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Autore: Orso Scrive    03/12/2022    2 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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3.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Te l’avevo detto che qui era carino!» trillò Aurora Bresciani, guardando fuori dal finestrino appannato – e parecchio graffiato – della vecchia Fiat Punto blu.

La macchina stava superando un piccolo e stretto ponticello che solcava un ruscelletto che scorreva in mezzo ai boschi spogli e nebbiosi. Il paesino in cui entrarono era poco più grande di un gruppetto di case addossate le une alle altre, come se si tenessero su a vicenda per resistere in quell’angolo quasi dimenticato di mondo.

«Non ho mai messo in dubbio nemmeno per una volta le tue capacità di scegliere una meta turistica», la apostrofò Alberto Manfredi, smettendo di tamburellare con le dita sul volante per scalare la marcia e poter affrontare una curva abbastanza stretta in mezzo agli antichi edifici di pietra.

Tenente e sottotenente avevano deciso di concedersi una breve vacanza insieme dopo che il loro comandante – il colonnello Iannaccone, un omaccione burbero e dall’aria marziale, che non faceva altro che pretendere, pretendere e pretendere e di rado dispensava licenze, millantando guai a non finire che non potevano attendere nemmeno mezza giornata per essere risolti – aveva incredibilmente acconsentito a concedere loro qualche giorno di riposo.

In fondo, Alberto e Aurora si conoscevano da moltissimo tempo, da molto prima di arruolarsi insieme nel Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri; ogni tanto, quindi, piaceva a entrambi rituffarsi nel passato e trascorrere qualche spensierato giorno in solitudine, senza un solo pensiero per la mente.

«Ma non più di quelli che abbiamo concordato», aveva abbaiato Iannaccone al telefono. «Abbiamo un mucchio di casi e di indagini da portare a termine, ci sono stati un sacco di furti di opere d’arte e bisogna sorvegliare numerosi siti archeologici. L’organico è ridotto ai minimi termini, i fondi sono quelli che sono e il maresciallo De Crescenzo, lo sapete, comincia ad avere una certa età, e non si può più pretendere troppo da lui. Insomma, mi servite qui e vi sto davvero dando un premio enorme, e solo perché vi siete impegnati parecchio ultimamente. Quindi, riposatevi per i giorni che ho detto, ma se sgarrate di un solo minuto vengo a recuperarvi in elicottero! E il combustibile lo pagate voi!»

Iannaccone era uno degli uomini più tirchi del pianeta.

Manfredi aveva sudato freddo al solo pensiero di dover aprire il portafogli. Anche lui, in fatto di braccino corto, non aveva troppi rivali. Inoltre, con quel suo innato senso del dovere che Aurora considerava poco meno che ripugnante, avrebbe quasi voluto rinunciare alla breve vacanza per correre a mettersi a completa disposizione del colonnello. Lei – intuendo le sue intenzioni – glielo aveva impedito, rubandogli il telefono di mano e chiudendo in modo repentino la comunicazione.

«Non se ne parla proprio», aveva sbottato. «Già mi hai fatto passare una notte di Halloween di merda…»

Alberto aveva sogghignato.

«Ma se ti ho persino fatto incontrare il demonio in persona, con corna, coda, forcone e tutto il resto!»

Lo aveva detto cercando di ridere per mascherare lo sgomento e il terrore che lo coglievano al solo ricordo di essersi trovato a così breve distanza dal Signore dell’Inferno. A volte si diceva di averlo soltanto sognato. Purtroppo, sapeva bene che non era affatto stato un sogno. Poteva soltanto sperare, per il futuro, di non ripetere più una simile esperienza: con i demoni infernali non voleva averci nulla a che fare. Mai più. A lui competevano ladroni, falsari e tombaroli: delle altre cose, che se ne occupasse il reparto dell’Arma deputato. Sempre che esistesse.

Aveva qualche dubbio, in proposito.

«Sarebbe stato un bell’Halloween se il diavolo mi avesse lusingata e portata a letto, per prendermi in modo infernale – e io gliel’avrei mollata volentieri, a quel manzo – oppure se avesse ingaggiato con me una lotta senza riserve», commentò Aurora. «Starmene appostata in quel tuo cesso di macchina puzzolente non è esattamente quello che avevo in mente. Per cui, adesso si fa come dico io!»

