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Autore: drisinil    10/12/2022    2 recensioni
[kurotsuki] [nospoiler] [canonverse] [long: 2 capitoli/settimana]
«Signor è-solo-un-club sei senza parole?» lo provoca Kuroo. «Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!»
«Okay, ma solo se il brindisi mi piace» risponde Kei con arroganza, spingendosi gli occhiali sul naso.
Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»
«Se vuoi...»
Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di scostarsi dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, crea pressione e controlla il gioco.»
Kei sorride, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto.
E' il vino più buono che abbia mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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39 - Hatsumōde


[NdA Hatsumōde è la prima visita dell'anno al tempio buddista o al santuario scintoista]

1 Gennaio 2013

Nella classifica delle assurdità che Tsukishima Kei avrebbe potuto giurare che non gli sarebbero mai capitate nella vita, c'è ai primi posti una corsa in moto per le vie di Tokyo, in abiti tradizionali e con un sorriso ebete nascosto dal casco integrale.

Il livello di squilibrio mentale successivo al mettersi addosso i vestiti dello scemo per cui si è perso il raziocinio è indossare quelli di suo nonno. 

E invece eccolo lì, il giorno di capodanno, le braccia serrate intorno a Tetsurou, avvinghiato alle sue vertebre, mentre fiotti di pensieri sconclusionati gli si agitano fra lo stomaco in subbuglio e quello che una volta era un cervello affidabile. Intorno alle gambe gli svolazzano lembi di seta dei kimono awase della famiglia Kuroo. 

E' tutto folle e sopra le righe, a tratti demenziale, ma non è questo il problema.

Il problema è che si sta innamorando.

Il che è grave. Perché Kei era convinto, certissimo, di essere già innamorato da un pezzo e poter solo risalire la china. Dopo la fuga, dopo la resa, dopo aver appiccicato un'etichetta alla relazione, dopo essersi spogliato nudo e ridotto il culo a pezzi, si poteva solo migliorare.

E invece no. Si sta innamorando. Ancora di più.

Gli sembra di avere le tasche piene di sassi e continuare ad affondare. Così tanto e così in fretta da non sapere più neanche in quale direzione dovrebbe nuotare per salvarsi: ascensione e caduta si sono mischiate, aggrovigliate, confuse una nell'altra e a lui non resta che trattenere il fiato e lasciarsi trasportare dalla corrente, fino alla grande soluzione salina (sudore, lacrime, sperma e stupide metafore marine) dove vanno a finire le emozioni profonde quando non si riesce a reprimerle (né a esprimerle).

C'è poco da fare: si sta innamorando.

Anche adesso, con il freddo che si insinua fra la sciarpa e il bordo del casco, qualche foglia secca che ancora volteggia, in mezzo ai rumori del traffico, nel ventre di un'immensa metropoli pulsante, Kei sente solo il cuore che batte troppo forte nel suo nido di ossa bianche. E la schiena di Tetsurou, e quel calore che trapassa i vestiti.

Si sta innamorando. Continua a innamorarsi. A cadere.

Arriverà in fondo a un certo punto? Così innamorato che di più non è possibile? Così rimescolato da non riconoscersi, da non avere più senso? E che succederà dopo?

Quando gli mancheranno le forze per opporsi, quando le distanze disegneranno vuoti da colmare di ossessioni. Quando...

«Tutto bene lì dietro?» lo scemo si è voltato, la sua voce è flebile oltre la doppia barriera di carbonio, e tuttavia risuona chiarissima, distinta dal brusio di fondo, dai motori delle auto, dai fischi del vento. Kei non è sicuro di averla udita con le orecchie.

«Bene» risponde Kei. Lo dice piano, eppure in qualche modo, le sue parole arrivano. Lui lo sente sempre: quando sussurra, rimugina, si ostina, si perde.

Prima, hanno discusso. O forse, il verbo giusto è litigato. O una strana via di mezzo, fatta di spingere, cedere e tirare. Di incalzare e ritrarsi, come una danza, come una marea. E' successo davanti allo specchio, di fronte alle scatole di cartone dei kimono, fra sbuffi di carta velina, seta foderata e ricordi di famiglia che non gli appartengono.


****

«L' Hadajuban è biancheria intima, Tsukki, si porta senza niente sotto...»

«Puoi scordartelo, che mi levi le mutande!»

«Dici in generale, o proprio nel caso specifico? Perché se è in generale... »

Il gomito di Kei manca il bersaglio fra le costole di Tetsurou. Guardarlo ridere nel riflesso dello specchio è talmente liberatorio da fare paura.

Spiarlo mentre si denuda, con pochi gesti semplici, è un livello superiore di perdizione.

Kei abbassa lo sguardo sulle proprie ginocchia ossute, che spuntano dai calzoncini di cotone bianco: l'insieme è ridicolo e lui si sente fuori dai contorni. Fra gli effetti collaterali di Kuroo Tetsurou c'è l'allarmante facilità con cui riesce a smarginarlo.

«Dai, su, non t'incantare, apri le braccia!»

