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Autore: Corydona    06/12/2022    0 recensioni
Raccolta di extra di "Dai tuffi al cuore": piccoli spin-off e missing moments sui personaggi di Dtac.
Si possono leggere senza aver letto la storia principale!
Genere: Sentimentale, Slice of life, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Olimpiadi Romane'
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Parigi, ottobre 20*8

 

«Quindi cos’ha provato?»

C’è qualcosa di morbido, soffice, nella voce calda dell’uomo che la fa sentire al sicuro. Che le permette di dire un po’ di più di quanto oserebbe persino a sé stessa.

Oltre alla consapevolezza che tutto ciò che dirà rimarrà tra quelle pareti. E che nessuno, nessuno, lo saprà mai.

«Ho avuto paura. Sapevo di valere la finale, ero partita benissimo, ma poi…» Tace, si pizzica il dito e si morde il labbro. Fa male, malissimo. Chiude gli occhi e con la mente ritorna a quel trampolino, a quella semifinale olimpica in cui i primi tuffi erano stati di altissimo livello. E poi…

«Poi?»

Si pizzica la punta del medio con le unghie di pollice e alluce. Non è sicura neanche lei di voler rispondere, né che la risposta sia quello che voglia davvero. Ma ha un bisogno disperato di chiarezza e di risposte e sa che non sarà in pace con sé stessa finché non avrà messo sbrogliato il groviglio di riflessioni che le si affollano nella mente ogni notte prima di dormire e ogni mattino, prima di alzarsi dal letto.

«Ho commesso un errore sul rovesciato. Ma non come Fiamma, povera, lei ha sbattuto la testa sul trampolino… Per fortuna non mi sono fatta male, ma forse sarebbe stato meglio se mi fosse successo.»

«Perché sarebbe stato meglio?»

Inspira, espira. Sente gli occhi gonfi di lacrime e sul punto di lasciarsi andare. Davvero sarebbe stato meglio infortunarsi come l’amica italiana? Una piccola parte di sé le suggerisce di sì, un’altra che è stato meglio non aggiungere un infortunio a un’Olimpiade disastrosa. «Perché ho deluso tutti. Con quel piccolo errore ho compromesso la mia gara e non mi sono più ripresa. Anzi, ho fatto peggio negli ultimi due tuffi e sono finita ultima nella semifinale. E io non valgo un diciottesimo posto, sono anni che sto lavorando duramente, che in allenamento do il massimo e Alexandre era sicuro che all’Olimpiade sarei andata bene. E invece non sono stata all’altezza, ho buttato tutto.»

«Ne è davvero sicura?»

Coco solleva il mento, gli occhi bruni dello psicologo le restituiscono lo sguardo. Affabile è stata la prima parola che le è venuta in mente appena l’ha visto, superando la soglia dello studio. Non era certa di come si sarebbe trovata e tutt’ora non si sente così sicura. Ma intravede in lui quel briciolo di comprensione sufficiente per farla parlare senza scontrarsi con il suo carattere schivo.

«Quest’estate lo ero. Ora non lo so. So che avrei potuto fare di più, perché sono rimasta fuori per soli diciotto punti e dieci centesimi. Diciotto e dieci.»

«È un numero molto preciso.»

«È il numero che ha segnato la differenza tra riuscita e fallimento. Il mio obiettivo era la finale, e non l’ho raggiunto.»

«E come si sente? Lei ha detto di aver lavorato tanto per arrivarci, come si sente al pensiero che è stato inutile, per parafrasare le sue parole? Inoltre, pensa che davvero sia stato inutile? Che non ci sia stato un percorso che l’abbia portata fino a quel punto?»

Un percorso. Il percorso c’è stato, altrimenti non sarebbe arrivata in una semifinale olimpica. Nel percorso ha rafforzato l’amicizia con Jean, si è innamorata di Émilien… senza l’obiettivo della finale, avrebbe trascorso diversamente il tempo con loro due. E con lo stesso Alexandre, che è diventato ancora più di prima un punto di riferimento.