Il che, nei fatti, si era tradotto andarsene in vacanza dove voleva lei.

Adesso, dopo aver percorso tutta quella strada, tra tornanti e saliscendi, per arrivare in quel luogo sperduto di cui non ricordava nemmeno il nome, Alberto avrebbe voluto sottolineare che, il suo cesso di macchina, anche se malmessa e maleodorante, ancora una volta, li aveva portati a destinazione senza problemi.

Ma io mica te lo dico.

Non aveva voglia di bisticciare proprio adesso che erano arrivati.

Invece, si limitò a domandare: «Come hai detto che si chiama, quell’affittacamere? E quanto costa? Nel senso, non è che ci spenna, vero? Sai, con quella miseria che chiamano stipendio…»

Aurora alzò pericolosamente le sopracciglia.

Ahia…

Meglio cambiare subito argomento.

«Che poi, mi dico…» si affrettò a borbottare, «chi è che dice ancora “affittacamere”? Insomma, siamo nel terzo decennio del terzo millennio, se è sfuggito a qualcuno, mica nel 92 avanti Cristo. B&B è troppo moderno, per questo tizio?»

Stavolta, Aurora ridacchiò.

«La Tana di Orso», rispose. «E non affitta solo camere, comunque. È prevista anche la colazione e volendo pure il pranzo e la cena.»

«Ecco, allora dovrebbe proprio cambiare nome, se no è una frode e…»

Lei allungò la mano e gli mollò un’allegra pacca sulla gamba.

«Ehi, Manfredino, siamo in ferie, finiscila di fare lo sbirro ligio al dovere, per un po’! E non dimenticare che tu non sei un finanziere, quindi non metterti a rompere i coglioni con robe che nemmeno ti competono!»

«Ahio! Stai ferma con quelle zampacce, o andremo a sbattere…»

Non ci volle molto per individuare il posto che stavano cercando. Del resto, il paese era composto da poco più che tre vie che si incontravano in una minuscola piazzetta – dove c’era un monumento in memoria dell’unico caduto che il luogo aveva offerto alla Patria nella Grande Guerra – e da un paio di vicoletti dove sarebbero a stento passate due biciclette affiancate. L’unico cartello stradale che videro fu quello che indicava un parco di divertimenti che doveva sorgere nelle vicinanze. Comunque, per arrivare all’affittacamere, non ebbero bisogno di cercare troppo a lungo.

Scoprirono che la loro destinazione, un tempo, doveva essere stato un fienile, riadattato a struttura ricettiva. Sul davanti, c’era uno spiazzo sassoso, dove era parcheggiata soltanto una macchina, che doveva essere quella del proprietario. Alberto fermò la Punto accanto a quella.

«Bene, eccoci arrivati», disse.

Attraverso il vetro appannato, scrutò l’edificio rimodernato. Sopra la porta, era appesa un’insegna di legno verniciata di blu, su cui capeggiava la scritta “La Tana di Orso”. Sotto, più in piccolo, si leggeva “Affittacamere – Sono benvoluti tutti i clienti”.

«Vedi che persona educata?» disse Aurora, accennando con la testa alla scritta. «E tu vorresti già fargli una multa, brutto piedipiatti che non sei altro.»

«Io non voglio fargli una multa…» grugnì Alberto.

«Tu sei sbirro dentro, Manfredino.»

Perché, tu che cosa cavolo saresti? Una pazza scatenata?

Anche questo non lo disse. Ci teneva alla propria incolumità.

Aprirono le portiere. L’aria era fredda, satura di umidità. Dal terreno si stavano levando leggere volute nebbiose. Davano l’impressione di eterei fantasmi protesi verso le loro vittime, come a volerle catturare per trascinarle in una dimensione irreale.

Aurora si guardò attorno. Fissò le spire nebbiose, scrutò i profili delle case antiche e risalì con lo sguardo lungo i versanti boscosi che circondavano come in un abbraccio eterno il piccolo centro abitato.

«Questo luogo ha qualcosa di strano», sussurrò la giovane donna. «Mi sembra di essere stata catapultata in un altro mondo, in un’altra dimensione… come se avessimo varcato un passaggio.»