Kei si trova a eseguire meccanicamente. Quando solleva gli occhi, lo specchio gli rimanda l'immagine dello scemo che, da dietro, gli sta infilando le maniche di un nagajuban azzurro polvere. La seta fresca sulla pelle lo fa rabbrividire, ma non tanto quanto l'intimità e la naturalezza di quel gesto. Oltre a smarginarlo, Tetsurou lo tramuta, lo fa uscire dal perimetro e gli ricostruisce intorno sagome sempre nuove.

«Tiralo bene sui lati» raccomanda Tetsurou, che sta mettendo in pratica il proprio consiglio: dopo un paio di leggeri strattoni, i due lembi di seta scura del suo colletto ricadono perfettamente simmetrici.

Kei tenta di imitarlo, con scarsi risultati. «Devo proprio?» sbuffa.

«Cosa? Vestirti come si deve? Direi di sì... »

«Vestirmi così.»

«In kimono? Beh, è capodanno.»

«E quindi?»

«Come ci vuoi andare al santuario? In jeans e felpa?»

«Perché no?»

Tetsurou si arrende subito, alzando le mani. «Okay. Come ti pare. Però ora chiamiamo il nonno e glielo dici tu, che non hai voluto metterti il kimono che ha scelto per te.»

«In che senso scelto

«Nel senso che mi ha telefonato apposta per dirmi esattamente quale dovevo darti» risponde Tetsurou, mentre fruga fra la stoffa, in cerca del cellulare. Lo solleva in alto appena lo trova. «Allora? Chiamo?»

Kei alza il dito medio e intanto pensa che Kuroo Tomo, da un altro continente, si è preso il disturbo di pensare a lui, di offrirgli un kimono di famiglia, persino di sceglierne uno. E la cosa lo porta a un livello di commozione che la dice lunghissima sullo stato di isteria in cui versa da giorni.

«Vieni qui, fa' vedere: lo hai allacciato bene?» Tetsurou stringe meglio i nodi del koshihimo sui fianchi di Kei e poi gli gira intorno, per controllare la geometria delle pieghe.

Kei lo blocca per il braccio, attratto da qualcosa. «Aspetta un attimo: fammi vedere il dietro!»

Sulla schiena di Tetsurou, coperta di seta grigia, due carpe koi, una bianca e una nera, si inseguono nel ciclo perpetuo del tao. E' un disegno splendido, la stoffa cangiante crea l'illusione del movimento; l'ammirazione di Kei  buca lo specchio.

«Bello vero? L'ha dipinto mia nonna. Li ha dipinti tutti lei, negli anni.» L'orgoglio nella voce ha una nota di dolcezza e anche una di tristezza.

«Anche il mio? Cosa c'è?» dice Kei, storcendo il collo per guardarsi la schiena.

«Ashi no hotaru, lucciole nel canneto.»

«Davvero?»

Kuroo annuisce compiaciuto, Kei , incredulo, si sfila in fretta il nadajuban per guardare il retro: contro un cielo polveroso si stagliano canne lunghe e sottili, piegate da una brezza invisibile; fra le foglie si nascondono quattro lucciole scure, con la testa rossa e gialli globi di luce dorata.

«Perfetto, vero?» commenta Tetsurou, togliendoglielo con gentilezza dalle mani, per rimetterglielo addosso. «Su queste cose il nonno non si sbaglia mai.»

Su quali cose si sbaglia, Kuroo Tomo? E' capace di sbagliare?

Tetsurou passa la cintura intorno alla vita di Kei, stringendo bene. «Sei davvero magro. Dobbiamo fermarlo meglio» dice, porgendogli una korin elastica, con le clip di metallo un po' arrugginite. Ormai, si trovano in giro solo quelle di plastica.

«La sai mettere?»

Kei sbuffa di disagio, cercando invano un punto buono dove agganciare la clip.

«Vieni qui, ci penso io.»

La clip viene fissata sul risvolto interno del colletto e l'elastico, da un piccolo foro ascellare passa ben teso dietro la schiena di Kei. Si sta lasciando vestire come un bambino e, maledizione, la cosa un po' gli piace.

«Sono pregiati?» domanda, gettando uno sguardo alle scatole aperte dei kimono.

Tetsurou si stringe nelle spalle e risponde senza smettere di stringere lacci e stirare pieghe. «Mah, no, direi di no. Sono vecchi e molto usati. Diciamo che il valore affettivo supera di molto quello economico.»

«Quindi sono pregiati.»

Tetsurou si ferma e alza gli occhi in quelli di Kei. Non sorride, non parla, lo guarda soltanto. E sembra che voglia dire qualcosa, invece trasforma le parole in una carezza: breve, delicata. «Quindi ora la smetti di perdere tempo e ti vesti?» sussurra.

«Facciamo che quindi ora vai a fare in culo» sussurra Kei di rimando, con finta dolcezza. Vorrebbe essere sarcastico, ma il sorriso ebete è già lì in agguato.

