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Autore: Adeia Di Elferas    02/12/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Su Firenze il cielo si era fatto più grigio, che non bianco e la neve in terra, per quanto onnipresente, pareva desiderosa di venire sciolta da un po' di pioggia da un momento all'altro. Lorenzo camminava con i piedi piatti, per non scivolare, e teneva la testa china, immerso nei suoi pensieri.

Stava rientrando da una seduta alla Signoria, ma non aveva alcuna voglia di tornare a casa. La sua cefalea non l'abbandonava e, in più, quel giorno aveva la strana sensazione di trovarsi su una barca in mezzo alla tempesta. Non poteva dire di avere una nausea netta, né delle vertigini tali da comprometterne l'equilibrio, ma non si sentiva tanto frastornato dall'ultima volta in cui aveva bevuto troppo vino in una locanda e, ormai, erano passati anni dall'ultima volta in cui si era abbandonato a quei gozzovigli da ragazzo.

Quel giorno erano arrivate notizie molto gravi da Senigallia. Si diceva che la notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio sia Vitellozzo Vitelli sia Oliverotto da Fermo fossero stati trovati morti, strangolati per l'esatezza. Non era ancora chiaro chi li avesse uccisi e perché, tuttavia si sapeva che il Borja aveva subito preso possesso di Senigallia e che sia la Montefeltro, sia Andrea Doria erano già scappati da tempo, lasciandogli campo libero anche nella cittadella. A guardia della rocca si diceva fosse stato messo niente meno che Dionigi Naldi, condottiero dalla fama tremenda e noto ai più per essere stato dapprima un fedelissimo uomo della Tigre di Forlì e poi uno dei suoi peggiori detrattori e traditori.

All'improvviso, mentre il Popolano voltava l'ultimo angolo che lo avrebbe portato alla via Larga, qualche goccia spessa e gelida cominciò a cadere dal cielo. Il Medici borbottò una breve imprecazione, in barba alle nuove leggi promulgate giusto pochi giorni prima, che rendevano più severe le pene per i bestemmiatori, e accelerò il passo. Erano le ore centrali del giorno e quindi non sarebbe stato strano se, più avanti, aumentando il freddo, quella pioggia grossolana si sarebbe tramutata di nuovo in neve.

Arrivato al suo palazzo, l'uomo fece gli ultimi passi quasi di corsa, e poi andò subito alla ricerca di un camino acceso, vicino a cui scaldarsi e riprendersi.

“...che sia a Firenze, almeno, così ho sentito...” la voce di Samiramide l'attirò come un richiamo di sirena, non tanto perché avesse voglia di vederla, anzi, ma perché tra le parole lontane ne aveva appena sentite un paio che gli avevano fatto drizzare le orecchie: “Con la Montefeltro c'è anche il Doria, ovviamente... Sono partiti da Senigallia quasi insieme, e per fortuna hanno fatto in tempo a salvarsi...”

Con discrezione, cercando di non fare alcun rumore, l'uomo arrivò fino al limitare della saletta in cui la moglie stava parlando con qualcuno che, per il momento, taceva, non rivelandosi. Il Popolano attese con pazienza che l'Appiani riaprisse bocca e, intanto, si chiese cosa ne poteva sapere lei di quello che era sucesso a Senigallia, dato che la notizia era arrivata a Firenze solo quella mattina.

“Non credo si fermeranno a lungo, però...” sospirò Semiramide: “Questa città non è un posto sicuro, per chi chiede riparo dal papa e da suo figlio... Guarda che cosa deve patire quella povera donna di Caterina Sforza...”

Nel sentire il nome di colei che, ormai, era una vera e propria ossessione, Lorenzo fece mezzo passo avanti, ma si frenò all'istante, quando capì chi fosse l'altra persona che c'era nella stanza.

“Ma se il Valentino sta facendo questo con tutte le città del centro Italia – disse, nervoso, il quindicenne Pierfrancesco – perché Firenze è così sicura che non lo farà anche con lei?”

“Infatti io credo che sia tutto fuorché sicura di questo...” ammise l'Appiani.

“E quindi daranno la colpa a mio padre, se il Valentino dovesse marciare su Firenze? In fondo è stato lui a insistere, all'inizio, per allearsi coi francesi e con il papa...” il tono del giovane Medici era inequivocabile.

