentiva più nemmeno il dolore alla caviglia. Mosse i primi passi verso quella che le sembrava la direzione giusta, con cautela, per testare sia la gamba che il proprio orientamento. Constatò con sollievo che era nuovamente in grado di camminare, anche se a un ritmo più lento. L'erba inumidita dalla sera le pungeva dolcemente la pianta del piede scalzo in un delicato solletico. Aveva appena superato una fila di faggi ritti come sentinelle quando avvertì un lieve fruscio proveniente da un arbusto vicino.
«Petit?» sussurrò, un filo di speranza nella voce. Ma il rumore cessò un attimo dopo e con esso svanì anche l'illusione dal petto della piccola. Ciononostante, continuò a camminare. Gli alberi si stagliavano ai lati del sentiero e tutto intorno a lei, muti e inflessibili come colonne vegetali. Sentiva la paura ancora dentro di lei, annodata ben stretta in gola, ma almeno gli occhi erano ben asciutti e vigili. Mentre camminava, l'eventualità di non trovare il suo coniglio nemmeno lì non attraversò mai del tutto la soglia della sua coscienza; rimase invece ai margini, seminando un senso di inquietudine tra i suoi pensieri che andò a mischiarsi alla paura in una miscela letale. Avvertì un altro rumore e si fermò di nuovo, il cuore palpitante.
«Petit!» chiamò, chinandosi verso i cespugli di rododendro che costeggiavano quel tratto di sentiero con le mani chiuse a coppa attorno alla bocca. Il bosco le restituì in risposta un freddo silenzio. Non era solo la paura; a quell'ora della sera l'umidità cresceva vertiginosamente nella foresta, rendendola un rifugio inospitale almeno fino alla metà di luglio. La bambina tirò su col naso, chiuso dall'eccessivo pianto, e si strinse nel leggero vestito di raso. Chiamò ancora un altro paio di volte, finché la voce non le si spense in gola, vinta dalla stanchezza.
Dopo quella che le era parsa un'eternità, qualcuno rispose. Ma non si trattava del morbido zampettare del suo Petit, piuttosto di un feroce grugnito che proveniva proprio dagli arbusti alla sua destra. Senza pensarci due volte, la piccola si voltò e riprese a correre, ignorando il fatto di essere scalza da un piede, ferita e provata dal freddo e dalla fame. Una decina di falcate e la caviglia cedette, facendola precipitare di nuovo al suolo. Stavolta la piccola non ebbe la prontezza di allungare le braccia, e la sua guancia atterrò direttamente sul terreno freddo e scuro in un piccolo sobbalzo.
Un po' per il colpo, un po' per la stanchezza, sentì finalmente sfiatare la baraonda di emozioni che le aveva straziato il cuore fino a quel momento e lasciare spazio a un silenzio carico di sollievo. Riuscì a tenere gli occhi aperti ancora per un poco, nonostante il dolore cominciasse a impadronirsi della sua testa, esplodendo in una miriade di scintille. Vide i rami abbracciarsi tra loro in una danza contorta, gli uccelli allungarsi in ombre multiple e deformi; e il cielo, finora un lenzuolo disteso che iniziava a profumare di notte, trasformarsi in un disco piatto che ruotava su un perno invisibile. D'un tratto le venne in mente il gioco della moneta, uno dei passatempi estivi delle sue sorelle. Testa: scappi; croce: acchiappi. Chissà che faccia avrebbe rivelato il cielo se solo si fosse fermato. Narcissa sperava nella testa: vinceva sempre quando doveva scappare; scappare le riusciva bene, scappare era un po' come v...
 
***


«Si può sapere cosa avete in testa voi due? Sciocche! Incoscienti!»