Il kimono che Tetsurou gli consegna è blu, con una fodera pesante e tre kamon rotondi, al centro del colletto e sulle spalle.

«Addirittura tre kamon? Mica è un matrimonio!»

[NdA i kamon sono sigilli familiari ricamati sui kimono. Più è alto il numero di kamon, più formale è l'occasione]

«Li abbiamo tutti a tre.»

«Ma... sono diversi?» Kei avvicina la stoffa alle lenti, per guardare bene i sigilli. I due laterali rappresentano le virgole circolari del tomoe, quello al centro è a forma di reticolo.

«Strano, vero? Il nostro è il tomoe.»

«E quindi il meyui?»

«E' una lunga storia. E tu, Tsukishima-kun, sei troppo curioso» commenta Tetsurou, annodando bene l'obi sul proprio kimono nero e voltandosi, per ammirare l'effetto allo specchio. Si crogiola in quello che vede.

«Sai di essere patologicamente vanitoso, Kuroo-senpai?»

Tetsurou ghigna. «E tu lo sai che con il kitsuke fai proprio pena? Tutte quelle storie sugli haiku e lo shodou, e l'estetica nipponica e poi mi cadi sulle basi... »

[NdA kitsuke è l'arte di indossare il kimono]

«Crepa!»

«Però, cavoli se ti sta bene! Mezza Tokyo vorrà levartelo di dosso, e invece sarò solo io a farlo, stasera.» 

Kei salterebbe volentieri direttamente al programma serale. «Smetti di dire cazzate e dammi una mano con quest'affare! Sarà lungo sei metri!» brontola Kei, sbattendo la cintura sul petto di Tetsurou.

«Solo quattro. Alza le braccia, impedito!»

Kei esegue, e Tetsurou annoda rapidamente l'obi e poi lo strattona fino a portare il nodo sulla schiena. E' tutto un tirare, spostare, piegare, soprattutto toccare.

Toccare Kei, più che il kimono. Tetusrou lo tocca molto di più di quanto sarebbe necessario: gli stringe i fianchi premendo forte con le dita, tasta la stoffa cercando i rilievi delle ossa del bacino e la pienezza dei glutei sotto tre strati di vestiti. Tsukishima Kei, nella sua forma corporea e concreta, ha i connotati e i pericoli di una dipendenza.

«Da dove viene questo kimono, quindi?»

«Te l'ho detto: è una lunga storia. Era di un tizio che si chiamava Tetsurou.»

Le mani di Tetsurou improvvisamente si fermano; nell'aria cambia qualcosa, uno spiffero freddo, arrivato da chissà dove, attraversa la stanza e loro due. «...a questo proposito, Kei, c'è una cosa di cui dobbiamo parlare.»

«A quale proposito?»

«Nomi.» Il tono è indecifrabile, tutt'a un tratto serio.

Kei reagisce indurendosi, la tensione gli scolpisce la linea della mascella, gli occhi si adombrano; il volto di Tetsurou è nascosto dietro la sua schiena, invisibile allo specchio.

«Nomi? Quali nomi?»

«I nomi di famiglia, intendevo...  quello che sto cercando di dire... sempre se vogliamo discuterne ora... »

«Tetsurou: o parli o stai zitto, la via di mezzo mi fa incazzare.»

«Lo vedi? Non so mai come dirti le cose senza che t'incazzi.»

«Mi sto già incazzando. Dillo e basta.»

«Yu-chan... mia sorella...cioè, mia sorella e suo marito avrebbero pensato di chiamare il bambino... Leon.» La frase scivola fuori in un'unica espirazione, come un'ostruzione di cui liberarsi.

Kei non risponde, non muove un muscolo. Ha gli occhi puntati di lato, e in basso, su un punto del tatami un po' logoro, con una vecchia macchia che anni di lavaggi non sono riusciti a stingere.

Dalla prospettiva di Tetsurou, si vede solo la tensione dei muscoli del collo e lo sguardo obliquo, nascosto nel riflesso delle lenti.

«Non dici niente?»

«Cosa devo dire? Gli serve il mio permesso? Una benedizione? Un cazzo di applauso?»

«No, ma... »

Kei si allontana dallo specchio, non ne può più di vedersi dipinte in faccia tutte le maschere delle proprie debolezze. Si spinge in su gli occhiali, si sistema i capelli dietro la stanghetta, liscia le pieghe della stoffa con mani nervose.

«Non è una questione di permesso... » prosegue Tetsurou.

«Non è proprio una questione. E' figlio loro, possono anche dargli un nome del cazzo.»

«Non è una questione di permesso» ritenta Tetsurou, sforzandosi di mantenere il tono calmo. «E' una questione di affetto. Di rispetto.»

«Per chi?»

«Per tuo padre. Non vogliono onorare la sua memoria facendo un torto al figlio.»

Le spalle di Kei crollano in basso, le mani si stringono. E non esce neanche mezza parola. Eppure, quella posa parla. E non è un discorso che a Tetsurou piaccia udire.