«Magari», borbottò Alberto, girando attorno all’automobile per affiancarla, «è uno di quei posti dove esistono mostri pieni di tentacoli, in stile Lovecraft. Magari senti un botto nel bagagliaio della tua macchina e, all’improvviso, ne schizza fuori un tentacolone, viscido e pieno di ventose… be’, io te lo dico, siamo ancora in tempo a prendere e andarcene… ci troviamo un altro posto per passarci le vacanze…»

Aurora gli tirò un pugno scherzoso sul braccio.

«Non dire idiozie, Manfredino», lo rabbonì. «Ho guardato su Google, questo affittacamere ha un mucchio di recensioni positive. E poi ormai ho prenotato, che figura ci faremmo? Non mi pare che questo tizio stia facendo grossi affari, in questi giorni. Forza, sbrighiamoci a entrare, piuttosto: qui fuori mi si sta congelando persino la figa, e non voglio trovarmi a pisciare cubetti di ghiaccio, stasera.»

«Riesci sempre a essere così raffinata e delicata», commentò lui. «Una vera donzella vittoriana.»

Si fermarono davanti al bagagliaio della Punto e, per un istante, esitarono. Tesero le orecchie, ma non sentirono nulla. Niente botti o tentacoli che strisciavano nell’oscurità del baule.

Aprirono.

Dentro, c’erano soltanto i loro zaini.

Recuperati i bagagli, andarono alla porta dell’affittacamere. La ghiaia umida dello spiazzo scricchiolò sotto le suole delle loro scarpe. Cric-cric. Suonarono il campanello. Per quasi tre minuti, non successe assolutamente nulla, tanto che cominciarono a pensare che non ci fosse nessuno.

«Forse dovremmo provare ad andare a vedere nella casa sul retro…» cominciò a dire Manfredi.

In quell’esatto momento, la porta venne spalancata e davanti a loro apparve un tizio magro e un po’ ciondolante, con capelli e barba castani lunghi e arruffati. Non sembrava avere idea del funzionamento di un pettine. Portava un paio di occhiali dalla montatura dorata e indossava jeans scoloriti e felpa nera, dalla quale spuntava il colletto di una camicia a quadri.

Manfredi non poté fare a meno di domandarsi se fosse un nerd o un pazzo sclerato, o magari un serial killer, o tutte e tre le cose insieme.

Lì scrutò per un momento quasi con spavento. Poi dischiuse le labbra in un sorriso e tese la mano.

«Voi dovete essere Alberto e Aurora», disse, con voce sottile e un po’ impastata. «Io sono Orso. Benvenuti nella mia Tana.»

 

* * *

 

Orso registrò i loro nomi su un antiquato quaderno dalla copertina di pelle nera. L’interno dell’affittacamere era caldo a arredato in maniera alquanto bizzarra. Il pavimento era coperto da una moquette con disegni che potevano essere cavallini o peni con tanto di scroto pendulo: Manfredi non seppe decidersi.

Di certo, è la roba di più cattivo gusto che abbia mai visto in vita mia, si disse.

Alla pareti rivestite di perline di legno chiaro erano appesi quadri da pochi soldi che raffiguravano paesaggi montani, mucche, orsi, uccelli rapaci – civette, barbagianni, gufi, assioli – e altri animali del bosco. Altri quadri parevano raffigurare strane e variegate scenette. In uno, si vedeva un cacciatore che si tuffava a pesce in quello che sembrava un vero e proprio mare di ortiche. Un’altra tela, dall’aria parecchio naif, mostrava una coppietta – nuda e coperta di sangue – che massacrava un tizio a coltellate. Il quadro era appeso un po’ storto. Un terzo dipinto raffigurava un commesso viaggiatore che guardava con aria terrorizzata quella che sembrava essere la porta tetra e spaventosa di un ascensore. Il tizio aveva Paperino appollaiato sulla spalla, come una specie di coscienza. Manfredi, per qualche istante, si interessò a studiare nei dettagli una tela che mostrava un giardiniere impegnato in una lotta all’ultimo sangue con delle palme assassine armate di motosega. Il giardiniere stava avendo la peggio e non si era reso conto che un tagliaerba impazzito lo stava attaccando alle spalle. Frenò a stento la tentazione di gridargli di voltarsi e di fare attenzione.