Il Popolano ci leggeva la paura, ovvio, ma anche e soprattutto astio e disprezzo. Non riusciva a cogliere la sfumatura di matura visione del mondo, che, in effetti, c'era ed era ammirevole, per un ragazzo tanto giovane: tutto ciò che sentiva era solo una condanna cieca e sorda.

Fu tentato di entrare una volta per tutte nella sala e, palesandosi, di interrompere quello scambio di battute, ma quello che sua moglie disse subito dopo lo frenò.

“L'unica cosa che tuo padre può sperare è che Firenze si trovi così impegnata a organizzare la propria difesa da non aver tempo di provare a condannarlo per le sue colpe...” e, con un sospiro cupo, concluse: “E invece lui gioca a fare il giustiziere, trascinando in tribunale quella povera donna che non ha fatto nulla di male se non innamorarsi del tuo compianto zio Giovanni...”

Tornando sui suoi passi, la testa che pulsava sempre più forte, Lorenzo stringeva i denti con rabbia, incapace di accettare quel muro invalicabile che sua moglie e suo figlio avevano costruito nei suoi confronti. Andò nelle sua stanze e, con il pretesto di occuparsi della corrispondenza, non ne uscì fino al tardo pomeriggio, evitando, comunque, di incontrare i suoi familiari, ma convocando al palazzo i suoi legali, per discutere, disse, degli ultimi dettagli in vista del processo a quella 'gran meretrice' della Leonessa di Romagna.

 

Scipione Riario accettò con un ringraziamento silenzioso un altro calice di vino, e poi attese che anche la Tigre si servisse. Fortunati, che aveva insistito per trattenersi con loro, aveva preferito non bere alcunché e così restava fermo al suo posto, aspettando che gli altri due assaggiassero il vino e si decidessero a riprendere il discorso.

Il Riario avrebbe preferito discutere subito a quattrocchi con Caterina, ma il piovano era stato irremovibile, quando aveva capito che si sarebbe parlato della situazione di Firenze, e così il giovane aveva messo da parte l'irritazione e aveva deciso di trattare subito l'argomento che interessava al fiorentino, tenendo le questioni personali per dopo.

“Ormai non ci sono più dubbi, come accennavo prima...” fece Scipione, dopo essersi scaldato con una lunga sorsata che gli riarse la gola come fuoco: “Vitellozzo e Oliverotto sono stati uccisi dal Valentino, o, quanto meno, su suo ordine.”

Fortunati lanciò un'occhiata preoccupata alla Sforza, come temendo di vederla esplodere o spegnersi da un momento all'altro, nel sentire nominare il figlio del papa. La donna, però, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi battere una volta di più dai suoi demoni, infatti deglutì un paio di volte e poi, anche se con fare esitante, si apprestò a commentare quella notizia.

Scuotendo tra sé il capo, la milanese disse: “Quell'animale è capace di ogni cosa, ma scommetto che sia stato troppo pavido per uccidere con le sue mani due uomini pericolosi come Vitellozzo e Oliverotto...”

“Sia come sia – riprese il Riario – ormai a Firenze è cosa risaputa, perché sono arrivati i dispacci di messer Machiavelli e, anche se dicono che quel parassita sembri scusare il Valentino per quanto fatto, non ci sono dubbi sul movente che ha portato alla morte di quei due condottieri...”

“Certo – provò a inserirsi Francesco – bisogna vedere se il papa avvallerà questo comportamento del figlio...”

“Lo farà.” disse subito il giovane: “A Roma ha fatto prendere prigionieri il Cardinale Orsini e Rinaldo Orsini, il Vescovo di Firenze...”

Il piovano di Cascina, istintivamente, si fece il segno della croce e poi chiese, teso: “E la Signoria cos'ha detto di questo? Come ha reagito?”

“Non ha reagito, perché la notizia non è ancora ufficiale.” soffiò Scipione, bevendo un po' di vino e poi sollevando un sopracciglio: “E sembra che quel maledetto di Lorenzo abbia spostato l'attenzione di tutti su Pandolfo Petrucci, il senese, che ha mozzato la testa a un Tagliacci e due altri senesi di cui non ricordo il nome...”