«Tu sei importante, Kei. Lo sei per me, sono certo che lo fossi per tuo padre, anche loro ci tengono molto che... »

«Smettila di dire cazzate! Ma quale rispetto per me! Se avessero rispetto per me, la pianterebbero di farsi i cazzi miei e mi lascerebbero in pace. Comunque, non facciamola troppo lunga: mio padre è morto. La vita è loro, il figlio è loro, non me ne frega un cazzo che nome gli mettono.»

«A me sì!»

«Il mondo non gira intorno a te!»

Kei strattona la stoffa con dita febbrili, per strapparsi di dosso l'obi e tre strati di vestiti, e tutta quella farsa, da cui non può uscire altro che a pezzi, frantumi minuscoli impossibili da ricomporre.

Riesce a sciogliere la cintura e la scaglia via.

Ma il kimono non può toglierlo. Al posto dell'obi, le braccia di Tetsurou lo circondano, da dietro, un laccio intorno alle costole che, invece di annodare, scioglie.

«Kei: è mio nipote, è la mia famiglia. E voglio che sia anche la tua. Che è un discorso del cazzo, lo so. Perché siamo giovani, per il rapporto a distanza, perché sono un cazzone egoista, per tutti i motivi che vuoi. Ma non me ne frega niente. Il tempo passerà e diventeremo meno giovani e io forse sarò sempre scemo. Non me ne frega, Kei. Me ne frega solo che resti nella mia vita per almeno due secoli, che ti prendi tutto lo spazio. E allora vedi che è molto importante che gli vuoi bene anche tu a mio nipote...»

Kei fa forza con le braccia, per liberarsi. La voce dello scemo all'orecchio è un lento, ostinato gocciolare e scavare fessure, trasformare in sabbia bagnata il cemento delle sue certezze. Nel giro di poche sillabe e due respiri sul collo, quel cazzo di neonato lo vuole conoscere e lo vuole amare, e non sa nemmeno perché. E se non è questo un pericolo da cui fuggire...

Testurou allenta la presa all'improvviso. Ora che nulla lo trattiene, Kei non muove un passo, il tempo è fermo, gli tremano i polsi, la seta blu gli pende addosso come un cielo notturno.

«Se non sopporti che gli diano quel nome, per favore dimmelo.»

«Cioè decido io? Se non va bene a me non se ne fa niente?»

«Non lo so, ma ci tengono a saperlo. E ci tengo a saperlo io. E se serve mi ostinerò per fargli cambiare idea.»

«Perché?»

«Perché voglio che le persone che amo si amino.» E' quasi un lamento, la fronte poggiata sulla spalla di Kei.

Lui vuole. Vuole e la sua volontà è insaziabile e sfrenata, ha la forza dei moti tellurici, apre squarci di luce, abbaglia così tanto che lascia al buio i dolori, toglie loro l'ossigeno, li spegne nell'ombra.

Kei s'innamora. Ed è terrificante, oscuro, irresistibile e fatale, innamorarsi in questo modo.

«Va bene.»

«Cosa?»

«Tutto, brutto scemo. Soprattutto il fatto che sei un cazzone egoista.»

«Anche i due secoli?»

«Vedremo.»

«Anche Leo-chan?»

Kei sospira e pensa che dovrebbe prendersi tempo, pesare le parole, ripetersi nella mente quel nome, definire cosa prova. Purtroppo, il tizio lucido, analitico e affidabile è sparito nel nulla. E' rimasto solo il coglione che non sa fare altro che cadere e innamorarsi.

«Anche Leo-chan. Speriamo prenda tutto dal padre.»

****


Tsukishima Kei ha sempre odiato le imposizioni, i sentimentalismi, le feste comandate, gli abiti scomodi. Detesta le banalità, le scelte scontate, i luoghi comuni mascherati da pensieri profondi. Non sopporta i luoghi affollati, i sorrisi facili, gli entusiasmi ingiustificati. Tsukishima Kei odia tutte queste cose e moltissime altre, ma ama Kuroo Tetsurou.

E il fatto di trovarsi lì, in kimono, in mezzo al caos di Akasaka, sulla gradinata posteriore di Hie-jinja il primo dell'anno è la prova materiale del fatto che l'amore per una persona sola ha superato l'odio per il resto del mondo. Del resto, il confronto è impari.

Kei tace imbronciato mentre tutto questo gli passa in mente e intanto, di fronte a lui, Bokuto sta trascinando Kuroo su per le scale del santuario, a ritmo sostenuto. Gli ha passato un braccio intorno alle spalle e lo sta stritolando con gioia. Gli parla all'orecchio e tutto il dialogo è un contrappunto di smorfie, spinte, cazzotti nei fianchi, persino testate.

Bokuto Koutaro e il kimono sono chiaramente incompatibili. Il verde gli dona, in realtà, diverse gradazioni fra il color palude e un cinabro intenso. Però la sua energia non può essere contenuta e straripa dalle cuciture, dai nodi, dai gesti eccessivi. 

