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Autore: nephaelibatha    02/12/2022    0 recensioni
Tutti nel Mondo Magico conoscono i Black. Forza; onore; lealtà: queste sono le caratteristiche che hanno scritto la storia centenaria della famiglia, il cui destino sembra quello di continuare a prosperare nella purezza di generazione in generazione. Ma quando una terribile tragedia colpisce la famiglia, sta alla minore delle sorelle, Narcissa, con l'aiuto di un vecchio amico di famiglia, impedire che un oscuro segreto offuschi lo splendore della stella dei Black.
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Famiglia Black, Lucius Malfoy, Narcissa Malfoy, Severus Piton | Coppie: Lucius/Narcissa
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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1. Maiden’s Blush
 
Tredici anni dopo
 
 
Il feretro di Cygnus Black attraversava la soglia del maniero con un’andatura lenta e solenne, l’opposto di quella che il suo corpo aveva avuto quando ancora era in vita. Oltrepassati i pesanti battenti in ebano spalancati per lasciar passare il corteo, la bara di alabastro fu avvolta dai caldi raggi del sole di mezzogiorno. Sembrava quasi che cielo e terra non appartenessero allo stesso pianeta: se infatti tra i presenti riuniti al maniero aleggiava un cupo silenzio gravido di pensieri, un cielo limpido e terso si srotolava al di sopra delle loro teste, l’aria fredda di fine gennaio addolcita dal canto spensierato di un usignolo solitario. Narcissa si trovava all’inizio del corteo, immediatamente dopo il feretro, il volto oscurato da un velo nero calato come un lugubre sipario e il corpo fasciato da un abito di velluto che le arrivava fino al collo – rigorosamente della stessa tonalità. Si trattava di un vecchio abito, comprato almeno quattro anni prima, quando il suo corpo ancora non conosceva la morbida primavera della pubertà. Di conseguenza, il corpetto le andava stretto, tanto che Narcissa era costretta a dei respiri brevi e strozzati. E tuttavia, non un lamento uscì dalle sue labbra rosee; provava anzi un certo sollievo nel sentire finalmente un dolore diverso da quello che le straziava il petto, familiare perché fisico. Un eccellente diversivo. I lunghi capelli dorati erano tirati su in un’acconciatura semplice che lasciava cadere qualche boccolo sulla schiena serpentina; attraverso la trama nera del velo, gli occhi brillavano di una cupa intensità.
Accanto a lei, Bellatrix incedeva con passo sicuro e cadenzato, l’imitazione perfetta di una marcia militare. Il volto dai lineamenti marcati, in un contrasto quasi beffardo con quelli decisamente più gentili di Narcissa, era contratto in un’espressione seria; la postura, come di consueto, spavalda. Sotto il velo nero, più corto di quello della sorella minore, le labbra formavano una curva sinuosa color cremisi, mentre gli occhi erano tinti di un nero profondo, il più intenso tra tutti quelli indossati dai presenti. A guardarla da fuori sembrava che non stesse presenziando al funerale del proprio padre, bensì a quello di qualcun altro, e per questo, in un angolo remoto del suo cuore, là dove dimoravano i sentimenti più oscuri, Narcissa la invidiava. Crescendo aveva imparato a trattenere le sue emozioni: se da bambina le saltavano subito alle labbra come un boccone indigesto, ora, a ventun anni, era ormai in grado – non proprio di digerirle, questo no – ma almeno di masticarle e rispedirle in una zona grigia situata a metà tra il cuore e lo sterno.
Eppure, nonostante tutti i suoi sforzi, in confronto a Bellatrix lei non era nient’altro che una dilettante. Certo, dalla sua aveva la fortuna di possedere una bellezza innata che le faceva da maschera contro le occhiaie e i segni lasciati dall’insonnia, ma nemmeno il fascino di una Veela avrebbe potuto nascondere le incrinature nel suo sguardo.