Caterina aveva lo sguardo basso e stava ragionando in fretta. Se il Borja aveva cominciato in modo tanto serio e brutale il suo lavoro di smaltimento di vecchi alleati ormai inutili, e se addirittura il papa si era preso la libertà di mettere in cella il Vescovo di Firenze, che cosa avrebbe impedito al Valentino di marciare proprio su Firenze, approfittando della confusione che si sarebbe creata proprio grazie alla paura che le sue azioni avrebbero instillato nella Signoria?

“Serve che qualcuno di sensato vado al posto di Machiavelli e faccia credere al figlio del papa che Firenze gli serve ancora così com'è ora: alleata, ma libera.” disse la donna, cupa, ma seria, allungando una mano verso quella del Riario e stringendola con forza, come a sottolineare l'importanza della sua dichiarazione.

“In effetti ho sentito dire che c'è molto malcontento... Potrebbe essere che il Gonfaloniere decida presto di richiamare Machiavelli e mandare qualcun altro.” annuì Scipione.

Il piovano, a sua volta, stava ragionando, ma su tutto un altro piano, rispetto a due che gli stavano davanti. Osservava il Riario, trovandolo di una bellezza innegabile – ereditata, aveva sentito dire, dal padre Girolamo – e di una giovinezza ancora viva. Osservava poi Caterina, che pareva aggrapparsi a quel ragazzo come un assetato a una fontana limpida e fresca. C'era qualcosa che lo irritava profondamente, nel vederli vicini a quel modo.

Sapeva che tra i due era corso sempre un rapporto di indifferenza prima e poi di reciproco rispetto poi, finendo per un affetto sincero sviluppatosi soprattutto nel corso della guerra contro il Valentino.

Sapeva, o, almeno, voleva dirsi che tra i due ci fosse solo un rapporto simile a quello di una madre con un figlio, eppure conosceva la natura della Tigre a sufficienza da non potersi sentire tranquillo.

Lasciando che fosse la gelosia a parlare per lui, di punto in bianco, mentre il Riario stava passando a parlare di altri dettagli ancora riguardo a Senigallia, il piovano sbottò: “E come fate voi a sapere tutte queste cose riguardo le idee della Signoria? Non mi risulta che vi sia concesso entrare nella sala del palazzo, non essendo cittadino di Firenze... E non mi risulta che abbiate dei membri della Signoria tra i vostri amici...”

“Però passo buona parte delle mie serate nelle locande di Firenze, e fin da bambino ho imparato ad ascoltare tutto quello che nelle locande viene detto.” ribatté prontamente Scipione, senza aggressività, ma un po' sorpreso per quell'attacco inatteso: “Potrebbero essere solo chiacchiere, certo... Ma se davvero Firenze vuole cambiare ambasciatore presso il Valentino, fossi in voi, che avete conoscenze migliori delle mie, farei quel che posso per provare a indirizzare la scelta verso un partito a noi congeniale.”

“Jacopo Salviati.” buttò lì la Leonessa, quasi senza pensare: “Lui sarebbe perfetto. Senza contare che, da quello che ho capito, ha aspirazioni ambiziose in campo diplomatico... Per lui sarebbe un ottimo incarico...”

“E Salviati è anche amico del Gonfaloniere... Lui è stato tra i suoi elettori maggiori, o sbaglio?” si affrettò ad aggiungere Scipione.

“Non possiamo sperare di influenzare una simile scelta.” fece notare il piovano.

“Ma possiamo provarci...” soppesò Caterina: “Il Gonfaloniere potrebbe chiedergli di accettare e lui dovrà farlo senza esitazioni. Francesco, come ti ho già detto, sono pronta a incontrarli: fammeli incontrare, anche solo uno dei due... Voglio spiegare loro l'importanza di questa ambasceria... Ti prego, scrivi subito ai Salviati e chiedi loro quando potrò incontrarli.”

Il piovano, un po' guardingo, lanciò un'occhiataccia ancora a Scipione e poi anche alla Leonessa, e alla fine decretò: “Vado subito, allora...”

