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Autore: Adeia Di Elferas    06/12/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Guidobaldo sentiva il cuore in gola. Gli era bastato un solo sguardo per riconoscere il funzionario pontificio che controllava i salvacondotti alle porte di Montecarlo.

Era stato inevitabile, per lui e per la sua scorta ristretta passare da lì, o, almeno, così era parso loro, visto il clima inclemente e lo spettro del Valentino che sembrava inseguirli senza sosta. Eppure, ora che il rischio di essere riconosciuti era tangibile, il Montefeltro si malediceva per aver disdegnato il passaggio in mezzo ai boschi innevati in favore di una strada più percorribile.

Da quando avevano lasciato Città di Castello, lui e i pochi uomini che lo seguivano, si erano procurati salvacondotti contraffatti, con nomi di fantasia, e non avevano avuto problemi a passare da Siena, Pitigliano, Montefiore, Buonconvento e perfino Fucecchio. Era possibile che lì, a Montecarlo, nel fiorentino, la loro fuga silenziosa finisse per colpa di un funzionario troppo zelante?

L'uomo stava ancora controllando i documenti, alla luce di una torcia. Non era ancora sera, eppure il buio era totale e solo il fuoco vivo permetteva di decifrare le scritte minute di quei documenti.

Guidobaldo, che era sceso da cavallo per poter conferire meglio proprio con quel controllore, non sapeva se fosse meglio starsene zitto o provare a dire qualcosa per velocizzare la situazione. Più aspettava, più temeva che il proprio sangue freddo venisse meno.

Le occhiate che il funzionario gli lanciava di continuo erano inequivocabili: così come il Montefeltro aveva riconosciuto il borgiano, anche il borgiano aveva riconosciuto il Montefeltro.

Alla fine, come se ci avesse pensato sopra per un secolo intero, il funzionario rese i documenti a Guidobaldo e poi, con un'ultima occhiata, piena di sottintesi che il vecchio Duca d'Urbino non colse appieno, disse: “Entrate pure. Non fermatevi in città per la notte, però: voglio che prima che si chiudano le porte, siate di nuovo in cammino.”

“Dio vi benedica.” fece eco il Montefeltro, che finalmente non solo capì che quell'uomo lo stava deliberatamente aiutando, lasciandolo transitare per Montecarlo, ma anche che lo stava mettendo in guardia.

Probabilmente in città c'erano altre spie del Valentino e non era prudente farsi vedere troppo in giro, perché anche altri avrebbero potuto riconoscerlo, malgrado si fosse tagliato i capelli e si fosse lasciato crescere la barba, assomigliando sempre di più al mercante che pretendeva di fingersi.

Senza bisogno di parlare con la sua scorta, l'urbinate rimontò in sella e condusse tutti dall'altro capo della città, per uscire immediatamente dalla porta diametralmente opposta a quella da cui erano entrati.

“Viriamo per Lucca.” ordinò, appena furono relativamente lontani dalle mura cittadine: “La strada fino a là sarà tranquilla. Solo allora vireremo per Bologna. Da lì, se i Bentivoglio ci assisteranno come spero, avremo via libera per raggiungere Venezia e ricongiungerci con i nostri amici...”

 

Stringendosi nelle spalle, Lucrezia Salviati ascoltò il rintocco delle campane e strinse le labbra, pensando che la Sforza si stava facendo aspettare un po' troppo. Capiva la difficoltà di raggiungere in modo sicuro le Murate, e si rendeva conto che arrivare da Castello con quella neve non era certo un'impresa semplice, tuttavia non comprendeva come mai la Tigre, proprio calcolando tutto quel possibile ritardo, non avesse fissato un altro orario per il loro abboccamento.

Forse la Medici non sarebbe stata così impaziente se non fosse stato per la nausea che la rincorreva fin dal risveglio. Quella nuova gravidanza, che avrebbe portato a termine verosimilmente a metà luglio, si stava rivelando un po' complicata da gestire. Forse era perché dall'ultima erano passati oltre due anni, o forse era la tensione per tutte le altre questioni in sospeso...

“Vi lascio sole, allora...” la voce di Suor Elena riscosse Lucrezia dai suoi pensieri e, nel momento stesso in cui si trovò davanti Caterina, perfino la nausea divenne un problema insignificante.

“Speravo di poter incontrare direttamente vostro marito...” iniziò la Leonessa, rendendosi conto subito di essere stata poco cortese, ma senza sapere come raddrizzare il tiro.