Ma c’è un ma. Ed è un “ma” gigantesco”.

«Sui tuffi no. Sapevo fare quei tuffi anche un anno fa, a Shanghai li ho fatti.»

«E lì come è andata?»

Si morde il labbro: ha capito dove sta finendo il discorso e non vuole arrivarci. «Ventesima. Non ho avuto un vero sviluppo come atleta, se sono passata da ventesima a diciottesima. Due posizioni sono poche.»

«Anche un anno fa ha fatto la semifinale?»

«No.» Diretta, precisa. Lo sapeva.

«Quindi ha fatto una parte di gara in più, si è guadagnata l’opportunità di fare un’esperienza nuova, che le ha permesso di nuovo di confrontarsi con delle avversarie più esperte di lei. Questo non significa niente?»

«Meritavo di più.»

Accavalla le gambe, abbassando lo sguardo. Due lacrime le scorrono sulle guance, non riesce più a trattenerle.

«Cosa le fa credere che in futuro non otterrà questo di più

«Le Olimpiadi ci sono solo ogni quattro anni. Non ho la certezza di potermi qualificare e non ho neanche più la certezza di valere una qualificazione olimpica.»

«Quante ragazze partecipavano?»

«Credo ventotto o ventinove, non ricordo.»

«Le altre dieci o undici, secondo lei, come si sono sentite dopo la gara?»

«Crede che il mio sia solo un capriccio?» gli chiede, con il tono più pacato che possiede. In realtà sta cercando di trattenere altre lacrime. «Non mi manca l’empatia verso le mie avversarie, né ho intenzione di paragonare il loro vissuto al mio.»

«Le volevo offrire un punto di vista differente. Da quanto ho capito da lei in questi minuti, non credo che le manchi nessuna capacità di comprendere le emozioni altrui.» La voce è un tappeto musicale, di quelli che si stendono di sottofondo in locali tranquilli. Le sue parole avrebbero potuto risultare dure, ma il suo tono non lo è affatto: è dolce, come se volesse entrare in confidenza con lei. «Come si saranno sentite le altre ragazze che non hanno più gareggiato?»

Rimane in silenzio. Non ha una risposta, perché si è talmente tanto concentrata su di sé da non pensare al resto. Non era di quello che voleva parlare, e non ne avverte il bisogno. «So come mi sarei sentita io se non avessi superato l’eliminatoria. Perché è esattamente quello che mi è successo al Mondiale. A Shanghai dovevo entrare nelle prime diciotto, poi a Roma ho alzato l’asticella: dovevo entrare nelle dodici.»

«E il suo obiettivo era questo? Entrare nelle dodici?»

«Sì. Ho deciso con il mio allenatore di fissare così gli obiettivi.»

Lui scarabocchia qualcosa sul foglio, poi scocca un’occhiata all’orologio sulla parete e mette da parte il blocco con gli appunti, posandolo sulla poltroncina e schiacciandolo tra la coscia e il velluto bordeaux. Poggia i gomiti sulle ginocchia e posa il mento sulle dita intrecciate, sporgendosi in avanti. La scruta con attenzione, quasi astraendosi dal suo ruolo, come se invece di indagare la sua psiche volesse leggerle l’anima.

«Allora perché è qui?»

«Perché tra il terzo e il quarto tuffo ho avuto un attacco di panico.» Trattiene il respiro, perché la confessione è grossa. Così grossa che anche lei stenta a credere di averla pronunciata ad alta voce. Quando Damien le aveva detto cosa era secondo lui, era stato molto sicuro di sé e della sua diagnosi e lei… lei si era fidata.

Ha rimandato fino a quel momento la rivelazione, perché temeva che parlarne sarebbe stato troppo duro e ha soffocato tra le lacrime il segreto, esprimendo soltanto un disperato bisogno di aiuto perché la vita le sembra aver perso colore.

Quando Jean le aveva suggerito di consultarsi con il padre psicologo e, successivamente, con un altro professionista, si era fidata di lui. Così come di Damien, che non avrebbe mai sparato una diagnosi a caso senza esserne sicuro.