Entrarono in giardino, e Narcissa avvertì le carezze del sole scaldarle la pelle assottigliata dal freddo. Per essere fine gennaio, il clima si stava mostrando insolitamente misericordioso: perfino il sole desiderava porgere l’ultimo saluto a Cygnus Black. Il rumore dei passi che calpestavano prima il sentiero in mattonato e poi i fili d’erba, diffondendo un morbido fruscio, finalmente infransero il tetto di silenzio che aveva accompagnato il corteo fino a quel momento. Il giardino era stato da sempre la parte della casa che suo padre aveva amato di più; lì vi trascorreva tutti i suoi pomeriggi liberi, perfino durante l’inverno. Il motivo era ignoto a tutti, dal momento che i Black avevano uno stuolo di giardinieri al loro servizio, ma negli ultimi anni Narcissa aveva intuito, senza bisogno di ricevere alcuna conferma da parte sua, che il giardino era per il padre come una seconda casa, collegata alla prima ma anche distinta, dove recarsi quando aveva bisogno di un po’ di solitudine. Una solitudine che reclamava e difendeva con fermezza: fintanto che rimaneva fuori in giardino a curare i suoi fiori, Cygnus Black non esisteva per nessuno, moglie e figlie comprese.
Il fatto che ora una ventina di persone fossero riunite lì appariva a Narcissa quasi un atto sacrilego, come se insieme al prato venisse calpestata anche l’intimità di suo padre. Fosse dipeso da lei, il funerale si sarebbe svolto nella chiesa sconsacrata di St. Dunstan in the East che suo padre era solito visitare almeno una volta al mese. Una mattina aveva portato con sé anche lei; all’epoca Narcissa aveva dieci anni, ma ricordava ancora ogni dettaglio di quella visita come se si fosse svolta appena un giorno addietro. Ricordava i rampicanti che scendevano dalla cima delle mura in pietra per solleticare la punta degli archi; ricordava la dedizione con cui la natura aveva decorato le mutilazioni nella pietra inferte dalla guerra; ricordava i giochi di luce in cui il sole si esibiva attraverso gli archi solo per gli occhi più attenti. Allora Narcissa era troppo piccola per apprezzare appieno la bellezza architettonica di quella struttura, ma non per avvertire il senso di calma ed equilibrio che vi si respirava. “La pace tra le rovine”, le aveva sussurrato suo padre all’orecchio mentre passeggiavano tra i giardini incantati di St. Dunstan; non sarebbe potuta esistere descrizione migliore per racchiudere tanta bellezza. Ma nessuno tra i presenti conosceva la passione di suo padre per quelle rovine, né tantomeno Bellatrix. Lei non era stata a St. Dunstan, e in quanto sorella maggiore si era arrogata da sola il diritto di scegliere personalmente il luogo di sepoltura. E così aveva optato per il giardino del maniero, ingenuamente convinta che a suo padre avrebbe fatto piacere trascorrere il resto dei suoi giorni proprio là dove correva a nascondersi alla prima occasione quando era in vita. Narcissa non aveva potuto fare a meno di leggere una punta di risentimento dietro a una simile scelta, ma restava una lettura sterile dal momento che non era condivisibile. Di fronte alla decisione della sorella, perciò, si era limitata ad assentire; cosa poteva fare, del resto? Suo padre non aveva lasciato alcun tipo di indicazione in merito perché la morte era sopraggiunta inaspettata tanto per i suoi cari quanto per lui, ed essendo passata a miglior vita solo un anno prima anche sua moglie, di diritto spettava a Bellatrix, la primogenita, decidere per lui. E così ora il feretro di Cygnus Black sostava al centro del recinto delle rose che aveva eretto con le sue stesse mani.