I capelli puntano in alto come il suo morale, i movimenti ignorano l'ingombro degli abiti ed esplodono di vita, mostrando pieghe, spaccature, lembi di stoffa, persino le braccia nude sotto le maniche.

Akaashi, al contrario, sembra uscito da una miniatura meiji: il suo kitsuke è perfetto, così come la sua condotta, sempre pronta a prendere forma dal contesto e dal momento. Un maestro di mimesi, guidato da un infallibile senso dell'opportunità e un'efficacissima combinazione di diversi tipi di intelligenza.

Mimesi anche emotiva, pensa Kei, osservandolo di sottecchi.

Il kimono ad Akaashi dona molto, ma mai quanto allo scemo, che, letteralmente, fa voltare i passanti. Se dessero a Kei 5 yen per ognuno che lo segue con lo sguardo dopo averlo incrociato e 10 per ogni sussurro e risatina femminile, arriverebbe ricco in cima alla gradinata. La gelosia è un maglione irsuto di lana grossa, portato a nudo sui sentimenti esposti.

Kei e Keiji salgono le scale con calma, dietro gli altri due, pensando entrambi che questo che stanno condividendo, questo procedere affiancati, passando sotto i tori dipinti di rosso, sia la metafora di qualcosa di importante, che li accomuna. E forse è meglio non sapere esattamente cosa. Così entrano nel nuovo anno insieme, in sintonia, senza fretta. Non parlano, ed è un silenzio lieve, consapevole e riposante. Non lo sanno ancora, ma resterà una delle cifre della loro lunghissima amicizia.

Poi Keiji si schiarisce la voce, inclina la testa e solleva le sopracciglia; non ha bisogno di domandare.

Kei sorride; un sorrisetto sardonico, che non riesce a coprire tutta la luce che gli staziona ancora negli occhi, dietro le lenti.

Anche Keiji sorride, e distoglie lo sguardo, per discrezione. «Kuroo-san sta facendo un ottimo lavoro, per i senta» commenta, accarezzando con la mano i kanji incisi in uno dei tori.

«Quando vuole è meno cretino di quello che sembra.»

«E' sempre stato interessante.»

Kei scocca un'occhiata verso l'alto. Interessante è un aggettivo tragicamente riduttivo per uno che gioca a cambiare le vite degli altri.

Keiji stira le labbra in un moto di condiscendenza. «E' il tipo di persona determinata i cui risultati dipendono dalla motivazione. E in questo caso qualcuno è riuscito a motivarlo.»

L'orgoglio appoggia sul viso di Kei una vecchia maschera di arroganza, alla quale Keiji non abbocca neanche per un attimo; anzi, la trapassa senza fatica con lo sguardo.

«Che dici, può farcela?» il tono di Kei ha abbandonato di colpo tutta la sicurezza.

«A dire il vero, pensavo di no, quando me l'hai detto la prima volta. E invece, sinceramente, ora credo che, se se la gioca bene, abbia qualche possibilità. E' ingombrante, resta impresso, che è il genere di cosa che a un colloquio ti aiuta.»

Ingombrante lo è di certo. Impresso, invece, non è la parola giusta. Le impressioni sbiadiscono col tempo e non superano la superficie. Tetsurou ti apre e ti arriva dentro senza preavviso, marchia il territorio, scava solchi, semina, si insedia. Corpo o anima, per lui non fa differenza.

Kei si aggiusta gli occhiali sul naso e nasconde il mento nella sciarpa. «Ti ringrazio Akaashi-senpai» dice, formale quanto basta per farsi prendere sul serio. «Di tutto quello che stai facendo per...» La pausa è molto lunga, ma poi il pronome viene fuori rotondo, definito, denso: «... noi.»

«Noi.» Akaashi ripete la parola e sottolinea il non detto con un'espressione allusiva.

Kei risponde con una leggera spallata.

«Sei felice?» domanda Akaashi, scoccando un'occhiata ai due che li precedono.

Kei se lo domanda onestamente. E' felice? Era felice stanotte? Stamattina? E dieci minuti fa in sella alla moto? Gli viene il dubbio di non sapere affatto cosa sia la felicità, né cosa dovrebbe essere. Quello che sa è che Kuroo Tetsurou, senza il minimo sforzo, gli ha rimodellato la vita sulla sua forma. E non è che sia qualcosa di cui essere o meno felici. E' così e basta, bisogna prenderne atto e conviverci, magari senza farsi spazzare via.

«Non lo so. Forse. E tu, Akaashi-senpai?»

«Sai che non lo sono.»

«E conti di farci qualcosa?»

Keiji scuote il capo, le mani nascoste nelle maniche. «Domanda di biologia elementare, Tsukishima-kun: cosa fa un organismo aerobico in carenza di ossigeno?»

Kei aggrotta le sopracciglia. «Cerca di rallentare il metabolismo e razionare l'aria?»

«Esatto. Affannarsi a respirare tutto e poi morire è la scelta più stupida. Deve bastarmi quello che ho, non posso essere avido. Non a tre mesi dai diplomi.»