A guardare tutti quegli strani quadri ci sarebbe stato da perdersi. Alberto decise di ignorarli e continuò a guardarsi attorno, stranito da quell’ambiente assurdo. Un tavolino d’angolo accoglieva una collezione di orsacchiotti di peluche. Uno degli orsetti aveva una penna in mano. E sopra un grande camino acceso e scoppiettante era appesa, quasi come un trofeo, una vecchia roncola.

«Quella è Bloody», presentò Orso, seguendo lo sguardo perplesso di Alberto.

«Ah», fece lui.

Un nome un programma?, gli avrebbe voluto domandare, ma Aurora, che come sempre sembrava in grado di leggergli nel pensiero, lo fulminò con lo sguardo.

«Venite», disse Orso, uscendo da dietro il banco. «Vi mostro la vostra stanza.»

Senza smettere di ciondolare nemmeno un istante, li condusse lungo un breve corridoio e poi su per una stretta rampa di scale. Si fermò davanti a una porta e fece scattare la serratura. Dopo aver aperto, si scostò per lasciarli passare.

L’interno della camera profumava di pulito. Un grande letto matrimoniale aveva la testiera rivolta contro la parete. Un armadio a doppia anta vi si trovava proprio di fronte. Un tavolino, una sedia e un mobiletto con sopra il televisore completavano l’arredamento. Una porta accanto all’armadio immetteva in un piccolo ma funzionale bagno.

«Spero che vi troverete bene, nella vostra tana», disse Orso, con un sorriso. «A volte penso che dovrei fare qualcosa per rendere più accoglienti queste camere…»

«Ci troveremo benissimo», assicurò Aurora, con un largo sorriso.

Lo stomaco di Manfredi brontolò sonoramente. Questo gli ricordò che era dalla mattina che non mettevano nulla sotto i denti.

«Scusi, signor…»

«Datemi del tu e chiamatemi solo Orso», precisò lui.

«Certo, ehm… Orso…» fece Manfredi. Si sentiva vagamente a disagio, vicino a quella persona. Come se si trovasse a tu per tu con qualcuno di davvero proveniente da un altro mondo. «Ehm… volevo chiederti, dove potremmo andare per mangiare?»

«Se cercate un posto per mangiare, da queste parti, potete stare pure certi di morire di fame, a meno di non farvi una quarantina di chilometri per scendere in città», rise Orso. «Ma se vi accontentate di una cucina non troppo raffinata, posso ospitarvi io a casa mia.» Accennò alla finestra. Oltre la cortina ormai fittissima di nebbia, si intravedeva una vecchia casa. «Io abito lì. Sarebbe un piacere avervi a cena!»

«Non vorremmo disturbare…» tentennò Aurora.

«Ma quale disturbo e disturbo», la interruppe Orso. «Sono sempre lì da solo con il mio gatto. Gli parlo insieme, ma tra tutti e due non siamo esattamente due principi della conversazione. Ogni tanto, un po’ di compagnia non può che farmi bene. Per una sera, almeno, non starò lì a deprimermi da solo tra libri e computer.»

Aurora e Alberto si consultarono con lo sguardo. Il viaggio gli aveva messo fame. E nessuno di loro avrebbe avuto voglia di rimettersi in macchina per cercare una trattoria. Di sicuro, Orso non avrebbe cercato di avvelenarli, lo sentivano. Soprattutto perché non avevano ancora saldato il conto.

«Sei davvero molto gentile, grazie», disse Aurora.

«Ottimo!» esclamò Orso, sinceramente contento. Riprese subito il suo tono lento e quasi impercettibile. «Allora vi lascio soli, vorrete lavarvi e riposarvi un po’. Quando siete pronti, basta che scendete dabbasso, prendete la porticina sul retro e venite a bussarmi alla porta.»

Con un ultimo sorriso, uscì dalla stanza e richiuse la porta.