“Come forse sapete, oggi è una giornata complicata, per Firenze... Jacopo è stato trattenuto alla Signoria per discutere alcuni affari...” ribatté la fiorentina.

“E poi, comunque, non avrei certo potuto incontrarlo qui, in un convento di suore...” sospirò Caterina, fronteggiando la Medici: “Come mai, comunque, oggi è un giorno difficile per Firenze?”

Lucrezia, che aveva deciso, di comune accordo col marito, di non avere grossi filtri per la Sforza nel corso di quell'incontro, rispose subito: “Oggi sono arrivati in città degli ambasciatori da Siena, a chiedere aiuto, perché hanno paura che il Valentino possa andare ai loro danni...”

“E Firenze come ha risposto?” chiese l'altra, nervosa, le mani che si stringevano l'una nell'altra.

“Al momento Firenze ha risposto che non possiamo fare nulla, perché...” la Medici sollevò le sopracciglia e concluse: “Perché siamo nella loro stessa situazione.”

Quelle poche parole bastarono alla Tigre per essere certa che i suoi sospetti fossero fondati e che la Repubblica, sempre di più, fosse concretamente in pericolo. Così come si era liberato di uomini che erano stati al suo fianco da sempre, come Ramiro de Lorca, così il Borja avrebbe potuto decidere da un momento all'altro di attaccare un'alleata scomoda come Firenze.

“In più, l'arresto a Roma del Vescovo di Firenze non ci fa ben sperare...” ammise Lucrezia.

“Cosa sta facendo l'ambasciatore di Firenze, per sistemare questi pasticci?” chiese allora la milanese, pronta a esporre il suo progetto di proporre Jacopo Salviati al posto di Machiavelli.

“Nulla.” rispose la fiorentina: “Continua a mandare lettere, dove giustifica, o, peggio, elogia il Valentino... E probabilmente gli sta parlando diffusamente di Firenze, svelandogli i nostri segreti difensivi...”

“Firenze ha dei segreti difensivi?” il tono della Tigre era sarcastico, ma la Medici finse di non cogliere quella sgradevole sfumatura.

Ormai aveva capito che la Leonessa di Romagna tendeva a essere graffiante – più con lei che non forse con Jacopo – perché, per qualche motivo, si sentiva a disagio nel discorrere con lei.

“Firenze non è Milano, e non è ciò che era Forlì – concesse Lucrezia – tuttavia sappiamo come combattere una guerra.”

“Forse lo sapevate, ma non mi risulta che di recente abbiate condotto grandi campagne...” si prese la libertà di dire la Sforza, ma poi, notando l'espressione dura della sua interlocutrice, si schiarì la voce e cambiò atteggiamento: “Io credo, comunque, che non sia il momento di sfidare il papa e suo figlio con le armi... Serve un ambasciatore che sappia fare il suo mestiere e non un cagnolino ammaestrato come Machiavelli.”

“Chi avete in mente?” indagò l'altra.

“Vostro marito.” rispose subito Caterina: “Lui conosce bene la politica di Firenze, e credo che sarebbe molto meno incline di Machiavelli a farsi raggirare e a farsi soggiogare con un paio di banchetti e qualche meretrice prezzolata. Se servisse, potrei anche darvi qualche informazione sul figlio del papa... Ho avuto modo di conoscerlo, purtroppo... Saprei dirvi qualcosa in più che potrebbe rendere più facile decifrarlo.”

“A Jacopo è già stato proposto quell'incarico.” rivelò allora Lucrezia: “Ma non ha ancora deciso se accettare.”

“Cosa lo trattiene? Potrebbe essere il modo più facile, per lui, di fare carriera.” la Leonessa credeva solo in parte alla sua stessa affermazione, tuttavia aveva capito che il Salviati era alla disperata ricerca di un posto al sole e quindi credeva che far leva su quella sua ambizione potesse essere una mossa corretta.

“Abbiamo figli piccoli, e poi...” istintivamente, la Medici si sfiorò il ventre e la Sforza capì.

“Siete incinta.” dedusse.

“Fare l'ambasciatore dal Borja, non è come farlo presso altre corti...” soppesò Lucrezia: “Jacopo sarebbe pronto, ma teme che potrebbe succedergli qualcosa e...”

“Se non accetterà, Firenze, per come la conoscete adesso, smetterà di esistere. Magari non subito, ma tra qualche mese o al massimo tra un anno.” la redarguì allora la milanese: “E allora, che mondo sarà per far crescere i vostri figli?”