«Akaashi-senpai, perdonami, ma è un discorso del cazzo. Non sei un organismo aerobico, sei una persona. Una persona complicata. Dovresti semplificarti la vita, non incasinartela: diglielo e basta.»

«Come hai fatto tu? Deciso, disinvolto e intraprendente?»

«Sono stato un coglione.»

«Un coglione molto fortunato. Credi sia così facile per tutti? Ti facevo più realista: il mondo è pieno di gente a cui piace essere normale. La normalità è confortante, facile, se ci pensi bene, è persino giusta.»

«La normalità è sopravvalutata. Forse neanche esiste.»

Kei lo dice, e lo pensa, ma in fondo al cuore sente agitarsi i tentacoli di una paura nuova: quella di stare portando via qualcosa a Tetsurou. Opportunità, sicurezze, approvazione, consenso sociale. Una vita più semplice.

La mano di Keiji scatta fulminea in uno scapaccione sul collo.

«Ahia!»

«Stai pensando cose idiote.»

«Leggi nel pensiero?»

«No. Ma conosco il meccanismo. Quello che ho detto non vale per te, mi sembra ovvio.E comunque, si vede a occhio.»

«Cosa?»

«Tu e Kuroo-san. Si vede che è cambiato qualcosa.»

«Non dire cazzate.»

«Non dico mai cazzate. Fidati: si vede. E' come... una corrente sotterranea. Qualcosa fra voi due che prima non c'era e adesso sì. Tipo... come ti guarda...»

«Come mi guarda?»

«Come se dovesse impararti a memoria. E anche... come se il resto del mondo non ti meritasse.»

«Ma che idiozie! Quando mi avrebbe guardato così?»

«Adesso, per esempio.»

Kei alza lo sguardo e incontra gli occhi di Tetsurou, che lo osservano dall'alto. Uno sguardo innamorato, soddisfatto e anche un po' possessivo.

Kei non lo sa, ma Tetsurou, mentre lo guarda, si sente carico, elettrico, invincibile. Gli trema il cuore dalla meraviglia e dal desiderio,  la lingua è ancora impastata dei sapori dolci e forti di stanotte. Tetsurou guarda Kei e impreca di gioia in silenzio. Lo guarda e assapora il dolore di lasciarlo partire domani. Lo guarda e si cuce addosso i suoi contorni, scatta foto mentali di tutti i suoi sguardi, dei movimenti e delle pieghe del kimono che li seguono, eleganti e docili.

Intanto Bokuto continua imperterrito a parlargli, gli tira le maniche, gli rifila amichevoli cazzotti sul costato, lo costringe a voltarsi e pretende attenzione.

«Che si staranno dicendo?» domanda Kei.

Keiji sorride di sbieco e gonfia le guance: «Oya Kuro! Lo sai che hai la faccia da pesce lesso? Allora? Eh? Mi dici com'è andata?» esclama, imitando alla perfezione le cadenze di voce sincopate e la pronuncia gutturale di Bokuto.

«Che vuoi sapere, gufo impiccione?» chiede, passando all'intonazione spavalda di Tetsurou, alla sua voce profonda e mutevole.

«Tutto! Lo avete fatto? Quante volte? Com'è stato? Difficile? Meglio o peggio delle ragazze? Non è stato un sacco strano? Cioè, tipo, se ce l'ha più grosso di te, magari ti viene il complesso... ti si ammoscia... Stai arrossendo? Ti si è ammosciato?»

«Oya Bo! Che cazzo dici? Non mi si ammoscia mai! Mai, capito?»

Kei scoppia a ridere. Forte, davanti a tutti. Un cretino in kimono che ride a crepapelle in mezzo alla scalinata di un tempio. Come se avesse davvero i sedici anni che ha.

Anche Keiji sta ridendo, di sé stesso, dei suoi casini, della tortura che si infligge. E anche del bisogno inedito, improvviso, irrefrenabile, di parlarne con uno che conosce da pochi mesi.

Tetsurou e Koutarou li sentono ridere e si voltano perplessi a guardarli dalla cima della salita, sotto l'ultimo tori. Ed è come se li vedessero per la prima volta.

***

Le spalle spioventi di Bokuto e la sua aria afflitta dicono molto di più delle parole mangiucchiate che sta borbottando.

Grande maledizione proclama il suo omikuji. E poi specifica che si tratta di delusioni di "affari e lavoro".

Seduto sul muretto di pietra, Bokuto si guarda i piedi che dondolano, fra un sospirone e l'altro.

«Hai capito perché non li volevo prendere?» sta recriminando a bassa voce Akaashi con Kuroo, che ride come una iena impazzita, senza riuscire a fermarsi.

«Bo! Grande maledizione! Ti verrà il cagotto a tutti i provini della prima divisione!»

Kei si sforza di mantenersi impassibile, ma viene da ridere anche a lui.

Keiji li ucciderebbe volentieri entrambi.

«Bokuto-san, davvero credi ancora agli omikuji alla tua età?» interviene Kei, con il suo tono più irritante.