Il grande orologio a pendolo in alabastro appeso all'ingresso rintoccò le ventuno con dei colpi secchi e stentorei che facevano eco ai passi di Cygnus Black. Ormai quel concerto andava avanti da più di un'ora: l'uomo che avanzava avanti e indietro animato da un'inquietudine dall'eco militaresca; le sue grida che riempivano il salone e l'ingresso, minacciando anche di frantumare i vetri delle grandi finestre; e loro due, le sue sciocche e incoscienti figlie che con i loro corpi facevano da attrito alla sua rabbia. Andromeda fissava con aria impassibile il profilo del padre mentre oscillava da una parte all'altra del proprio campo visivo. Si sentiva tremendamente in colpa per essersi assentata quel pomeriggio; aveva chiesto a Bellatrix se poteva rimanere lei in giardino con Narcissa, così da poter salire in camera sua e rispondere alla lettera del suo amico Tonks in piena tranquillità, senza doversi nascondere allo sguardo curioso delle sue sorelle. Di rado Andromeda si ritagliava del tempo per sé; solitamente lo spendeva giocando con la sorellina Narcissa o leggendole qualche storia, nonostante la piccola avesse ormai imparato da diversi anni a leggere e scrivere da sola. Stare con Narcissa non le pesava; era la vita che le avevano imposto i suoi a opprimerla. Cene, inviti, feste, visite di cortesia e ricevimenti in casa: Andromeda non ne poteva più; le sembrava di ricevere di continuo giri gratuiti su una giostra su cui lei tuttavia non voleva salire. E più cercava di scendere, più veniva trascinata nel mezzo ed esibita tra le statuine più belle. Crescendo aveva imparato a fare buon viso a cattivo gioco, ma niente poteva toglierle dalla testa il pensiero che stava sprecando la propria vita.
Qualcosa era cambiato da quando aveva conosciuto Ted. Lui era il solo con il quale avesse condiviso i propri pensieri; fatta eccezione del suo diario, s'intende. Negli anni Andromeda ne aveva riempiti a decine, decine di quaderni dai quali straripavano parole cariche di rabbia e angoscia. Ma trascrivere il proprio malessere, per quanto sul momento le potesse regalare un po' di sollievo, di certo non equivaleva al conforto che può offrire l'ascolto umano. Andromeda l'aveva scoperto solo parlando con Ted. Con lui a Hogwarts le sembrava di vivere una seconda vita, fatta di tutte quelle semplici felicità che viziano in fretta e non saziano mai. Ora che però erano iniziate le vacanze estive, Andromeda era stata gettata di nuovo in quel circo di convenevoli, e di nuovo era tornata la sensazione di soffocamento, più forte di prima. Quel pomeriggio non si era concessa altro che un paio d'ore di libertà e di pace, in compagnia delle parole che avrebbe inviato a Tonks: l'unico filo che li teneva uniti attraverso la lontananza, e ora rimpiangeva amaramente di essersele concesse. Come poteva essere stata così egoista? Non era lei la più grande tra le sorelle, eppure si sentiva maggiormente responsabile per quanto stava accadendo. E questo Cygnus lo sapeva fin troppo bene.
«E tu, Andromeda? Si può sapere cos'è che avevi di tanto urgente da fare per arrivare a dimenticarti di tua sorella?» tuonò il padre verso di lei. D'istinto, gli occhi di Andromeda volarono in direzione di sua madre, la cui figura ritta e immobile era aristocraticamente avvolta nel silenzio. Distante di qualche passo dal marito in segno di volontaria sottomissione, la si poteva facilmente confondere con le due statue poste ai lati dell'ingresso, se non fosse stato per lo sguardo inumidito da lacrime immobili. Andromeda indugiò con gli occhi sulla sua figura per un istante, senza sapere precisamente cosa l'avesse spinta a girarsi. Sua madre non avrebbe preso le sue difese, così come non lo aveva mai fatto per nessuna delle sue figlie da che erano nate. A dirla tutta, Druella Black quasi non proferiva parola in presenza di suo marito se non per dargli ragione. Tutt'altra storia era quando Cygnus si assentava: in quei momenti ecco che tirava fuori tutto il veleno che una vita trascorsa in silenzio aveva iniettato dentro di lei.
«Allora?» gridò di nuovo suo padre, e di nuovo Andromeda sussultò, stavolta saltando proprio sul posto, tanto che per un attimo temette che le parole potessero caderle dalle labbra tutte alla rinfusa.
«Io... io ero in camera mia, a cercare un gioco che mi aveva chiesto Narcissa» rispose, detestando la nota stridula che assumeva la sua voce ogni volta che mentiva.