Detto ciò, l'uomo prese silenziosamente congedo, avendo cura, nel lasciare la stanza, di non chiudere la porta. Sapeva che non serviva a nulla, come gesto, e voleva anche convincersi che la propria gelosia fosse solo frutta della sua grande insicurezza, tuttavia farlo gli era servito a sentirsi più tranquillo.

Rimasti finalmente soli, il Riario e la Sforza si presero qualche minuto per commentare il vino che stavano bevendo e poi, con naturalezza, passarono a parlare dei figli di Caterina. Scipione si disse contento di sentire che Galeazzo si stava impegnando non solo nell'esercizio fisico, ma anche nello studio – per quanto fosse possibile nell'isolamento di quella villa – e si dichiarò ancor più soddisfatto della grande inclinazione che Sforzino pareva mantenere per gli studi sacri.

“Ci vorrebbe un nuovo papa in famiglia!” scherzò il giovane, strappando un mezzo sorriso anche alla Tigre.

Citarono Ottaviano, ancora in viaggio e sempre alla ricerca di soldi, e anche Cesare che, invece, sembrava aver trovato davvero la sua dimensione nei suoi impegni apostolici, che onorava in modo impeccabile, tenendosi sempre lontano dai pettegolezzi e dai vizi e, con essi, anche dalla politica e dal potere.

Spesero qualche parola per Giovannino, che ancora aspettava il suo destino, sempre più insofferente degli abiti femminili che le suore gli infilavano a forza, e poi si chiesero a vicenda come sarebbe andato il matrimonio di Bianca.

“Stiamo aspettando che il De Rossi faccia sapere in modo ufficiale quando farla partire per Roma...” sospirò la milanese: “Mi mancherà molto, ma è giusto così. Se lei vuole che il suo futuro sia con lui, io l'appoggio. Se le cose dovessero andare male, potrà sempre tornare qui. Per fortuna io ho fatto abbastanza scandalo da coprire con la mia cattiva fama qualsiasi maldicenza dovesse nascere su di lei, se mai dovesse lasciare il marito...”

“Non pensare subito che le cose andranno male...” la rincuorò il Riario: “Bianca è una donna sveglia e il De Rossi, da quel che posso capire, è un uomo solido. Hanno fatto un figlio... A quel che so, volendolo... Quindi cerchiamo di essere ottimisti, perché loro sono molto sicuri di quello che stanno facendo.”

Caterina sollevò le sopracciglia, ma si trattenne dall'esprimere un'eventuale perplessità. Anche lei voleva credere con tutta se stessa che sua figlia non stesse commettendo un errore, ma tutte le volte che la pensava da sola a Roma e poi da sola in Emilia con Troilo, non poteva non sentire un piccolo nodo allo stomaco. Bianca aveva passato momenti tremendi, aveva superato prove molto pericolose e le aveva dimostrato sempre una fibra invidiabile, eppure per la Tigre il matrimonio restava sempre un argomento tanto delicato da instillarle ansie e paure non sempre motivate dalle circostanze.

“E Carlo come sta?” chiese poi Scipione, finendo il suo calice e versandosene subito un altro.

“Bernardino sta bene – rispose la Leonessa, usando, come sempre, l'unico nome che riconosceva come proprio del figlio – anche se a volte è un po' agitato...”

“Fallo tornare da me in città.” propose il Riario: “L'ultima volta si è divertito...”

“E gli è bastato per calmarsi un po'.” convenne Caterina: “Ma non posso darti quest'incombenza troppo spesso... Lo so benissimo che Bernardino non è facile da gestire.”

“Dipende... L'ultima volta non mi ha dato problemi...” soppesò lui: “Basta accontentarlo un po' e prenderlo per il suo verso...”

“Sei gentile a parlarne così.” disse la donna: “Ma davvero, non voglio condizionarti solo perché sei così disponibile...”

“La mia offerta resta valida.” fece il giovane, con un sorriso aperto: “Per me anche Carlo è come un fratello.”

Smossa nel profondo da quella dichiarazione, che era stata detta con una semplicità disarmante, la Sforza allungò una mano e diede una rapida carezza al bel viso di Scipione.