«Ne è certa?»

«Damien Chevalier non mi avrebbe mentito» sentenzia, sostenendo lo sguardo dell’uomo. «Se fosse stato un episodio isolato, avrei avuto dei dubbi. Ma è accaduto di nuovo quando ho ricominciato gli allenamenti e quando Alexandre ci ha detto quando saremmo tornati a lavorare in piscina. Sono qui perché non voglio averne più. I tuffi sono la mia vita e non posso avere paura di fare ciò che amo.»

«Allora siamo d’accordo. Ci vediamo tra una settimana, stesso orario?»

 

***

 

Fuori dalla porta, Jean ascolta musica a un volume tanto alto che riesce a sentirlo anche lei, mentre sfoglia un libro tascabile. Neanche si è accorto che è uscita dallo studio del dottor Pascal Renard, come indica il foglietto attaccato alla porta con dello scotch, forse messo lì in attesa di una targhetta.

Lo scuote sulla spalla, spaventandolo, e lui si toglie le cuffie, con una mano al petto. Ma non le dice di non fargli più prendere un colpo.

«Com’è andata?» le chiede in un bisbiglio, prima che il collega di suo padre si affacci sulla soglia per salutarlo. Gli rivolge un sorriso cortese e pieno di riconoscenza, prima di lasciare la sala d’attesa insieme all’amica.

«Ci torno la prossima settimana» risponde lei appena sono in strada, infilandosi la giacca di pelle. Si porta i capelli da un lato, per non farli volare via nella strada ventosa, e insieme si incamminano in un quartiere che prende vita tra i bambini che escono da scuola, i giovani che si radunano nei bar e donne che vanno a fare spese.

Tutto sembra estraneo, appartenente a una vita che Coco non conosce, a cui è estranea.

Jean non parla, paziente, come se volesse che fosse lei a tirare fuori ciò che ha da dire o, meglio, ciò che si sente di condividere dell’ora appena trascorsa.

Raggiungono la Giulietta di lui, parcheggiata poco distante, e durante il tragitto lei non fa che guardare fuori.

Fuori.

La vita, quelle esplosioni di colore che sono gli zainetti dei ragazzini, i vestiti più sgargianti di qualche suo coetaneo, i vecchi che chiacchierano fuori dai bistrot o gruppi di amici che si vedono per fare aperitivo insieme. Coppie di mezza età che si incamminano con le buste della spesa, ragazzine adolescenti con le borsette che giocano a fare le adulte e che nascondono tante incertezze dietro uno strato di trucco che possa mascherare la paura di non essere abbastanza.

E lei?

Lei si guarda nello specchietto retrovisore e scopre che il mascara che le ha suggerito Alicia davvero è resistente all’acqua. Perché ha pianto, nella prima mezz’ora trascorsa dal dottor Renard, e non ce n’è traccia sul suo viso, se non negli occhi ancora un po’ rossi.

«Grazie, Jean» sussurra.

«Coco, io non ho fatto niente. Sei tu ad aver deciso di venire.»

«Non sminuirti.»

«Non sto sminuendo me, la vera impresa di oggi è la tua. Io ti sto solo sostenendo, ma è quello che devo fare in quanto tuo amico.»

«Non intendevo per oggi, ma per… sai, per tutto. Senza di te, senza il tuo aiuto, non credo che ce l’avrei fatta. Forse sarei scappata davanti al citofono, ancora prima di entrare.»

«Hai sempre avuto l’opportunità di tirarti indietro, se l’avessi voluto.» Parcheggia in una via secondaria e poco trafficata. Non doveva riportarla a casa?

«Che stai facendo?» gli chiede, mentre lui si toglie la cintura e la invita a scendere con un cenno.

«Andiamo a prenderci una cioccolata. Sei stata brava, te la meriti.»

Sorride, tra sé e sé. Jean è un amico raro, come ce ne sono pochi al mondo.

Lo raggiunge sul marciapiede. «Fiamma è fortunata e non lo sa.»