“È la stessa cosa che ho detto a mio marito.” soffiò Lucrezia, accigliandosi.

“E allora diteglielo ancora e ancora, e fategli accettare l'incarico. Ne dipende la salvezza di tutti noi.” decretò cupa la Tigre e poi, con un gesto inatteso, allungò una mano verso il ventre della Medici e concluse: “Anche la sua.”

Lucrezia non le diede apertamente ragione, ma dal breve cenno che fece con il capo, la Tigre fu certa di aver toccato il punto giusto.

Le due donne rimasero insieme ancora qualche minuto, commentando, in modo stringato, gli altri avvenimenti recenti, senza mai infervorarsi troppo, cercando, ciascuna da parte sua, di assecondare l'altra e capire, così, quale fosse la sua impressione circa le ultime novità.

Alla fine, quando la Sforza pensò che fosse passato un tempo consono a quel genere di incontro, fece un sospiro e disse: “Fate ancora i complimenti a vostro marito, per questa nuova gravidanza. E fategli anche gli auguri per il suo prossimo incarico da ambasciatore.”

La Medici ringraziò e sussurrò, appena udibile: “Voi fate i complimenti a vostra figlia: ho saputo che presto sarà una giovane sposa... E ho anche saputo che suo figlio Pier Maria sta bene.”

Caterina, che pure si era aspettata, nel profondo, che Fortunati avesse parlato coi Salviati della reale situazione di Bianca, non poté evitare di irrigidirsi, mentre rispondeva: “Sarebbe meglio non parlarne a voce alta nemmeno in un convento, sapete? Le pareti, a volti, hanno orecchie...”

Lucrezia, che aveva citato la Riario al solo scopo di sottolineare una volta di più quanto anche lei fosse informata su ogni cosa e quindi per nulla inferiore alla Leonessa, annuì, cordiale, e concluse, con un sorriso: “Spero che ci si possa incontrare tutti quanti presto...”

“Appena il papa morirà...” commentò, ironica, la milanese.

“Attenta, Madonna Sforza, a dire certe cose in un convento – cantilenò, scherzosa, la moglie di Jacopo Salviati – anche le pareti, a volte, hanno orecchie...”

La Sforza non disse più nulla, ma si congedò con un mezzo inchino, le labbra sollevate in una sorta di sorriso, che lasciava intendere alla Medici di aver, comunque, portato a casa qualcosa di buono: se non proprio la fiducia cieca della Tigre di Forlì, almeno la sua tacita approvazione.

Caterina, lasciata la fiorentina nello studiolo della Superiora, andò subito a cercare Suor Elena, che l'avrebbe riaccompagnata fino all'ingresso, come da accordi.

“Non volete far visita a vostra nipote Cornelia?” provò a chiedere la religiosa, che aveva ricevuto pressioni da Suor Ubbidienza in tal senso.

“No, non ho tempo.” tagliò corto la Sforza: “Voglio tornare il prima possibile alla villa, o questa neve mi bloccherà qui, e non posso trattenermi.”

“Avete la vostra cella privata... Sapete che avete il permesso pontificio e quello francese per ritirarvi qui in preghiera...” provò a insistere la Superiora.

“Ho detto che non ho tempo.” ripeté, fredda, Caterina.

Non incontrando ulteriori ostacoli, la milanese raggiunse il calessino che l'avrebbe riportata a Castello. Alla guida, come sempre, c'era un uomo di fiducia di Fortunati, che era stato istruito a dovere su cosa potesse o non potesse fare, ivi compreso accompagnare la Leonessa in luoghi non approvati dal piovano.

“Voglio andare al convento d'Annalena.” ordinò la Sforza, appena fu a bordo, parlando dalla finestrella che comunicava col cassone del cocchiere.

“Non posso portarvi lì, Madonna.” si oppose subito lui.

“Ho detto che voglio andarci!” si impuntò la donna, gli occhi che le bruciavano, forse per il freddo, o, più probabilmente, per la rabbia di non poter incontrare suo figlio Giovannino ogni volta che voleva.

“Non posso, Madonna.” disse di nuovo il conducente.

“Allora portami alla chiesa di San Lorenzo.” provò a dire la Leonessa, che, pur non provando il desiderio di andare sulla tomba del suo terzo marito, pensava che quella visita l'avrebbe aiutata a sentirlo più vicino.

“Non si può, Madonna: non costringetemi a esser villano...” la implorò l'uomo.