 

* * *

 

Rimasti soli, Aurora si lasciò cadere di schiena con le braccia spalancate sull’ampio letto – il materasso emise un cigolio esasperato sotto il suo peso. Alberto – sudato e infreddolito, perché guidare gli dava sempre quella leggera tensione che gli inzuppava gli abiti – cominciò a spogliarsi.

«Guarda che bel lettone tutto per noi, Manfredino», sospirò Aurora. «Vedrai quante belle robe inaspettate, che ti farò fare qui dentro.»

Alberto diventò rosso come un pomodoro maturo e cercò di evitare di guardarla.

«So già come andrà», bofonchiò. «Russerai come un trombone come al solito e non mi farai chiudere occhio per tutta la notte.»

«Quanto sei scemo!»

Manfredi si strinse nelle spalle e cominciò a sbottonare la camicia.

«Be’, ora ho proprio bisogno di farmi una doccia, guidare mi ha distrutto. Cercherò di fare in fretta.»

«Sarà meglio, perché ho una fame da lupi. Quindi muovi il culo e non impiegarci più di cinque minuti, altrimenti vengo a prenderti per le palle e ti trascino a casa del nostro amico Orso così come sei.»

Alberto non poté fare a meno di farsi scappare un ghigno amaro.

«Ah, è già nostro amico?» chiese. «A me dà l’aria di uno psicopatico.»

Aurora fece un sorrisetto.

«Proprio perché è uno psicopatico mi piace. Sai che noia, la gente normale? Non hanno nulla di interessante da farti scoprire. E intanto, Manfredino, ti avviso che i tuoi cinque minuti di doccia sono già diventati quattro.»

Senza aggiungere altro, il tenente schizzò dentro il bagno e cominciò a far scrosciare il getto dell’acqua calda.

 

* * *

 

Il profumo che li accolse quando entrarono in casa di Orso fu davvero invitante. A dispetto della sua pretesa di non essere un granché ai fornelli, sembrava che avesse preparato qualcosa di davvero succulento.

E infatti, dopo averli fatti accomodare, dispose nei loro piatti delle belle e saporite polpette di carne impanate, con contorno di zucca al forno.

Prima di mettersi a sedere insieme a loro, Orso stappò una bottiglia di lambrusco e ne versò tre bicchieri.

«Bene», disse. «Allora brindiamo a questo incontro…»

Alberto, di per sé, era abbastanza timido, e mai avrebbe offeso qualcuno. E tuttavia, non riuscì a trattenersi dal domandare: «Così, per curiosità, come sapevi che non siamo astemi…» guardò le polpette, «…e nemmeno vegani? Di vegani, al giorno d’oggi, ce ne sono in giro davvero tanti, persino troppi. E hanno la tendenza a offendersi, se non li si prende in considerazione come desiderano.»

Per un istante, un sorriso misterioso aleggiò sulla labbra di Orso. Parve che in lui ci fosse una consapevolezza profonda, un’autentica conoscenza di tutte le cose. Quando si erano presentati alla sua porta non aveva avuto necessità di domandare se fossero i due clienti che avevano effettuato la prenotazione, e ora sembrava conoscere alla perfezione anche i loro gusti culinari. Fu solo un istante, comunque. Il sorriso misterioso lasciò il posto a un’espressione imbarazzata.

«Oh, ho tirato a indovinare», si schermì. «Ma se non volete le polpette, vi assicuro che la zucca è cotta con l’olio d’oliva, del tutto vegana… e di là ho quattro o cinque casse di acqua minerale, se il vino non vi va…»

«Va tutto benissimo!» si affrettò a dire Aurora, sferrando un calcio sotto il tavolo a Alberto. «Perdona il tenente, Orso: è uno sbirro ed è abituato a inquisire la gente, sempre e comunque. Se potesse, metterebbe tutti quanti sotto torchio, in ogni momento. Il suo più grande cruccio è che abbiano abolito i metodi dell’inquisizione spagnola per far parlare i sospettati, altrimenti ci darebbe dentro alla grande.»

Alberto e Orso si scambiarono uno sguardo e a un tratto si sorrisero entrambi con aria serena.