Lui scuote appena la testa, senza sorridere. «Preferisco che non sappia nulla. Con tutto quello che sta passando per via di Sandro, non voglio che si allontani da me perché…» Le cede il passo per farla entrare in una cioccolateria, e la guida attraverso i tavoli, scegliendone uno in disparte. Si toglie la giacca e la posa sulla sedia, prima di prendere posto. «Insomma, non voglio che lo sappia. Non so come la prenderebbe, mi vede solo come amico.»

Lei annuisce. Capisce cosa si prova, sa anche lei che lui non la vedrà mai in quel modo. «Sempre meglio che essere considerata una sorellina più piccola da proteggere. Ti ricordi come guardava Thompson, a Roma?»

Jean non può rispondere, perché uno dei camerieri, un ragazzo sulla trentina con gli occhi da furbetto, si avvicina a loro per prendere l’ordinazione.

«Quando torna a Parigi, dovresti portarla qui.» Coco si guarda intorno. Su una parete ci sono tazze appese a dei chiodini, forse sono lì solo per scena. Un’altra è occupata da un’immensa vetrina con vari tipi di cioccolatini con ripieni a ogni gusto, e dietro al bancone si muovono un paio di camerieri o baristi che fanno avanti e indietro dal retro, in cui accade la magia del cioccolato.

Se non si sentisse tanto stremata, riuscirebbe persino a godersi il profumo di cioccolato che pervade l’aria. Ma lei è stanca, esausta, perché il pianto le affatica gli occhi e la mente. Ha passato troppo tempo a piangere, negli ultimi tempi, e troppo poco tempo a vivere ciò che c’è di bello oltre gli occhiali, sorta di barriera tra sé e il mondo.

Rimane in silenzio che le pare interminabile, ma Jean non la forza a parlare. Non lo farebbe mai. L’amico riceve un messaggio che legge sbuffando.

«Chi è?»

«Émilien. Vuole sapere dove sono per raggiungermi. Gli dico di no?»

Si morde il labbro interno. Vorrebbe vederlo, vorrebbe vederlo sempre, ma non in quelle condizioni, capirebbe che ha pianto, che non si sente bene, che basta la sua presenza in un momento delicato a mandarla in confusione.

«E se lui… Jean, se mi vedesse così?»

La scruta con attenzione, e lei si sente osservata fino all’anima. Non ha colto il riferimento di poco fa? Improbabile, è un ragazzo attento ai dettagli.

Annuisce, senza rispondere direttamente. «Gli dico di no.»

«Non dirgli che sei con me, non voglio che pensi che tra noi…»

«Sa che in testa ho solo Fiamma.»

«E Dana?»

«Non lo so. Mi piace, ma non è la stessa cosa.»

Il cameriere di poco prima porta un vassoio con due tazze ricolme di cioccolato. Quello alla cannella di Coco soffia spire alte davanti al suo viso, appannandole gli occhiali.

«Per Dana è solo passeggero, Fiamma mi piace in modo più profondo. Non so spiegarlo.»

Colette prova ad accennare un sorriso, non ricordava quanto fosse difficile. Ma vuole rincuorarlo e si sforza a incurvare le labbra, sperando che l’amico non veda una smorfia che non trasmetta il suo reale affetto per lui. «Non serve che spieghi, si vede.»

Jean scuote lievemente il capo. «Lei non lo vede.»

«Lo vedrà. Eravate gli unici a non rendersi conto del vostro rapporto…»

«Non voglio parlarne» taglia corto Jean, riprendendo il telefono in mano. Le pene d’amore non sono il miglior argomento per entrambi.

Lei immerge il cucchiaino nella tazza e se lo porta alle labbra per assaggiare la bevanda dolce. La scalda dall’interno e per la seconda volta in quella giornata ha la sensazione di essere coccolata.

«Comunque è andata bene» ammette, in un soffio. «Con il dottore, prima. Ho l’impressione che sia la persona giusta… Non è una spiegazione razionale, è più l’istinto a dirmelo.»