“E perché non posso andare sulla tomba di mio marito?” chiese lei, fingendosi sorpresa: “Hanno paura che dalla chiesa io sgusci via e vada al palazzo dei Medici a strangolare mio cognato Lorenzo?”

“Io eseguo gli ordini, Madonna. Solo questo.” ribatté, mesto, l'uomo di fiducia di Fortunati.

Sconfitta, Caterina, si abbandonò contro il sedile e sbottò: “E allora portami dove accidenti ti pare, fosse anche all'inferno... Anzi, portaci il tuo piovano, il papa e tutti i francesi...”

Indulgente verso le bestemmie la Tigre stava sciorinando come una preghiera sotto voce, il conducente della piccola carrozza fece schioccare la lingua e, finalmente, le ruote iniziarono ad arrancare sul lastricato coperto di neve.

 

Cesare aveva la sgradevole sensazione di non essere rimasto fermo per oltre un giorno in nessuno dei posti in cui si era trovato. Era stato il 2 gennaio a Corinaldo, poi era passato a Gualdo Tadino, l'8 gennaio era arrivato ad Assisi, e, nel frattempo, aveva cercato senza sosta di rintracciare il fuggitivo Guidobaldo da Montefeltro.

Si era anche dovuto occupare di altri affari contingenti, come il licenziamento di Lucio Malvezzi, preteso – verosimilmente come segno di distensione – da Giovanni Bentivoglio subito dopo la strage di Senigallia.

Proprio ad Assisi, poi, aveva dovuto riordinare le truppe e rimettere in riga Giovanni da Sassatello, detto il Cagnaccio che, sempre di più, si prendeva le più varie libertà, andando a scompaginare l'esercito del Valentino.

Avrebbe voluto, dato che era nelle vicinanze, dare l'assedio a Perugia, e vendicarsi una volta per tutte almeno di Giampaolo Baglioni, ma ciò che le sue spie riferivano non gli lasciava molto margine di manovra. Sembrava, infatti, che al momento Giampaolo non fosse in città, ma che fosse scappato chissà dove accompagnato da Fabio Orsini, con cinquemila fanti, cinquecento cavalieri e un numero non precisato di balestrieri a cavallo.

Il Duca di Valentinois passava buona parte delle sue giornate, ormai, a ragionare su come attirare il Baglioni in trappola, dato che, a suo modo di vedere, restava un nemico da eliminare in fretta, prima, almeno, che trovasse appoggi validi per sferrare il primo attacco.

I suoi luogotenenti – perfino Michelotto, che pure non ne capiva nulla, di tattica e strategia – gli suggerivano di continuo di accantonare Perugia e concentrarsi sulla Toscana. Se avesse preso Firenze intanto che i fiorentini ancora cercavano di capire a che punto fosse la loro alleanza, gli dicevano, il suo regno non avrebbe trovato più alcun oppositore: Roma, Firenze, la Romagna e in futuro anche Milano e Venezia, ecco cosa sarebbe stato l'impero dei Borja.

Cesare, però, restava scettico e insisteva sul voler prima stabilizzare la situazione in centro Italia. A suo avviso, le fondamenta dovevano essere solide, altrimenti il castello sarebbe crollato subito. E poco gli importava se qualcuno l'accusava di essere un pavido... Lui era prudente, il che era tutt'altra cosa dall'essere pavido.

Quel giorno, a pranzo, il Valentino decise di accettare l'insistente richiesta di Machiavelli di mangiare qualcosa assieme. Ultimamente, essendo più nervoso del solito, aveva scansato l'ambasciatore fiorentino come poteva, ma sembrava che quell'uomo avesse qualcosa di interessante da riferirgli e, dunque, per una volta ancora l'avrebbe sopportato.

Erano a tavola ormai da oltre un'ora, però, e Niccolò non aveva ancora toccato nemmeno un argomento degno dell'attenzione del figlio del papa. Passava dal clima a commenti generici sulla cavalleria, passando per qualche apprezzamento per il cibo, ma alla fine il Valentino non gli diede altra possibilità di perdersi in chiacchiere.

Con una certa fermezza, il Duca lo guardò e gli chiese: “Avete delle novità di Firenze che potrebbero interessarmi?”

Machiavelli, che aveva il naso adunco infilato nel calice di vino, per apprezzarne ogni aroma e decantarlo poi al Borja, sollevò le sopracciglia e si rimise composto. Sembrò pensarci parecchio, e rendersi conto, in modo un po' colpevole, di aver tralasciato come non mai le notizie che arrivavano dalla sua madre patria.