Proprio in quel momento, Fortunati stava arrivando alla porta della sala e già poteva intravedere quella scena. Il sangue gli si era ghiacciato nelle vene, ma i suoi passi non si erano fermati. Era ormai quasi in procinto di entrare, quando sentì la Leonessa dire una cosa che lo ridisciolse subito.

“Tu hai fatto molto, per me e per i tuoi fratelli.” disse Caterina, gli occhi verdi che incontravano quelli più scuri del Riario: “E tu per me sei come un figlio, ricordatelo sempre.”

Quella dichiarazione, che andava a precludere qualsiasi possibile interesse sentimentale della Tigre per il bello e giovane Sciopione, fece tornare il sorriso anche sulle labbra di Francesco che, decidendosi infine a entrare, si palesò con un gioviale: “Ho appena consegnato la lettera al nostro messaggero... Dovrebbe arrivare a Firenze tra poche ore.”

“Molto bene.” lo ringraziò la milanese, con un cenno del capo: “Bevi un po' di vino? Non è certo contro i tuoi voti sacri, assaggiarlo...”

Complice l'umore allegro ritrovato, questa volta Fortunati accettò e, aspettando di essere servito, cominciò a chiacchierare del più e del meno con Scipione che, sorpreso da quel cambio repentino di tono, assecondò la giovialità del piovano e, credendo che fosse meglio, per il quieto vivere di tutti, non fece più cenno né alla guerra né alla politica.

A sera, Caterina convinse Scipione a restare anche per la notte e il giovane accettò volentieri, per nulla desideroso di affrontare il viaggio di ritorno in città sotto la neve pesante e appicicaticcia che aveva preso a scendere già da ore.

Appena prima di congedarsi per andare a dormire, il Riario volle scambiare ancora una volta due parole da solo con la Sforza, fermandola ai piedi delle scale.

“Volevo parlartene già oggi, ma non è venuto il momento giusto.” le disse, le braccia incrociate sul petto, e gli occhi che saettavano a destra e a manca, quasi a volersi assicurare che non ci fosse qualche spia vaticana in ascolto: “A mio avviso il Valentino sta rischiando troppo. Ha ucciso il Vitelli, è vero, e così Oliverotto e probabilmente farà anche una strage di Orsini e ammazzerà anche il Montefeltro, se riuscirà a mettergli addosso le mani, tuttavia...”

“Tuttavia?” la Tigre era stanca e quel discorso le sembrava trito e ritrito, però il modo in cui Scipione le restava vicino, con aria da cospiratore, le lasciava intendere che ci fosse un risvolto che lei stessa non aveva calcolato e che valeva la pena di analizzare.

“Prima o poi questo regime del terrore che sta istituendo cadrà. Non può continuare a sfruttare gli alleati e ucciderli quando non gli servono più... Guarda cos'ha fatto con Ramiro...” continuò lui, alzando un po' le spalle.

“Arriva al dunque: è tardi e ho sonno.” lo inclazò lei.

“Il suo potere è destinato a declinare, e potrebbe farlo in fretta. Il papa non è immortale e se si attirano troppi nemici, se offendono troppe famiglie importanti, prima o poi qualcuno riuscirà a far arrivare in Vaticano un calice avvelenato o un cibo infetto o un monaco disposto a morire pur di pugnalare il cuore del papa spergiuro...” fece notare il Riario: “E allora dovremo essere lì pronti a dare la zampata e riportare il sangue sforzesco in Romagna.”

Caterina rimase immobile per qualche secondo. Non poteva mentire a se stessa: l'idea le piaceva, specie se avesse comportato lo scendere in campo aperto contro un esercito pontificio ormai allo sbando...

“Parli con disinvoltura del mio sangue, ma è il sangue dei Riario che dovresti voler riportare in auge.” commentò, secca.

Il ragazzo scosse il capo: “Se questa cosa andasse in porto, io sosterrò Galeazzo, e lui per metà è uno Sforza, e credo che sia il suo pregio maggiore.”

Lusingata da quello che di fatto era un complimento rivolto anche a lei, la donna annuì e concluse, con serietà: “Vedremo come evolverà la situazione e decideremo come muoverci.”

“Dobbiamo iniziare già da ora.” consigliò Scipione: “Amicizie, denaro, uomini e armi: dovremo avere già tutto pronto, quando sarà il momento.”