Si trattava in realtà di una piccola radura circolare separata dal resto del giardino da una cinta di siepi finemente tosate; al suo interno crescevano, rigogliosi, tre diversi gruppi di rose bianche orientati ognuno verso un punto cardinale. Al centro della radura un piccolo arco di vegetazione anticipava l’accesso a un gazebo rotondo di legno bianco interamente fabbricato a mano. La bara era stata adagiata lì; i presenti intanto si stavano sparpagliando per la radura, decine di ombre nere rinchiuse tutte in un luttuoso silenzio. Bellatrix e Narcissa presero posto davanti all’arco, sotto al quale sostava l’officiante, munito di un piccolo breviario che sembrava un’estensione della sua persona.
Una volta che tutti si furono sistemati, l’officiante aprì il libricino e cominciò a recitare così: «Siamo qui riuniti oggi per dare il nostro ultimo saluto a Cygnus Black, padre ammirevole e uomo dal valore inestimabile.»
Per tutta la durata della cerimonia, Narcissa non ascoltò nemmeno una parola. Le sembrava assurdo, quasi irrispettoso, che uno sconosciuto si profondesse in boriosi elogi di suo padre quando era costretto a consultare di continuo il breviario per essere sicuro di pronunciarne correttamente il nome. Non era nemmeno inglese; dal suo accento si intuivano le origini tedesche, e questo non favoriva di certo l’instaurarsi di un clima familiare. Bellatrix lo fissava impassibile con lo stesso sguardo di sufficienza che avrebbe rivolto a un manichino.
Quando ebbe terminato il suo elogio, l’officiante si scostò di lato per consentire il passaggio alle figlie del defunto. Narcissa lasciò che Bellatrix andasse per prima; le sue gambe si fermarono d’istinto poco prima dell’arco: quelli sarebbero stati gli ultimi momenti con suo padre, non voleva condividerli con nessuno, nemmeno con sua sorella; ma intimamente non voleva nemmeno che quei momenti arrivassero. Una volta varcata la soglia del gazebo sarebbe stata costretta a dire addio a suo padre per sempre. Vide Bellatrix inginocchiarsi davanti alla bara con aria solenne ma sempre rigorosamente composta. Restò in quella posizione per un paio di minuti, dopodiché si alzò e prima di tornare al suo posto estrasse la bacchetta per deporre sulla bara una rosa bianca.
A quel punto l’officiante si voltò verso Narcissa, forse per indirizzarle un gesto d’incoraggiamento, ma lei si incamminò ancor prima che lui potesse battere ciglio; se i presenti l’avessero vista, sarebbe apparsa a tutti come una bambina incapace di muovere un passo senza la paternale benedizione di un adulto. L’erba sotto le scarpe alte era morbida e accogliente come un grembo materno. Narcissa salì le scale del gazebo lentamente, sentendosi di colpo come una condannata a morte che a ogni passo riduce pericolosamente la distanza tra la propria vita e il cappio. Quando si trovò a pochi centimetri di distanza dalla bara avvertì un giramento che tuttavia riuscì a camuffare subito aggrappandosi con tutte le sue forze al legno. Un respiro lungo e tremante le uscì dalle labbra secche, ma fortunatamente il mondo era di nuovo fermo al suo posto. La rosa bianca lasciata da Bellatrix catturava i raggi del sole con vanesia avidità. Narcissa allungò una mano al centro della bara, e con sua sorpresa scoprì che il legno si era intiepidito sotto alle carezze dei raggi del sole.
Quel contatto la incoraggiò: ricordava ancora la percezione del freddo delle mani di suo padre prima che chiudessero la bara, un freddo innaturale e ineluttabile che preannunciava l’eternità; invece così era come toccare qualcosa di ancora vivo. Si avvicinò anche con il resto del corpo in modo da celare il suo volto ai presenti.
«Mi manchi tanto, papà» sussurrò a pochi centimetri dalla bara, nel punto in cui immaginava ci fosse, duro e freddo, il cuore di suo padre. «Ma io sarò forte, come desideravi. Resisterò e avrò cura del tuo giardino».
Mentre si chinava per apporre un bacio sul legno, una lacrima piovve dalle ciglia chiuse e atterrò sulla bara. Narcissa ne cancellò immediatamente le tracce prima che l’aria invernale congelasse il suo passaggio sul legno, dopodiché fece comparire un’altra rosa accanto a quella di sua sorella.