Perciò, rosso in viso, scosse il capo: “Da Firenze no...” poi, intuendo l'irritazione del Valentino e temendo di venir congedato ancor prima di finire il pranzo, aggiunse: “Però ho sentito dire che Bartolomeo d'Alviano sta attraversando il perugino, probabilmente per andare a Venezia...”

Cesare sporse in fuori le labbra, ma non trovò eclatante quella rivelazione. Per fortuna sua – date le capacità dell'Alviano – quell'uomo era al soldo veneziano, ma non si stava occupando granché delle campagne italiane. Probabilmente era tornato a Perugia per affari privati e stava ritornando al nord per riprendere le sue battagliette contro i turchi...

“Dicono che con lui ci sia la moglie, Pantasilea... Sembra che il fratello di lei non si fidi ad averla accanto, in questo momento – riprese Niccolò, senza rendersi conto che quella era la parte più succulenta del suo racconto – e così l'ha affidata a Bartolomeo, sicuro che la saprà proteggere in modo eccellente...”

“Questa Pantasilea...” lo interruppe il Valentino, pensoso, ricordando di alcune storie sentite anni prima su Giampaolo: “Si tratta della stessa sorella con cui si dice che il Baglioni viva more uxorio?”

Il fiorentino fece un sorrisetto malizioso e poi annuì: “Così pare... Strano che un uomo come l'Alviano sopporti tutto ciò, non è vero? Si capisce che ha i suoi vantaggi a chiudere un occhio se...”

“Grazie, abbiamo finito.” fece, all'improvviso, Cesare, alzandosi di scatto: “Devo conferire con urgenza con i miei luogotenenti.”

Niccolò, attonito davanti a quel repentino congedo, restò con un pezzo di pane a mezz'aria, ma non poté far altro che rimetterlo giù e alzarsi a sua volta, per salutare con un profondo inchino il Duca.

Il Valentino, dal canto suo, non guardò nemmeno Machiavelli, men che meno ricambiò il saluto. Si lanciò come una freccia fino agli alloggi di Michelotto e vi si chiuse dentro.

Il Corella era in branda, mezzo assopito, intento a riprendersi da una lunga notte passata a pattugliare i dintorni di Assisi, ma come vide Cesare scattò in piedi, subito pronto a ricevere ordini.

Il Duca gli riferì brevemente dei movimenti dell'Alviano e poi concluse: “Qui bisogna fare un lavoro molto fine... Non te ne occuperai tu di persona: scegli un manipolo di uomini capaci... Se li abbiamo, magari degli spagnoli... Non voglio che colleghino subito a noi questa cosa...”

“Ma cosa c'è da fare?” si informò Miguel, che ancora non capiva.

“Dobbiamo rapire quella maledetta Pantasilea. La terrò con me, ma non voglio che sia chiaro che i colpevoli siamo noi...” spiegò Cesare, mettendo una mano sulla spalla massiccia dell'amico: “E quando Bartolomeo farà sapere a Giampaolo che quella sgualdrina è sparita proprio mentre erano vicino a Perugia, vedrai che Giampaolo tornerà. Appena sarà di nuovo in città e si metterà a cercare la sorella, sobilleremo la popolazione e i perugini faranno il lavoro sporco per noi...”

“Si tratta di un piano rischioso.” fece notare Michelotto, accigliandosi: “Dà per scontate molte cose... Potrebbe non andare tutto come hai pensato tu...”

“Oppure sì.” lo contraddisse, piccato, il Borja: “A Senigallia, in fondo, è andata come dicevo io...”

 

Tramite un messaggero fidato, Troilo De Rossi aveva fatto sapere alla Tigre che entro fine mese avrebbe firmato in favore dei Conti Scaramuccia e Catellano e dei fratelli di Giangiacomo Trivulzio, ossia Giorgio e Gian Antonio, la procura a contrarre e concludere il suo matrimonio 'con chiunque e in suo nome' e di accordarsi per la dote. L'uomo faceva capire, tra le righe, che quella mossa fosse necessaria per concludere felicemente il loro accordo, e che, malgrado la vaghezza della procura, ci avrebbe pensato il Trivulzio stesso a far sì che quel 'chiunque' coincidesse con la Riario.

Per finire, invitava Bianca a tenersi pronta, perché non appena la procura fosse stata firmata e resa nota, lei sarebbe potuta partire per Roma dove, in fondo, già si sapeva da un pezzo l'identità della sposa designata.