«Due ore? Due ore ti ci sono volute per trovare quel dannatissimo gioco?»
«Io...»
«Taci!»
Nemmeno riuscì a udire il rimprovero per intero per quanto forte riverberò il dolore lungo tutto il viso. D'istinto Andromeda si portò una mano tremante d'orrore alla guancia sinistra, là dove ora figurava un taglio largo almeno tre dita. Cygnus Black teneva ancora puntata la bacchetta contro di lei, e per un attimo Andromeda credette che l'avrebbe tagliata in due. Ma un vergognoso gemito di sollievo le uscì dalla bocca quando vide la figura scura in volto di suo padre abbassare il braccio e proseguire con il suo nervoso andirivieni. Accanto a lei, Andromeda vide sua sorella Bellatrix farsi avanti, il mento rivolto all'insù nella sua smorfia abituale di quando voleva intromettersi in un discorso.
«Padre, con il vostro permesso vorrei uscire anche io a cercare Narcissa».
A quelle parole il capo di Druella ebbe un guizzo: era chiaro che disapprovava – o forse invidiava? – l'intervento della figlia, come dimostravano anche le macchie purpuree che velocemente stavano colorando il suo viso. Bellatrix non ci fece caso, e anche se l'avesse notata poco sarebbe cambiato: la sua era l'espressione decisa e spavalda di chi non è mai stata costretta a piegarsi a delle rinunce. Di tutte e tre, pur non essendo la più viziata, Bellatrix era senz'altro la più arrogante. Era nata per prima, e per qualche oscura ragione sembrava naturalmente investita dello stesso vantaggio anche nella vita, come se tutte le scorciatoie le si spalancassero sotto ai piedi al suo passaggio. Andromeda la invidiava per questo, anche se non nutriva alcun desiderio maligno nei suoi confronti. Non le era mai interessato essere la prima, né in famiglia né nella vita; ciò che desiderava era soltanto avere le medesime libertà.
«E finire dispersa anche tu nella foresta? No».
Per un attimo l'ultima parola aleggiò sulle teste di tutte e tre le donne come una sentenza di morte. Poi Cygnus Black aggiunse: «Andrò io. Ho aspettato anche troppo, ma è chiaro che non posso fare affidamento su nessun altro.»
A quelle parole, Bellatrix serrò la mascella marcata, evidentemente offesa per non essere stata presa in considerazione; Andromeda invece si ritrovò a chinare il capo in un'involontaria imitazione della madre. Druella si limitò a sospirare appena, facendo tremare le lacrime accumulate agli angoli degli occhi. Senza degnarle di uno sguardo, Cygnus raccolse dall'ingresso bastone e mantello, e uscì.


«Lumos».
Dalla bacchetta di Cygnus Black spuntò una sfera bianca che gettava una luce con un'ampiezza di almeno un paio di metri. La foresta odorava di notte, un odore deciso e pungente, come il freddo che tentava di infilarsi sotto al suo pesante mantello. Nell'altra mano impugnava il bastone, le dita strette attorno al manico – una spirale di piume incise a mano nel legno – per nascondere il tremore che le attraversava.
C'erano pochissime cose di cui Cygnus Black aveva paura, e quasi tutte erano arrivate con la maturità. Una di queste era senz'altro il pensiero che potesse succedere qualcosa alla propria famiglia, in particolare alla figlia minore, la piccola Narcissa. Gli era bastato udire il suo primo vagito per capire che da quel momento in poi la vita gli sarebbe cambiata per sempre. Con Bellatrix e Andromeda era stato diverso; il loro arrivo era già iscritto da tempo nel suo sangue: portare avanti una discendenza sana in grado di assicurare la sopravvivenza della sua casata era l'eredità che gli aveva lasciato suo padre, e che lui stesso avrebbe tramandato loro. Ma Narcissa era stata concepita una sera d'agosto, durante un raro momento di tenerezza con sua moglie, ispirato dai languori dell'estate e del vino elfico. Quando Cygnus aveva scoperto che Druella era nuovamente incinta, per la prima volta il vero senso dell'essere padre l'aveva colpito nel petto, come una spilla a decorare il suo cuore, e da allora non l'aveva più lasciato.