 
«Condoglianze».
«Condoglianze».
«Condoglianze».
«Condoglianze».
I presenti sfilavano uno dopo l’altro davanti a Bellatrix e Narcissa per dirigersi verso il gazebo e lasciare anche loro un rapido omaggio a Cygnus Black. Metà del Mondo Magico – o almeno la metà che contava davvero – era lì. Narcissa conosceva a memoria il volto di ognuno dei presenti, e, se le fosse stato richiesto, avrebbe saputo anche tracciare a occhi chiusi il loro albero genealogico compreso di date di nascita e morte fino al 1880. In questo Cygnus Black era stato un capofamiglia invidiabile: dall’età di sei anni aveva dedicato un’ora al giorno a tutte e tre le sue figlie per insegnare loro tutto ciò che sapeva sulle altre nobili famiglie magiche, cosicché, quando fosse giunto il momento di sposarsi, loro sarebbero state perfettamente in grado anche da sole di riconoscere l’unione più vantaggiosa.
Narcissa stringeva decine di mani guantate e distribuiva ringraziamenti composti a tutti i loro volti contratti a lutto, ma quei rapidi contatti non facevano altro che abbassare la temperatura già siderale. Si potevano contare sulle dita di una mano le persone riunite lì per reale devozione a suo padre; la maggior parte di loro, infatti, si era presentata spinta esclusivamente dal desiderio morboso di vedere con i propri occhi se, anche dopo la scomparsa del suo pilastro portante, la famiglia Black sarebbe stata comunque in grado di restare in piedi. Ecco perché, anche se la scelta fosse spettata a lei, non avrebbero potuto permettersi una cerimonia intima: sua madre era morta un anno prima; il dolore per la fuga di Andromeda con il Nato Babbano Tonks l’aveva consumata lentamente, come la fiamma di una vecchia candela tormentata da un alito di vento gelido; soltanto pochi mesi dopo Sirius aveva pensato bene di imitare la cugina prediletta: a soli sedici anni, una notte, era scomparso, senza lasciare nessuna traccia di sé ai genitori e al fratello minore all’infuori del peso di un’umiliazione pubblica. Per mesi nessun Black era riuscito a presentarsi in società senza ritrovarsi oggetto di occhiate sospettose e bisbigli concitati.
Era una fortuna che Bellatrix si fosse sposata con Rodolphus Lestrange prima di quella serie di eventi funesti, e che Narcissa fosse ancora abbastanza giovane per permettersi di rimanere nubile. Una fortuna, ma la ruota non avrebbe girato a loro favore per sempre. Bisognava lasciare un messaggio d’impatto al Mondo Magico, e quel giorno sarebbe stato il momento perfetto per trasmetterlo.
«Cissy!»
Una figura esile si staccò dalla fila dei presenti per avvolgerla in un abbraccio che la colse di sorpresa come una ventata improvvisa. Regulus, il suo adorato cugino minore, la stella più vivace della famiglia. Narcissa ricambiò l’abbraccio con sincero affetto, e per la prima volta in quel giorno orribile sentì che qualcuno era lì per darle conforto.
«Che ci fai qui? Dovresti essere a scuola» lo rimproverò lei con dolcezza dopo che si furono staccati. Nonostante il freddo e il dolore, il viso di Narcissa si increspò in un sorriso carico di commozione. Gli occhi di Regulus si riempirono di tristezza liquida.
«Ho saputo dello zio e… volevo essere presente, per te e per Bella. Silente ha capito e mi ha concesso il permesso di venire qui. Ci sarebbe dovuta essere anche mia madre, ma non se l’è sentita. Mi dispiace».