La giovane, ovviamente, nel sentirsi indicare una data, seppur vaga, era stata felice e per il resto della giornata era stata sorridente e allegra. Caterina, in sua presenza, non aveva fatto nulla, per guastare il suo buon umore, tuttavia, quando era stata sola, si era adombrata parecchio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto sopportare sua figlia alla corte del papa.

Non poteva credere, infatti, che i Borja si sarebbero accontentati di un po' di spettacolo la prima notte di nozze. Di certo il papa – o suo figlio, se non fosse stato troppo impegnato in guerra – si sarebbe lambiccato per trovare mille modi per metterla in difficoltà.

Era il primo pomeriggio, quando la Leonessa decise di non frapporre più indugi e scrivere una lettera che rimandava ormai da troppo tempo. A Roma, essendo il Cardinale Sansoni Riario lontano, non aveva nessuno di cui fidarsi davvero, se non Baccino. Anche se non si vedevano, né si contattavano da circa tre anni, ormai, era certa che non l'avrebbe delusa.

Alla scrivania, però, con la penna già in pugno, la donna si rese conto di non sapere come cominciare il discorso. A metterla in difficoltà non era tanto il far capire al cremonese quanto fosse importante supervisionare su Bianca con discrezione, ma proprio scegliere le parole con cui rivolgersi al giovane.

Ci pensò e ripensò e alla fine, stremata, rimise a posto la penna e lasciò la sua stanza. Era nervosa e avrebbe voluto qualcuno con cui parlarne, ma Fortunati era da escludere, dato che, per quanto fingesse che non fosse così, si faceva molto scontroso quando Caterina provava a citare qualche suo vecchio amante. Era comprensibile, da parte sua, ma per la Leonessa restava un problema.

Aveva bisogno di schiarirsi le idee e respirare, soprattutto respirare. Dalla sua ultima visita alle Murate, la Sforza aveva la persistente e sgradevolissima sensazione di avere il respiro corto e di essere ancora in trappola.

Attraversando mezza villa, senza quasi vedere i servi che incontrava, la donna andò in fretta fino all'ingresso e, proprio mentre stava per uscire e dirigersi alle spalle, sentì la voce del piovano frenarla: “Dove stai andando?”

“Da quando devo renderne conto a te?” ribatté all'istante lei, senza osare, però, andare oltre al portone.

“Lo sai che non lo faccio per controllarti, ma solo per impedirti di commettere qualche leggerezza...” disse piano lui, avvicinandosi: “Il processo si avvicina e...”

“E al diavolo anche il processo...” sbuffò lei, notando di sfuggita i due libroni che il fiorentino portava sotto al braccio: “Se non prendo un po' d'aria, impazzirò.”

“Fuori nevica.” le fece notare lui.

“Ho combattuto delle guerre, sotto la neve, credo di poter resistere a qualche fiocco...” borbottò lei, ostinata.

“Puoi uscire nel cortile interno... Sai, è fatto apposta per prendere un po' d'aria senza...” cominciò a dire lui, ma la Leonessa lo bloccò subito.

“Senza uscire di qui, come fossi una prigioniera d'alto rango.” sentenziò.

Scuotendo il capo, Francesco sbuffò e commentò, aspro: “Sei come tuo figlio...”

Non capendo subito il riferimento di quelle parole, la Sforza si accigliò e chiese: “Quale dei tanti?”

“Carlo...” rispose lui, anche se di malavoglia: “Ero con lui nella sala delle letture, per cercare di fargli entrare qualcosa in testa, ma appena mi sono distratto mi è scappato...”

“E adesso dov'è?” si informò Caterina.

“L'ho visto nel cortile interno...” riferì lui: “Credo che non sappia nemmeno lui cosa vuole fare. Gli bastava solo sottrarsi alla mia lezione.”

“Fai lezione a Galeazzo. O a Sforzino... Loro saranno di certo discenti più attenti...” propose la Tigre, mettendosi a camminare, decisa ad andare da Bernardino.

“A Galeazzo non saprei che insegnare: lui parla solo di matematica e guerra e io non eccello in nessuna delle due...” si schermì il piovano.

“Ma se ti occupi da anni dei conti di Cascina..!” ribatté la donna, senza smettere di camminare, Francesco che la seguiva a ruota.

“Sì, ma lui si interessa a una matematica molto diversa... Calcola l'angolo delle armi da lancio e il calibro dei cannoni... Non fa per me!” concluse Fortunati: “E invece Sforzino... Ah, nemmeno a lui saprei che insegnare, perché ormai di Santi e Beati ne sa più di me, per tacere della dottrina...”