Bokuto scuote il capo, ma continua a guardare in basso e mordersi le labbra. Le maniche del kimono gli pendono flosce dai polsi.

«Eddai Bo! Fanculo gli oracoli!» lo conforta Tetsurou con una pacca così forte da spostarlo.

«Allora butta via il tuo!» lo sfida Bokuto, mugugnando.

«Non ci penso proprio: media benedizione, successi nello studio» gongola, mostrando il foglietto. Bokuto cerca di afferrarlo, ma Kuroo è più svelto e se lo infila in tasca.

Kei accartoccia il suo e lo infila in mano a Bokuto. «Puoi avere il mio.»

«Piccola benedizione, fortuna per una nascita?» legge Bokuto. Per un attimo ha l'espressione confusa. «Tsukki, guarda, fra le cose che proprio sono impossibili è che tu... »

Kei allarga gli occhi inorridito e si riprende il foglietto, Kuroo ride ancora più forte.

«E tu Akaashi?» chiede Bokuto, ancora depresso.

Keiji mostra il foglietto ancora ben piegato. «Non l'ho aperto e non lo voglio aprire. Bokuto-san, sai cosa penso: il destino è nelle nostre mani, nelle scelte che facciamo. Non sta scritto sui foglietti, non si compra con tre monete.»

Bokuto annuisce a labbra serrate, ma si vede che è ancora depresso. Nella sua mente, nella culla di affetto caldo in cui è cresciuto e vive, la felicità è quasi dovuta e le maledizioni fanno paura.

«Sai cosa penso io, gufaccio?» interviene Tetsurou, sedendosi accanto a Bokuto.

«Cosa?»

«Che l'omikuji andiamo a legarlo a un albero e questa maledizione la lasciamo qui. E poi quello che conta davvero sono le preghiere. Quelle valgono molto più degli oracoli. Vero Akaashi?»

«Vero.» conferma Keiji e si siede anche lui vicino a Bokuto, dall'altro lato.

Kei crede agli dei quanto crede agli oracoli e alle previsioni del tempo: zero. Eppure poco prima, di fronte al chouzuya, mentre Tetsurou gli versava acqua fredda sulle mani con il mestolo, e dopo, in fila per arrivare di fronte alla campana, Kei ha sentito qualcosa. Qualcosa di potente e dolce, ineffabile, impossibile da catturare, come un respiro che attraversava la folla e poi si alzava, sciogliendosi nell'aria gelida. Qualcosa di cui sentirsi parte per un attimo, anche senza volerlo, anche senza crederci.

«Perché non scriviamo un ema?» Si ascolta dall'esterno, mentre formula questa proposta assurda, che però trova un consenso entusiasta, e già lo sguardo di Bokuto si sta rialzando di qualche centimetro.

E' Kei a comprare le tavolette di legno per tutti, al banchetto affollato. Costano pochi yen e sembra non possano esimersi dall'essere decorate in modo terribilmente pacchiano. Gli dei, se esistono, hanno un pessimo gusto.

Qualche minuto dopo, tutti e quattro stanno scrivendo, ciascuno curvo sulla propria tavoletta, con i pennarelli usciti per magia dal kinchaku di Keiji (una borsa minuscola, intonata al kimono, con la proprietà di estendersi al suo interno in molte più di tre dimensioni, su topologie sconosciute).

Agganciano gli ema in quattro punti diversi del gigantesco espositore, i loro desideri sussurrati al cielo in mezzo a quelli di tutti gli altri, confusi in un'unica voce assordante, perfino molesta, nel caso i superni abbiano debole l'udito, o la volontà.

«Che ci hai scritto sulla tua, Kuro?» domanda allegro Bokuto, divorando uno spiedino di takoyaki. «Caffo, quanto scotta!» grugnisce, cercando di inspirare aria fredda dai lati della bocca. Akaashi subito gli porge una bottiglietta d'acqua già stappata.

Tetsurou ha il palato d'amianto e si ingozza indisturbato. «Sei un gufaccio indiscreto. Dimmi prima tu che ci hai scritto!»

Bokuto sta ancora bevendo. «Ho chiesto che... »

«Non devi mica dirglielo per forza, Bokuto-san» interviene Akaashi. «I tuoi desideri riguardano solo te e gli dei, non Kuroo-san.»

Bokuto annuisce, infilandosi in bocca un altro takoyaki e facendo smorfie a Kuroo mentre mastica. Ha già due macchie d'unto sull'haori, che hanno notato tutti tranne lui.

«Allora indoviniamo! Vai, Tsukki, inizia tu: cosa ha chiesto agli dei il gufaccio?»

«Vincere i nazionali?» azzarda Kei, soffiando sul suo spiedino.

«Naaa! Troppo poco. Questo qui» obietta Kuroo, mettendo un braccio intorno alle spalle di Bokuto «è uno che desidera in grande!»

Bokuto sorride, come fosse un grandissimo complimento. Anche Akaashi sorride; di cosa lo sa solo lui.

«Le olimpiadi?» ritenta Kei.

Kuroo scuote la testa con convinzione. «Per me sono gli Schweiden Adlers.»