«Ero solo curioso, non volevo certo dire nulla di male», si scusò Manfredi. «Anzi, ottima pensata le polpette, sono uno dei miei piatti preferiti. E pure la zucca mi fa impazzire, in questo periodo. Anche se è raro trovarne una davvero dolce…»

«Questa lo è», assicurò Orso, mettendosi a sedere. «È di Mantova», aggiunse, come se questo avesse messo un sigillo alla questione.

Finalmente tutti e tre sollevarono il bicchiere di lambrusco e bevvero a quel loro incontro.

Per qualche istante mangiarono in silenzio, accompagnati da quel silenzio un poco imbarazzato che si crea tra persone che si conoscono per la prima volta. Poi, però, riscaldati dal lambrusco – un autentico lambrusco frizzante di Modena – cominciarono a sciogliersi e a lasciarsi andare alle confidenze.

«Allora, ho visto dai vostri documenti che siete Carabinieri», disse Orso, rilassandosi contro lo schienale della sedia. «Che cosa vi porta, da queste parti? Solo vacanze, o c’è in ballo qualcosa? Se posso domandarlo, ovvio…»

Manfredi fece un cenno affermativo. Fu Aurora a rispondere.

«Ci siamo voluti prendere una pausa», spiegò Aurora. «Erano mesi che non avevamo un giorno di licenza. Ultimamente, poi, ci sono capitate delle cose leggermente assurde… volevamo staccare un po’, tutto qui. Così abbiamo scelto questo posticino tranquillo.»

Alberto rivide di nuovo il diavolo che parlava con Ceccarelli.

Leggermente assurde

Rabbrividì. Si protese un poco in avanti verso Orso.

«È tranquillo, vero?» quasi implorò.

Il padrone di casa si lasciò sfuggire una risatina.

«Oh sì, certo che lo è: quando non arrivano ragazze con gli abiti insanguinati, mostri pieni di verruche e di tentacoli o pazzi che controllano a loro piacere il tempo, qui è sempre tutto tranquillo. Non succede mai nulla, in pratica.»

Tra tenente e sottotenente passò uno sguardo. Ansioso quello di lui, elettrizzato quello di lei. Orso se ne accorse.

«Sto scherzando!» rise. «Questo è il posto più anonimo e insulso che conosca, ve lo posso assicurare. Certo, c’è Villa Mayer, però non conta davvero, no? In fondo, quella è nel bosco, un po’ fuori dal paesino.»

Un guizzo attraversò lo sguardo di Aurora.

«Villa Mayer?» domandò.

«Si dice che ci siano i fantasmi», rispose Orso. «Leggende, dicerie… se volete dopo vi racconto. Raccontare è il mio hobby preferito.»

Alberto ingurgitò l’ultimo boccone di carne.

«Inventi storie?» domandò.

Orso arrossì, imbarazzato.

«Be’, a dire il vero le scrivo… poi, qualche volta, capita che qualcuno le legga. Ma non pensate che ci faccia i soldi, eh… quella è pura illusione, anche se ogni tanto mi piacerebbe poter dire che vivo grazie a ciò che più amo fare… avete presente Steven Spielberg, quando disse che lui, per lavoro, sogna? Ecco, magari fosse così…»

Aurora si chinò verso di lui quasi a sfiorarlo.

«Che genere di storie?» chiese. «Ora sono curiosa!»

Orso si prese del tempo per finire di spazzolare la zucca che gli restava nel piatto. Non sembrava molto propenso a rispondere a quella domanda. Ormai, però, il dado era stato tratto.

«Uhm… fino a qualche tempo fa scrivevo storie dedicate a un personaggio del cinema, un avventuriero con frusta e cappello, sono sicuro che sappiate a chi sto alludendo, in questi stessi giorni stanno girando un nuovo film su di lui, non vedo l’ora che esca al cinema, anche se di recente lo hanno spostato di un altro anno, mi tocca aspettare fino alla fine di giugno del 2023… vabbe’. Non fa differenza. Il tempo passa più in fretta di quello che si creda», borbottò. «Poi però ho smesso con lui, mi sentivo troppo legato, ho voluto creare dei personaggi tutti miei, come in passato. E… be’, guardate, non vi dico chi sono, come si chiamino o che cosa facciano, i personaggi con cui mi do da fare adesso, perché tanto non mi credereste.»