“Allora vai da Bianca e chiedile di farti qualche lavoro di ricamo... Basta che non stai addosso a me, perché non ho voglia di ramanzine...” tagliò corto la milanese e, con un gesto infastidito, indusse il piovano a fermarsi e lasciarla proseguire da sola.

Quando raggiunse il cortile, la donna vide Bernardino in mezzo alla neve, rosso in viso e vestito in modo molto leggero, per il freddo che faceva. Il ragazzino prendeva a calci i fiocchi che cadevano e poi appallottolava la neve già solidificata in terra e faceva altrettanto. Il suo, però, non era un gioco, ma un modo per sfogare la rabbia e il nervosismo.

“Bernardino.” a Caterina non servì alzare la voce: nel silenzio quasi totale di quella giornata, il Feo sentì subito il suo richiamo.

Con gli occhi bassi e le labbra in fuori, il dodicenne si avvicinò e si mise ad aspettare una punizione per aver disertato le lezioni di Fortunati.

Perciò, quando la madre parlò, restò molto sorpreso dalla sua proposta: “Non ti assicuro che ci riusciremo, ma... Se stanotte faremo attenzione, potremmo uscire insieme nei boschi a cavallo, senza che nessuno se ne accorga. Ti andrebbe?”

Bernardino non era mai stato un appassionato di cavalcate, anche perché era ancora piccolo per poter gestire le bestie che lo affascinavano, quelle grandi e forti com'era stato lo stallone nero della Leonessa, però quella prospettiva lo stava rimettendo al mondo in un solo istante. Sapere di aver qualcosa di avventuroso da fare e di poterlo fare con sua madre fu sufficiente per fargli dire subito di sì.

“Te l'ho detto: potremmo non riuscirci...” sussurrò la donna, chinandosi appena per essere alla stessa altezza del figlio, che, in realtà, stava diventando un ragazzo molto alto per la sua età: “Ma faremo il possibile. Stai pronto e copriti bene, quando saranno tutti a dormire verrò a chiamarti.”

 

A Bartolomeo non piaceva quella situazione. Sapeva che, in quanto marito di Pantasilea, spettava a lui occuparsi della sua sicurezza, tuttavia avrebbe preferito poter lasciare quell'incombenza a Giampaolo Baglioni che, tanto, a detta di tutti si comportava con la sorella esattamente come un marito.

In più, quell'attraversamento del perugino si stava trasformando in una sorta di lenta processione, molto diversa dalle marce che l'Alviano era abituato a fare coi suoi soldati. A rallentare il tutto, più che Baglioni, erano i due nipoti dello stesso Bartolomeo. Purtroppo, su pressione dei veneziani e non solo, Bartolomeo aveva dovuto accogliere nel suo campo non solo i due nipoti, ma anche suo fratello Alvise e altri suoi parenti, tra cui sua cognata, moglie del fratello Giovanni, con cui non avrebbe voluto avere mai più a che fare.

Forse era infantile, da parte sua, ma l'Alviano ancora non aveva superato la sufficienza con cui suo padre l'aveva sempre trattato e con cui, di conseguenza, l'avevano trattato anche tutti gli altri. Gli Orsini erano stati gli unici a valorizzarlo e solo in seno alla loro famiglia aveva trovato l'amore della sua vita, nella persona di Bartolomea. Tutto ciò che era venuto prima e che era venuto dopo, per lui, era solo lo spettro di un purgatorio in Terra.

Quel giorno era riuscito, se non altro, a dislocare temporaneamente Alvisa a Tigliano, con la scusa di controllare che tutto fosse in ordine, mentre lui, i ragazzini, Pantasilea e il grosso della scorta erano ancora a Corvara.

Stava scendendo la sera, quando il condottiero ricevette una breve proprio dalla moglie, che gli chiedeva di raggiungerlo nella sua tenda. La donna, che pur avrebbe potuto accettare un più comodo alloggio in un palazzo, aveva preferito restare assieme al marito al campo militare, forse perché preferiva averlo vicino, o forse perché in mezzo ai soldati si sentiva più sicura, Bartolomeo non avrebbe saputo dirlo.

“Volevate vedermi?” chiese l'Alviano, estremamente formale, mentre entrava nel padiglione della moglie.

La sua lingua, che era rimasta ferita anni prima ed era guarita alla bell'e meglio, gli impediva di parlare bene, ma quando si limitava a poche parole e brevi, il risultato era accettabile.