Forse era stato il tono in cui aveva pronunciato quelle parole, come se la voce minacciasse di sprofondargli nel petto; o forse era la conseguenza del tocco rigido dell’inverno sulla sua pelle, ma Narcissa non poté fare a meno di notare che qualcosa in suo cugino era cambiato. Sembrava più adulto, quasi che da un giorno all’altro fosse stato costretto a indossare responsabilità che gli andavano larghe come un paio di scarpe più grandi in cui era facile inciampare. Come a voler cancellare via quel marchio invisibile che la vita gli aveva apposto in anticipo, Narcissa prese ad accarezzargli la folta chioma di ricci neri che incorniciava il suo viso magro.
«Non devi scusarti di nulla, Reg. Sei stato molto dolce a pensare a me, ma i funerali non sono adatti a––»
«La morte non mi spaventa» replicò lui, interrompendola. Nel guizzo dei suoi occhi c’era la fierezza leonina iscritta nel suo nome. «E poi non potevo lasciare da sola la mia cugina preferita».
Narcissa tornò ad abbozzare un sorriso sentendosi di colpo più leggera, come se quelle parole e ancor prima la sola presenza di Regulus si fossero erette tra lei e il proprio dolore, deviandone almeno in parte il flusso. E tuttavia un istante dopo, mentre il cugino si rimetteva in fila per andare a porgere il suo omaggio allo zio, Narcissa sentì il senso di colpa stringerle il petto: da quando nella sua famiglia i membri più giovani avevano cominciato ad addossarsi le responsabilità dei più grandi?
Quella domanda stava ancora girando in tondo nella sua testa, in attesa di un suo minimo cedimento, quando Narcissa si sentì chiamare da una voce familiare che sembrava provenire direttamente dal passato. Nel momento in cui si voltò in direzione del proprietario, una ventata di nostalgia la centrò in pieno petto col suo dardo dal veleno dolceamaro: Lucius Malfoy, compagno di scuola nonché fedele amico di famiglia, le stava tendendo la mano avvolta in un elegante guanto di pelle nera. Quel gesto all’apparenza cordiale aveva un che di intimidatorio, come a voler dire che sotto a quel guanto dalle cuciture minuziosamente rifinite la sua mano si sarebbe potuta tranquillamente trasfigurare in un fiore o in un ordigno a orologeria, a seconda dell’identità del destinatario. Narcissa la strinse e la scoprì perfino più morbida dei petali di una rosa. Subito, anche attraverso il doppio strato di guanti che separava le loro dita, il calore della pelle di Lucius la raggiunse, e per la prima volta in tutta la mattinata Narcissa si ritrovò a rabbrividire nonostante il riparo offerto dal velluto.
«Narcissa» ripeté Lucius, assaggiando di nuovo il suo nome.
«Lucius» lo salutò lei, ritirando la mano prima che i brividi potessero diramarsi lungo tutto il corpo. Per un breve istante i loro sguardi rimbalzarono l’uno contro l’altro come quelli di due animali intenti a scrutarsi per decretare una futura alleanza o inimicizia. Era dai tempi di Hogwarts che non si vedevano, ma la loro conoscenza era cominciata molti anni prima. In effetti, da che aveva memoria, Lucius aveva sempre fatto parte della sua vita, anche se le sue apparizioni erano correlate ai balli tenuti al maniero dei Black o a quello dei Malfoy. Cygnus e Abraxas erano amici di lunga data, e così avrebbe dovuto essere anche per i rispettivi figli, e lo era stato, almeno fino agli ultimi anni di scuola.
Poi qualcosa era cambiato: Lucius aveva iniziato a frequentare un gruppo ristretto di compagni e lentamente si era allontanato da lei senza alcuna spiegazione. Con la fine della scuola, il filo che teneva unito il loro rapporto si era assottigliato ulteriormente: qualche lettera a Natale e Pasqua per un rapido scambio di auguri, e infine il silenzio totale. Narcissa aveva notizie di lui tramite suo padre, le cui labbra si curvavano sempre d’ammirazione quando su di loro si posava il nome di Lucius Malfoy; si era perfino ingelosita, qualche volta. Ma ora, nel rivederlo, un’antica sensazione di conforto cominciò a traspirarle dalla pelle, come se quegli anni di separazione non fossero mai trascorsi e loro fossero ancora i bambini che giocavano insieme sotto lo sguardo profetico dei loro padri.