Lui posa il telefono sul tavolo, e abbozza un sorriso. «Mi fa piacere. Voglio che tu stia bene.» Tace per un momento e fissa un punto imprecisato nel vuoto. «Temevo che fossi una di quelle persone che pensano che dallo psicologo ci vanno i matti.»

«Lo ero.» Era stata la disperazione, mista a una consapevolezza diversa di sé rispetto al passato, alla normalità, a farle cambiare idea. «Avevo paura che la terapia mi facesse diventare una persona che non sono, per questo…» Si morde la lingua, un’altra volta. «Ti ricordi quando avevamo avuto quell’incontro sulla salute mentale nello sport?»

«Quattro anni fa?»

«Sì. Be’, non sono stata attenta per la maggior parte del tempo.»

Jean le sorride, incoraggiante. «Invece io sì, ma forse il lavoro di mio padre ha influito. Sono stato in terapia da Renard, ed è stato poco dopo quell’incontro. Mi ha aiutato tantissimo.»

«Questo spiega molte cose.» Prima tra tutte perché Jean capisce qualsiasi situazione meglio degli altri; e non è solo una questione di intelligenza e sensibilità.

«Mi ha detto che il rapporto con Fiamma era positivo per il mio benessere e che dovevo mantenerlo a qualsiasi costo, quando Sophie ha provato a farmi tagliare i ponti con lei.»

«Che cosa ha fatto?» Conosce l’ex dell’amico, l’ha vista fin troppe volte alle gare, alle feste a cui si presentava insieme a lui senza lasciargli nemmeno lo spazio per respirare. Non dovrebbe stupirsi se ha provato a sbarazzarsi dell'ingombrante migliore amica, eppure…

«Già… Doveva essere un campanello d’allarme sia sui miei sentimenti per Fiamma sia sulle intenzioni di Sophie.» Jean si porta la tazza alle labbra e beve un lungo sorso. «Non capivo quanto mi facesse male, nonostante Renard mi avesse lanciato qualche avvisaglia.»

Coco non replica. Preferisce che il discorso si sia spostato di nuovo su lui e Fiamma, ma non sa cosa dire che non suoni stupido. O qualcosa che non significhi: “Émilien aveva ragione, non avresti neanche dovuto mettertici insieme”.

«Ora capisco perché Émilien la odiava» commenta Jean. Si è reso conto da solo di cosa stava pensando l’amica.

«Digli di venire» decide lei, all’improvviso. Ora si sente un po’ meglio e se Émilien fosse lì insieme a loro, rallegrerebbe l’atmosfera insultando Sophie Laroche e tutta la sua genealogia.

Solo il pensiero di ridere, e di ridere di gusto insieme a lui, la scalda ancor più della cioccolata, nonostante persino sorridere sia una fatica. E dovergli celare il suo fragile stato mentale è un peso ingombrante, ma sta lottando con sé stessa per stare bene. Una lotta che non finisce mai, neanche quando torna a casa e vede i visi preoccupati dei genitori. Si sono accorti della luce nei suoi occhi, di quel bagliore che si è spento negli ultimi tempi.

No, deve riprendere in mano tutto, deve riprendersi sé stessa. Forse le notti saranno tormentate ancora lungo, ma almeno il giorno deve darle serenità.

Se questo significa dover affrontare la presenza destabilizzante e allo stesso tempo confortante del ragazzo di cui è innamorata, tanto vale buttarsi a capofitto. D’altronde, è una vita che esegue dei capofitti.

 

***

 

Alexandre la prende da parte, mentre Émilien e Léo non esitano prima di andare ai trampolini da un metro e iniziare il riscaldamento con qualche tuffo semplice.

«Voglio che ti senta sicura» le dice, con l’aria più seria che gli abbia mai visto. Si aggiusta gli occhiali sul naso spingendoli indietro con il dito, e il suo sguardo gelido ha qualcosa che ha mostrato ben poche volte. Alexandre Dumas è conosciuto da tutti per essere un allenatore molto esigente e severo ma stavolta, con lei, qualcosa è cambiato. Si è sciolto più di quanto avesse fatto in passato. «Se non fai attenzione, il rischio di farti male da lì è più alto.»