Li guardò di sottecchi e fece uno strano sorriso. Prese il bicchiere e lo scolò in un solo sorso.

Alberto e Aurora restarono in attesa che riprendesse il discorso, ma Orso non sembrava intenzionato a ritornarci sopra.

«Vi va un dolce?» disse, invece. «Non ho granché… ho i biscotti che prendo quando bevo il tè al pomeriggio, oppure qualche tavoletta di cioccolato… fondente, al latte… bianco no perché non mi piace… avrei potuto prendere una torta, visto che venivano ospiti, non ci ho pensato…»

Alberto si batté sullo stomaco.

«Per me più niente, grazie», disse. «Era tutto buonissimo e sono pieno che scoppio.»

«Nemmeno per me, ma grazie mille uguale», gli fece eco Aurora.

«Oh, be’… allora…» Orso si guardò attorno. «Allora vi offro un goccio di vecchio Jack. Un goccio di vecchio Jack, dopo cena, fa sempre bene. È come il caffè: il liquido scende, ma l’essenza sale. Stimola il cervello che è un piacere.»

Senza attendere risposta, andò a un armadietto e ne prese una bottiglia di whiskey. Tornò al tavolo e guardò i piatti sporchi. Non parve avere molta voglia di mettersi a sparecchiare.

«Che ne dite se andiamo a sederci sul divano?» propose. «Il vecchio Jack, sul divano, va giù che è una meraviglia.»

«Perché no?» replicò Alberto. «Mi pare una buona idea.» Guardò verso una finestra, oltre la quale premeva ormai una vera e propria cortina di nebbia impenetrabile. «Poi, con questo clima, un goccetto di roba forte è proprio quello che ci vuole.»

«E così, già che ci siamo, puoi raccontarci di Villa Mayer», propose Aurora.

«Ti ho proprio colpita, eh?» ridacchiò Orso. «Okay, affare fatto.»

Raggiunsero il soggiorno, illuminato soltanto dalle fiamme che ardevano nel camino scoppiettante. Orso si lasciò cadere in una vecchia poltrona dall’aria lisa, piena di peli di gatto, e Alberto si mise quasi di traverso sul divano. Aurora sedette a gambe incrociate sul tappeto, la schiena contro il bracciolo del divano. Un vecchio gattone europeo, sbucato da un angolo, si avvicinò, la annusò un poco e decise che lei gli piaceva. Le saltò in grembo, si acciambellò e cominciò a fare le fusa.

«Musica?» propose Orso.

Si protese verso sinistra e schiacciò il tasto di accensione di uno stereo. Dalle casse, cominciò a uscire la musica delle colonne sonore dei film di John Carpenter.

«Una volta avevo una vicina di casa, una vecchia rimbambita che rompeva sempre le scatole dicendo che tenevo la musica troppo alta», rammentò Orso. «Ora però si è trasferita in via definitiva al cimitero e che ci resti pure. Qualche volta, per farle dispetto, vado sulla sua tomba, tiro fuori il telefono e faccio partire le stesse canzoni che le davano tanto fastidio da viva. Lamentati ora, vecchiaccia rompipalle, le dico. E sapete una cosa? Non solo non si lamenta, ma secondo me le piace pure, sentire un po’ di roba vitale in mezzo a tutto quel mortorio.»

La bottiglia cominciò a girare. Aurora prese il primo sorso, poi la passò a Alberto che ne mandò giù un secondo. Entrambi fecero una smorfia quando il liquido amaro e dal sapore legnoso sfiorò la loro lingua. Orso ne tracannò una dose piuttosto cospicua, prima di restituirla a Aurora. Per qualche istante non parlarono, presi a bere, mentre l’alcol forte cominciava a fare effetto nei loro organismi.

«Allora, Villa Mayer», rammentò Aurora.

«Giusto», ridacchiò Orso. «Ormai è fatta. Vi devo parlare di Villa Mayer…»

Passò la mano sulla barba, più che altro un vezzo, dal momento che non servì minimamente a darle una parvenza di ordine.

«…e, soprattutto, vi devo parlare di Edith Mayer, che dopo quasi centoventi anni dal giorno in cui fu uccisa, si dice che abiti ancora dietro quelle mura, là in mezzo al bosco…»

   
 
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