Ma Lucius non era più un bambino. Narcissa non poteva fare a meno di sbirciare di nascosto il suo profilo per registrare mentalmente ogni cambiamento. Si era fatto decisamente più alto e la sua postura incuteva un certo timore, ma la metamorfosi più evidente aveva colpito il suo viso: un ovale perfettamente disegnato, con gli zigomi ben marcati e il naso stretto e sottile; gli occhi, con le palpebre leggermente abbassate, che sembravano voler nascondere all’esterno una verità inconfessabile.
«Sono molto addolorato per la tua perdita, Narcissa. Cygnus Black era un amico eccezionale, e altrettanto deve esserlo stato come padre».
«Sì, lo era» confermò Narcissa, abbozzando un debole sorriso. Senza rendersene conto, gli occhi le si erano inumiditi d’orgoglio. Quel luccichio attirò l’attenzione di Lucius, il cui sguardo si ingrandì all’istante, tornando quello del ragazzo di un tempo. All’improvviso Narcissa sentì una fitta al petto e il fiato le si congelò in gola con uno spasmo. Doveva aver respirato troppo a fondo, perché ora le costole le bruciavano come se il corpetto avesse preso fuoco per combustione spontanea.
«Narcissa?»
Di riflesso Lucius le aveva sfiorato un braccio, e di nuovo Narcissa sentì il calore della sua pelle irradiarsi fino alla propria con la potenza di un incantesimo.
«Tutto bene» lo rassicurò lei in un sussurro, nonostante la vicinanza con la tempesta del grigio delle sue iridi le procurasse tutt’altro che benessere. Poi, temendo che le altre persone avrebbero potuto notare quel piccolo cedimento, si scostò in fretta da lui. Con discrezione si portò una mano al fianco per assicurarsi che il dolore fosse cessato. Intanto Lucius aveva sguinzagliato i suoi occhi su di lei, svelti e famelici come gli artigli di un falco che caccia l’aria.
«Sei… sei stato molto gentile a venire qui, sono certa che a lui avrebbe fatto molto piacere».
Le lunghe ciglia nere di Narcissa sventagliavano su e giù irrigidite dall’umidità.
«Tuo padre ha sempre significato molto per me, così come tutta la tua famiglia. Venire qui oggi era il minimo che potessi fare». Lucius aveva pronunciato le ultime parole in un mormorio talmente rauco che Narcissa era riuscita a malapena a udirle. Ma riusciva senz’altro a riconoscere l’incrinatura che avevano provocato nel suo sguardo, e se si sporgeva abbastanza era in grado anche di sporgersi nel cuore della tempesta: dolore? Confusa, fece per replicare ma Lucius la anticipò.
«Scusami, Narcissa» le disse, e ancor prima che lei potesse rispondergli la salutò con un rapido baciamano e si incamminò verso il gazebo, il passo nervoso di chi vuole allontanarsi da un peso che si porta con sé.
 
 
La bara scendeva lentamente nel terreno, salutando la luce del giorno per sempre. Narcissa la fissava mentre la calavano giù con occhi che non sentiva più come suoi; nemmeno il suo corpo le apparteneva in quel momento. Il punto in cui suo padre avrebbe riposato in eterno era orientato a nord, proprio come la costellazione da cui aveva preso il nome. Lì, qualche metro più avanti, una decina di steli spinosi si innalzavano verso il cielo alla ricerca di qualche raggio di luce da trafugare. I grossi petali bianchi macchiati appena qua e là di rosa si aprivano al giorno con l’orlo finemente arricciolato simile a un merletto. In basso, piantato nel terreno affinché fosse ben visibile, un cartellino identificativo recitava in volute eleganti: Maiden’s Blush.