Annuisce: con tutto il lavoro fatto in palestra, si sente pronta. Nonostante non sia ancora arrivato il momento di tuffarsi dai dieci metri.

Sale su una delle piattaforme inferiori, così come Jean. L’amico arriva a quella dei cinque metri, lei si ferma a una più bassa e si sistema per provare solo gli ingressi. Quelli saranno una componente fondamentale della valutazione dei giudici, molto più che per i tuffi dal trampolino.

Non deve preoccuparsi, è solo un allenamento. Ma guarda l’acqua in basso, davanti a sé e qualcosa la blocca e le stringe un nodo in gola.

«Non sono pronta» sussurra, mantenendo lo sguardo fisso sul fondo azzurro della piscina. «Non ce la faccio.»

Aveva evitato di pensare a cosa avrebbe provato nell’eseguire i nuovi esercizi di allenamento e ora le sembra di dover correre a cento chilometri all’ora contro un muro di mattoni che non svanirà come per magia all’impatto.

«Buttati. Dritta, senza pensare» le suggerisce Jean. Deve aver saltato già ed essere risalito, per essersi accorto della sua incertezza. «Lo facciamo insieme?»

Insieme. È una parola bellissima da ascoltare, soprattutto in un momento di difficoltà. Jean sa, sa sempre, e capisce che cosa non va senza il bisogno di parole.

Ma Coco indietreggia e torna alle scalette. Si porta entrambe le mani al viso, cercando di nascondersi il più possibile a Émilien, che sta parlando con Alexandre e Caroline, l’altra allenatrice. Non vuole che la veda così.

«Ho paura» mormora, appena si accorge che Jean è accanto a lei. Unisce le mani davanti al naso, come se stesse pregando. Dentro di sé sta sperando che sia solo una brutta sensazione, che non sia reale, che sia soltanto un incubo. Le viene da piangere, ma non può farlo lì, nel bel mezzo di un allenamento, non può farlo con il rischio che Émilien, Caroline e Léo la vedano e che provino a compatirla senza neanche sapere cosa succede. Non vuole che la vedano come una persona in difficoltà, qualcuno da accudire e di cui prendersi cura perché da solo non ce la fa. Deve essere forte, deve sforzarsi di esserlo, ma è tutto così immensamente più grande di lei da sovrastarla e abbatterla da dentro.

Inspira ed espira, cerca di controllarsi, di non piegare le ginocchia e finire per terra perché il suo stesso peso sembra troppo da sostenere.

«Di’ ad Alexandre che non ce la fai e vai a cambiarti, non puoi stare così.» La voce di Jean sembra lontana, distante, come se le parlasse attraverso un vetro. Lo guarda, come se non guardasse davvero lui, ma un punto oltre il suo corpo. Si sente così fragile, così debole… Proprio come è, solo che ammetterlo anche a sé stessa è peggio del doversi tuffare. Si siede sulle scalette con la testa che le gira. No, non lo vuole, perché non torna tutto al suo posto? Perché non finisce tutto così come è iniziato? Perché è così complicato buttarsi in acqua, come se fosse un gioco? L’ha fatto centinaia di volte al termine di tanti allenamenti, e ora sembra così assurdo che nessun coefficiente ne renda la reale difficoltà.

«Coco, vai a cambiarti.» Jean le posa una mano sulla spalla. Si è accovacciato davanti al suo viso e la scruta con aria preoccupata. Non vuole che nessuno si preoccupi per lei, non vuole che pensino che sta male, ma a lui non può nascondere niente. È stato l’unico con cui si sia aperta, l’unico a sapere tutto, e ha sempre lo sguardo non solo di chi sa, ma di chi comprende il suo stato mentale, emotivo, fisico.

«Tutto bene?» Émilien li guarda dal gradino più basso delle scalette.