“Lo so...” fece lei: “Lascia che ci dorma sopra... E poi vedremo come fare.”

Sicuro che le sue parole non sarebbero cadute nel vuoto, il Riario la salutò e si ritirò per la notte, e così fece la donna.

In camera, Caterina attese per almeno un'ora che Fortunati la raggiungesse. Non erano d'accordo in tal senso, ma da che era tornato, avevano sempre passato la notte insieme, benché lei, per ora, non avesse cercato la sua compagnia in senso stretto. Forse, però, il piovano si era stancato e non intendeva perdere un'altra nottata a parlare e sonnecchiare, risvegliato di continuo dagli incubi di lei...

Spazientita, la Tigre decise di prendere il toro per le corna e andò lei da Francesco. Senza bussare, entrò nella sua stanza e lo trovò chino sulla scrivania, intento a leggere il suo breviario.

“Ti stavo aspettando...” gli disse, quando l'uomo si voltò di colpo e la fissò interrogativo.

“Davvero?” chiese lui, stupito.

“Come mai non sei venuto in camera mia?” indagò lei, senza rispondere a quella domanda inutile.

“Ti ho vista parlare con Scipione vicino alle scale... Credevo che vi sareste trattenuti di più e non volevo disturbare...” si schermì lui, lasciando la scrivania e avvicinandosi alla Leonessa.

La camera del piovano era un po' spoglia, ma ordinata. L'inginocchiatoio era lucido e in una posizione comoda, gli abiti che si era da poco tolto erano sistemati con cura sul cassettone e il letto era ancora perfettamente risvoltato. Caterina non aveva mai osservato davvero quell'ambiente, specie perché lei e Francesco si erano sempre incontrati nella di lei camera, credendo che sarebbe stato più facile scusare una presenza dell'uomo – ufficialmente suo confessore – da lei che non viceversa.

Pensando che, per una volta, nessuno si sarebbe accorto che lei fosse lì, la Sforza colmò la distanza tra lei e il fiorentino e gli diede un rapido bacio. Fortunati rispose subito, con una voracità entusiasta che sbandierava una volta per tutte quanto avesse atteso quel genere di riavvicinamento da parte della donna che amava.

Siccome aveva già capito che, quella volta, Caterina desiderava la sua compagnia per uno scopo ben preciso, il piovano non si fece pregare e, senza fare domande o avanzare nuovi dubbi, l'afferrò per i fianchi e riprese a baciarla.

“Sei molto intraprendente, per essere un uomo di Chiesa...” rise lei, compiaciuta da tanta irruenza.

“Io, ormai, sono un uomo della Tigre...” la corresse lui.

Mentre si lasciava portare verso il letto, la donna ribatté: “La fai quasi sembrare una cosa bella...”

Facendola sentendere e mettendosi sopra di lei, per continuare a baciarle le labbra e il collo, Fortunati disse solo: “Ti amo.”

La Leonessa accettò quella dichiarazione senza corrisponderla, come faceva sempre, ma il piovano non le diede peso. Ormai sapeva quali erano i confini dell'amore della Tigre – perché tale era, secondo lui, il sentimento che anche lei provava nei suoi confronti – e gli stavano bene. Avrebbe preso da lei tutto quel che poteva, tutto quello che gli avrebbe dato, e nulla di più avrebbe preteso.

Mentre le sollevava lentamente la sottana, Caterina trattenne un istante il fiato e poi gli sussurrò all'orecchio: “Mi eri mancato...”

Tanto bastò a Francesco per sentirsi esplodere di gioia e desiderio e da quel momento in poi nulla gli importò più, né di Firenze, né della guerra, né della sua stessa gelosia che, quel giorno, l'aveva quasi portato a perdere il controllo di sé. Esisteva solo la donna che amava, il calore della sua pelle e il suo modo feroce di pretenderlo.

Perfino quando lei, senza prevviso, con la voce rotta, gli confidò: “Voglio riprendermi Forlì, costi quel che costi.” il fiorentino finse di non sentire, perché nulla, nemmeno l'animo sempre in guerra di Caterina, avrebbe potuto rovinargli quel momento di pura pace.

 

   
 
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