Narcissa era il suo sole fulgido, la stella più luminosa di tutta la galassia Black. Al pensiero che potesse esserle successo qualcosa proprio quel pomeriggio, quando lui si era dovuto assentare per affari, fece aumentare visibilmente il tremore alle dita. Cygnus lo ignorò e continuò a camminare. Conosceva quel bosco come casa sua; era lì quando il suo bisnonno aveva trasformato quel terreno arido e incolto in una piccola foresta. E proprio perché lo conosceva così bene era stato lui a vietare a Narcissa di avventurarcisi da sola, e fino a quel giorno, come sempre del resto, sua figlia gli aveva ubbidito. Qualcosa doveva averla costretta a farlo; a Cygnus non era sfuggito il cancelletto aperto, e questo non gli lasciava presagire niente di buono. Continuò a camminare verso ovest, la bacchetta tenuta alta per illuminare tutto intorno e gli occhi vigili come quelli di un felino nella notte. Se voleva trovare sua figlia, doveva per forza farlo servendosi esclusivamente della sua vista eccellente; gridare non solo sarebbe stato inutile, perché il bosco, come un labirinto, gli avrebbe restituito la sua stessa voce, ma avrebbe anche attirato l'attenzione delle bestie selvatiche che dalle colline circostanti venivano a rifugiarsi lì per la notte. No, niente strepitii, solo occhi aperti.
E infatti la vide. Disteso in mezzo a una piccola radura, protetto da un velo di nebbia, giaceva il corpicino esile della piccola Narcissa. Per un solo, lunghissimo, istante il cuore di Cygnus si fermò: vide i bei boccoli biondi della bambina sparsi tutt'intorno al viso in una matassa arruffata; il vestito di seta imbrattato e lacerato sull'orlo; infine la chiazza rosso-bruno che cerchiava la caviglia. La paura si rovesciò nella sua mente come un barattolo di vernice, macchiando ogni pensiero di un bianco accecante. Con uno scatto che contraddiceva la sua età e la ferita alla gamba destra, Cygnus Black si precipitò sul corpo della figlia. Vista da così vicino, il volto disteso e il respiro profondo, sembrava quasi addormentata, ma il pallore che le tingeva le guance lasciava intendere che doveva aver perso i sensi da diverso tempo. Cygnus si tolse in fretta il mantello e vi avvolse il corpo infreddolito della figlia, dopodiché la raccolse da terra con la delicatezza di un colibrì che succhia via il nettare da un fiore senza sfiorarne i petali, e ripercorse la strada a ritroso.

Caldo; coperte; odore di disinfettante. Fu la fastidiosa combinazione di tutte e tre le cose a destarla. Ma quando aprì gli occhi, subito Narcissa se ne pentì amaramente: un dolore fisso e appuntito come un chiodo le perforava la tempia nel punto in cui aveva sbattuto a terra prima di svenire. Di riflesso si portò una mano alla testa dolente, ma con sua sorpresa la scoprì estremamente pesante, così come il resto del corpo, quasi che al posto delle ossa avesse avuto dei sassi impilati l'uno sull'altro. Rinunciò, ma il dolore era ancora lì, inchiodato nella sua tempia.
«Cissy, stella mia, come ti senti?»
La voce di suo padre. Nel sentirla, un'ondata di improvviso e piacevole calore la invase dalla testa ai piedi, come una dolce febbre.
«Papà» riuscì a dire lei con una vocina sottile sottile, «tanto male».
Ancor prima di udire la sua risposta, Cygnus prese a tamponarle la fronte con un panno freddo, segno che doveva averlo fatto fino a un attimo prima. Il freddo le donò un po' di sollievo, così Narcissa riuscì a girarsi lentamente verso suo padre. Cygnus era seduto accanto al suo capezzale, una mano accanto a quella della figlia e l'altra intenta a tamponarle la fronte; il cipiglio severo che solitamente increspava le sue sopracciglia era svanito, e forse per la prima volta Narcissa scoprì il vero volto sotto la maschera accigliata e irosa che indossava sempre. Aveva gli occhi molto più grandi così, incredibilmente simili ai suoi nel loro azzurro marino. Tutto il suo amore disinteressato da bambina si piegò in un sorriso, e per un attimo perfino il dolore svanì, tanto le era cara quella visione.