 
 
Una volta porto l’ultimo saluto, gran parte dei presenti lasciarono Villa Black nello stesso silenzio con cui erano arrivati. Non appena se ne furono andati, fu come se una grossa nuvola fosse stata spazzata via, lasciando gli animi degli ultimi rimasti tersi e sereni. A loro Narcissa e Bellatrix avevano offerto un calice di vino elfico e qualche pietanza preparata sul momento dagli elfi domestici. Tra loro c’era anche Lucius, che non aveva toccato cibo ma attingeva spesso al suo calice con movimenti posati ed eleganti, atti a nascondere la necessità dietro ogni sorsata. Dal loro breve scambio non si erano più parlati, ma a turno continuavano a lanciarsi occhiate indagatorie.
Mentre stringeva il suo calice ancora colmo di vino, le si avvicinò un uomo basso e paffuto. Indossava un completo semplice – la scelta di chi non vuole dare nell’occhio – e un paio di piccoli occhiali tondi con la montatura dorata che gli regalavano un’aria piacevolmente sveglia.
«Signorina Black» la chiamò con voce sorprendentemente musicale. Narcissa si voltò sussultando appena, gli occhi che si mossero all’istante lungo la figura dell’ometto a caccia di un indizio di familiarità.
«Sono il notaio di vostro padre» le ricordò lui gentilmente. Di fronte a quella chiarificazione il volto di Narcissa si illuminò.
«Oh, ma certo. Il dottor Pennygan, è corretto?»
«Precisamente. Mi rendo conto che questo non è il momento più adatto per affrontare certe questioni, e mi scuso in anticipo se risulterò indelicato, ma ci sono delle cose di cui dovremmo discutere con una certa urgenza». Narcissa raddrizzò la curva sinuosa del suo profilo.
«Vi ascolto».
«Bene, dunque… partiamo dal testamento».
«Purtroppo mio padre non ha avuto il tempo di scriverlo, lui––»
«Ne ha preparato uno quattro anni fa» la interruppe subito il notaio sistemandosi gli occhiali, evidentemente a disagio.
«Come, prego?»
«Si tratta di un testamento segreto. Quattro anni fa vostro padre si presentò nel mio studio in compagnia di due testimoni e chiese a tutti e tre di firmare un foglio bianco. Disse che si trattava del suo testamento, ma che avrebbe dovuto aspettare ancora per redarlo perché non era sicuro».
«Sicuro di cosa?»
«Non lo disse, ma da quel giorno non me ne parlò più, fino a un mese fa, quando si presentò di nuovo da me con il testamento completato».
«Un mese fa? Ma mio padre non era malato, è morto per un attacco di cuore. Io…»
«Mi disse solo che quello era il momento giusto».
Di colpo Narcissa avvertì un urgente bisogno di bere. Con mano tremante, si portò il calice alle labbra e mando giù due lunghi sorsi di vino elfico che le scese in gola con il suo familiare bruciore dolciastro. Quando il dottor Pennygan riprese a parlare, Narcissa sentì la mente di colpo più predisposta ad ascoltarlo, come se il vino avesse gettato sulla sua coscienza un velo di placida accondiscendenza.
«Ad ogni modo, per legge i testimoni devono presenziare alla lettura del testamento».
«E chi sono?»
«Una era sua madre…» rispose il notaio, chinando il capo in segno di rispetto.
«… l’altro è qui».
Narcissa seguì la traiettoria dello sguardo del dottor Pennygan, i movimenti degli occhi lievemente rallentati dal vino ma ancora piuttosto reattivi, come una freccia scoccata con poca convinzione. Il bersaglio era a una decina di metri da lei: avvolto nel suo completo realizzato a mano che lo contraddistingueva per eleganza e raffinatezza, Lucius Malfoy era al centro di una conversazione, intento ad affascinare con ogni sua parola gli uomini riuniti attorno a lui, come un vero incantatore di serpenti.
 

 
  
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