«No, ho…» Esita per un istante, che scusa inventarsi? «Ho un po’ di mal di stomaco e mi sta girando la testa.»

Jean le porge una mano per aiutarla a rialzarsi, così scende fino a trovarsi faccia a faccia con il ragazzo di cui è innamorata. Infila le ciabatte ai piedi e lo supera, ma lui la trattiene per il braccio. Con dolcezza, senza costringerla a voltarsi. Le sue dita sulla pelle la fanno rabbrividire, ma cerca di non pensarci. Forse Émilien neanche se n’è accorto.

«Se non ti senti bene per… Insomma, cose tue, Caroline si porta sempre dietro quello che le serve. Stanno nel borsone giallo dentro l’armadietto in palestra. Una volta l’ho aperto per sbaglio…» Sorride, come se questo potesse rincuorarla.

«Oh, be’… grazie.» Prova a sorridere, impacciata, ma i muscoli del viso non le rispondono.

«Ti accompagnerei a prenderli, ma se Caroline sa che lo so, mi ucciderebbe!» continua a scherzare lui.

Lei annuisce soltanto, prima di dargli le spalle con gli occhi gonfi. Avrebbe voluto ridere, le sarebbe tanto piaciuto, ma non se ne sente capace. Raggiunge Alexandre, in piedi per guardare il tuffo di Jean e sussurra: «Non mi sento bene».

L’allenatore le fa un cenno di assenso. «Se non te la senti di tornare a casa da sola, posso accompagnarti a fine giornata.»

«Ci pensa Jean» gli risponde in un soffio e fila verso gli spogliatoi. Solo lì, una volta rimasta sola, inizia a piangere. Perché si sente impotente, si sente in trappola, ingabbiata tra i suoi desideri, i suoi sogni e ciò che invece non riesce a realizzare. Perché tutto sembra più grande di lei, un buco nero che la inghiotte e che le impedisce di respirare, chiudendola in una morsa sempre più stretta da cui tenta invano di divincolarsi.

Non sa neanche come abbia fatto a togliere il costume e a rivestirsi, i suoi occhi non hanno visto altro che quell’ombra scura che la avvolge e che da ormai troppo non la lascia in pace.

Torna in piscina, con il cellulare in mano e la zip della tuta tirata su fino a coprirle il labbro inferiore. Si asciuga gli occhi poco prima di mostrarsi agli altri, si appoggia su una sedia come se non volesse fare rumore, come se non volesse che gli altri si accorgessero della sua presenza. Persino il suono dei suoi respiri è opprimente. Vorrebbe solo fondersi con l’ambiente e passare inosservata.

Émilien le rivolge un’occhiata interrogativa, come a chiederle se ha trovato gli assorbenti di Caroline. Almeno si è dato una spiegazione da solo, senza che dovesse inventarsene lei una…

Coco gli fa un cenno come a dirgli di sì.

Non posso stare così, voglio che finisca tutto questo.

Smette di giocherellare con il telefono tra le mani e cerca la chat con Pascal Renard.

Una volta a settimana non basta, per ora ho bisogno di più sedute” digita soltanto. Spera che le dica che non è un problema, che non devono rispettare una seduta a settimana, che quella richiesta non sia una follia.

Va bene, ho un’ora libera domani per le quindici. Riesce a esserci o vuole fare un altro giorno?” è la risposta, che arriva dopo solo due minuti.

Coco guarda il doppio e mezzo avanti di Émilien, e si morde il labbro. Sente ancora gli occhi gonfi, non vuole piangere di nuovo, ma si rende conto che non può controllarlo.

Va bene, ci sarò.”


*Angolino autrice*
Avevo sospeso gli aggiornamenti per un po' causa "stesura finale di Dtac3". Ora che il libro è in arrivo e non sono più concentrata con tutte le mie energie su quello, posso di nuovo dedicarmi agli extra. Spero che questo vi piaccia, perché Coco è uno dei miei personaggi preferiti!
Grazie per aver letto fin qui, ci rivediamo tra una settimana!
Cory.

 
   
 
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