“Potete lasciarci un momento soli?” chiese Pantasilea, rivolta alla serva che l'aiutava a curare i bambini.

Questa, con un mezzo inchino, prese i due e li portò fuori dalla tenda, probabilmente per condurli in quella attigua, che era, di fatto, un'improvvisata sala per farli giocare durante il giorno.

Bartolomeo restava in silenzio, più per non doversi sforzare di nuovo a parlare che non perché non avesse domande da porre. La moglie era per lui pressoché una sconosciuta e, salvo la prima notte di nozze, non aveva mai diviso il letto con lei, perciò trovarsi da solo in sua presenza, davanti alla sua branda, in un ambiente intimo e informale, lo metteva fortemente a disagio.

“Devo chiedervi una cosa... Una cosa importante.” sussurrò la donna, mordendosi poi il labbro e decidendosi solo all'ultimo a guardarlo in viso: “Non riconsegnatemi mai a mio fratello Giampaolo.”

Ammutolito, stavolta proprio per assenza di idee su cosa dire, il condottiero rimase immobile al suo posto e continuò a fissarla.

Pantasilea, arrossendo, si schiarì la voce e riprese: “Sapete come si comporta, sapete che l'ho sempre odiato. Portatemi via da lui. Sarò una moglie ubbidiente e discreta. Sarò disponibile e non mi negherò mai, se mi vorrete, non vi procurerò scandali o preoccupazioni...”

La Baglioni stava prendendo fiato, per riprendere l'elenco delle doti che avrebbe dimostrato come moglie, ma Bartolomeo la frenò sollevando una mano.

“Io sono sempre in guerra.” spiegò, cercando di scandire bene le sillabe: “Sareste sempre da sola, non potrei darvi la compagnia che sperate...”

“Ancora meglio!” rispose d'impeto lei senza pensarci.

Il silenzio che scese tra loro la fece pentire della propria esclamazione, ma non sapeva come rimediare a quella mancanza di rispetto che, forse, le sarebbe costata anche quell'ultima occasione di salvezza.

“In tal caso – rispose invece l'Alviano – appena mi sarò sistemato con Venezia, vedrò di chiedere a vostro fratello quanto mi spetta, ossia mia moglie.”

La donna sentiva il cuore accelerare, e, non sicura di aver capito bene, chiese: “Quindi mi porterete con voi?”

“Se la vita che posso promettervi non vi dispiace...” sollevò le spalle lui: “Io non ho problemi a mantenervi.”

Esaltata all'idea di potersi davvero affrancare dal fratello, la giovane si passò una mano sulla fronte si diede della stupida per non aver mai trovato il modo e il coraggio di chiedere al marito in modo così diretto di essere salvata.

L'Alviano, che ancora si stupiva per aver accettato tanto in fretta qualcosa che fino a poco prima gli sarebbe parsa una condanna, rimarcò: “Ma prima devo sistemare le mie questioni con Venezia...”

“Non riconsegnatemi a lui...” provò a insistere la Baglioni: “Se lo farete, non mi lascerà scappare mai più...”

“Vostro fratello è un fuggitivo, ormai, e presto potrebbe restare senza terra e senza titolo – ribatté a fatica l'uomo, ingarbugliandosi un paio di volte, ma riuscendo a farsi capire dalla moglie – mentre io ho una condotta stabile, molti soldati e un nome rispettabile: non potrà far nulla per impedirmi di riprendervi.”

Rincuorata da quella dichiarazione, Pantasilea fece un sorriso disteso e, capendo che il loro incontro sarebbe finito così, per il momento, disse: “Allora vi auguro una santa notte e vi ringrazio con tutta me stessa per la vostra bontà d'animo e il vostro amore.”

“Ma io non...” principiò a dire il condottiero, per precisare che lui, verso la moglie, non provava certo quel che si potesse definire amore, più che altro provava per lei umana pietà e comprensione...

“Vi assicuro che siete un uomo buono e pieno d'amore.” ribadì lei, senza ammettere repliche: “Fate un buon sonno. Ci vediamo domani...”

L'Alviano fece un saluto di stampo militaresco e poi, un po' confuso, lasciò il padiglione della moglie e tornò nel proprio. Fino a sera tarda continuò a ripensare a quell'incontro e alle sue implicazioni, tuttavia, quando si sistemò per la notte e si stese sul suo lettuccio da campo, il sonno lo colse subito, con una facilità e una serenità che gli fecero capire di aver preso senza dubbio la decisione giusta.

   
 
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