Kei storce la bocca, fra le squadre della prima divisione gli adlers sono quelli che gli stanno più antipatici.

Bokuto intanto ha inghiottito il boccone tutto insieme e sta ingollando acqua.

Il sorriso di Tetsurou si allarga a quella reazione. «Ci ho preso, eh?»

«Secondo me no» commenta tranquillo Keiji.

«Beh...» Bokuto si gratta la nuca, con un gran fruscio di seta. «A dire il vero stavo per scrivere proprio quello. Poi però...» guarda per aria e sorride a un gruppetto di uccellini appollaiati su un ramo basso. «Poi però ho pensato che fosse un desiderio molto egoista. E anche che... beh, sì, c'era qualcos'altro che desideravo di più.»

«Cosa?» domanda Kuroo, la cui invadenza è ammantata di sincero interesse.

Bokuto arrossisce leggermente. «Che rimaniamo sempre amici. Noi quattro. Come oggi, che per me è l'hatsumode migliore di sempre.»

Parla con tranquillità, con uno di quei sorrisi che gli partono da dentro e si estendono a tutti i lineamenti e poi oltre il viso, fino all'aria che ha intorno. Per questo sono irresistibilmente contagiosi. Perfino Kei sorride; anche per lui è l'hatsumode migliore di sempre.

L'appropriata reazione di Tetsurou è saltare sulla schiena del capitano del Fukurodani e subissarlo di cazzotti bonari e prese in giro. Si scambiano anche qualche parola sottovoce.

«Ho scritto anche un'altra cosa» dichiara Bokuto, rivolto ad Akaashi, cercando di scrollarsi di dosso Kuroo.

«Cosa?» il sorriso di Akaashi è velato di una tristezza sottile che sembra compostezza.

«E' un segreto» risponde, misterioso. E gli sorride: le stelle crepitano nei suoi occhi e si accendono delle parole che ha inciso nel legno con la forza del suo desiderio. Che si avvererà.

Anche il desiderio di Akaashi si avvererà ma, come per tutte le cose che lo riguardano, sarà più una conquista che un merito. Ci vorrà tempo, fatica, volontà, determinazione. Del resto, si porta sulle spalle un destino lungo molte vite e che, finalmente, si scioglierà in questa. O almeno, questo fu ciò che vide l'astrologo interpellato per la sua nascita. Lo vide e lo tenne per sé;  ai clienti paganti disse, come sempre, esattamente ciò che volevano sentire.

Il desiderio di Tetsurou riguarda l'amore. E' grandioso e appassionato, ma non si avvererà. Perché la realtà sarà molto più prepotente, irrequieta e imprevedibile di quanto sia in grado di immaginarla adesso che ha diciott'anni, gli ormoni impazziti e troppo sole addosso. Non lo sa, ma il tempo di una sola esistenza per amare non gli basterà.

Quando si salutano in fondo alla discesa, è già il tramonto. Akaashi e Bokuto se ne vanno verso la fermata della metro, Kei e Tetsurou restano a guardarli allontanarsi.

«Secondo te Bokuto-san se ne rende conto?» domanda Kei sottovoce.

«Che Akaashi è più di un amico?»

«Che così gli fa del male.»

«No, non credo. Non credo che se ne renda conto. E non credo neanche che gli stia facendo del male.»

Kei scuote la testa in un moto di disapprovazione.

«Akaashi-kun è complicato e sicuramente non indifeso» continua Tetsurou, pensieroso. «Bo è semplice, sincero, perfino fragile. Il male Akaashi se lo fa da solo.»

Kei si stringe nelle spalle, la sua voce è seria. «Non siamo in un film americano, i semplici e gli indifesi non sono per forza i buoni. Qualche volta, l'ingenuità ferisce, proprio perché è priva di calcolo.»

Tetsurou lo guarda in silenzio, rapito dal gioco di luci e di ombre che i lampioni gli proiettano sul viso, da come gli cade addosso il kimono, dalla piega preoccupata delle labbra. Pensa che sia meraviglioso. E lo colpisce l'idea che sia unico. E che il modo in cui guarda le cose e il mondo abbia una dimensione di profondità sconosciuta a chiunque altro. L'ammirazione scivola nell'amore con una facilità sorprendente. «E quindi fra noi due chi è il buono?» domanda, sedendosi sul muretto di fianco al primo tori.

«Io, ovviamente» risponde Kei rassegnato. «Non eravamo d'accordo che tu sei un cazzone egoista?»

Tetsurou ride e il mondo gli appartiene.

Kei gli siede accanto. Così vicino che i loro kimono si accarezzano. Così vicino che le mani si sfiorano sulla pietra ruvida. Così vicino che sembra di poter ascoltare i pensieri dell'altro. Così vicino che il cuore accelera e si accende, e visto che ormai è calato il buio, forse anche le lucciole sulla sua schiena stanno brillando.

Sull'ema di Kei, che dondola al vento, è scritto soltanto: Arigato gozaimasu.

 

   
 
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