«Scusami, papà» mormorò un istante dopo, mentre le palpebre cedevano alla fatica e tornavano ad abbassarsi. Cygnus spostò la mano libera per sfiorarle la guancia; fu come ricevere una carezza dal vento.
«Scusami se mi sono allontanata. Stavo cercando Petit».
«Petit non c'è più».
Cygnus aveva smesso di accarezzarla e ora le aveva preso la mano, ma la delicatezza era svanita dal suo tocco. Di colpo il dolore alla tempia sparì, assorbito da un dolore più grande, terribile e sconosciuto, il cui seme giaceva a metà strada tra lo stomaco e il cuore. Petit, il suo adorabile coniglietto grigio perla, non c'era più. Ed era colpa sua. Ancor prima che potesse rendersi conto della tangibilità di quel pensiero, sentì gli occhi caricarsi di lacrime, come se quel dolore avesse innescato una valvola intimamente collegata al pianto di cui lei ignorava l'esistenza.
«Ascolta bene quanto sto per dirti, Narcissa, perché non lo ripeterò» disse Cygnus, la voce di nuovo indurita. Il rimprovero implicito nel suo tono bastò ad arrestare le lacrime proprio sul confine delle palpebre. «Si perdono tante cose nella vita. Questo è solo l'inizio per te; ora sei piccola e non te ne rendi conto, ma in futuro subirai altre perdite, e io non potrò essere sempre qui al tuo fianco a consolarti. Dovrai imparare a cavartela da sola, a essere forte per te stessa e per le persone a cui tieni. Il segreto di noi Black è resistere».
Narcissa si sforzò con tutta se stessa per far entrare ogni parola nella testa, ma il dolore continuava a premerle sul petto, e una lacrima sfuggì al suo controllo. Cygnus la cancellò dal suo viso con un dito, correggendole lo sguardo.
«Niente lacrime, specialmente davanti agli altri. Le lacrime ci rivelano, e noi non possiamo farci vedere da nessuno, o ci distruggeranno. Intesi?»
Narcissa si affrettò ad annuire, concentrando le poche energie che le erano rimaste nello sforzo di trattenere il pianto. Intanto il dolore che sentiva nel petto stava germogliando e cominciava a solleticarle la gola.
«E impara a prenderti maggiore cura delle cose a cui tieni. Se ami qualcosa devi proteggerlo con tutta te stessa».
Di nuovo, Narcissa agitò la testolina dolorante, anche se non riusciva a comprendere appieno il significato profondo di quelle parole. Ma non importava: se erano uscite dalla bocca di suo padre, allora dovevano essere vere; tutto ciò che lei doveva fare era credergli. E gli credette. Lentamente, sentì le lacrime asciugarsi, risucchiate via da un improvviso senso di sicurezza. Vide l'espressione soddisfatta sul volto di suo padre, e di colpo, come se avessero finalmente ricevuto il permesso di abbassarsi, sentì le palpebre calare dolcemente verso il sonno.
«Ora riposati», furono le ultime parole che udì da suo padre, e il suo corpo era pronto a ubbidirgli ancora una volta. Ma nel suo cuore, rannicchiato sotto la coltre della dedizione che sentiva generarsi di continuo per lui, il dolore continuava a pulsare, vivo e pungente.


N.d.A.: Buonasera a tutt*, car* lettor*! Ho in cantiere questa storia da circa un anno e solo adesso ho avuto modo di riprenderla con costanza. Al momento ho pronti i primi sette capitoli, dopodiché cercherò di aggiornarla - vita permettendo - settimanalmente. Come sempre, si tratta della mia amatissima Lucissa, di cui scrivo ormai da dieci anni (aiuto!). Spero che possa piacervi e che, in caso affermativo, siate dispost* a lasciarmi anche un piccolissimo commento.
Con affetto,

nephaelibatha

 
  
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