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Autore: Adeia Di Elferas    12/12/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bartolomeo ci mise qualche secondo prima di capire che le grida che sentiva non facevano parte dei suoi soliti incubi. Aprendo gli occhi e scoprendo che c'era ancora buio, l'uomo tese l'orecchio e si rese subito conto che la situazione doveva essere seria, anche se non gli quadrava il tipo di urla che sentiva via via avvicinarsi alla sua tenda.

In caso di attacco o, comunque, di un pericolo bellico, sarebbero stati i suoi soldati a dare l'allarme... Quelle che sentiva, invece, erano voci di donna e, tra suoni disarticolati e pianti, era davvero difficile capire cosa stessero dicendo.

Alzandosi in fretta e andando all'ingresso del proprio padiglione, l'uomo quasi si scontrò con coloro che lo stavano andando a svegliare.

Quella che l'Alviano riconobbe all'istante come la balia che curava i suoi due nipoti, gli si aggrappò alle braccia e, distrutta dalle lacrime, si accasciò appena, singhiozzando: “Madonna Pantasilea...”

“Cosa?” chiese lui, allerta e confuso.

“Madonna Pantasilea...” ripeté un'altra delle donne che lo circondavano.

“Cosa!” sbottò lui, con violenza.

“Madonna Pantasilea è stata rapita!” rivelò una terza, gettandosi in terra: “L'hanno portata via a viva forza!”

“Anche i nipoti! Hanno preso tutti e tre!” pianse disperata un'altra delle donne.

“Sono stati rapiti! Che tragedia! Sono stati rapiti!” ripeté la prima che aveva avuto il coraggio di riportare i fatti al condottiero.

“Da chi?” chiese Bartolomeo, sconcertato da quella notizia.

Le donne non seppero rispondere, ma un paio di loro sostennero a gran voce che si trattava di soldati, ed erano spagnoli, forse, o almeno così a loro pareva aver intuito, da quelle poche parole che avevano detto.

Mentre l'uomo ancora cercava di districarsi nel racconto frammentario che gli stavano riportante, un paio di guardie arrivarono di corsa, per far sapere che anche suo fratello Bernardino, che era un abate, era stato rapito.

“L'hanno preso in quattro – spiegò uno dei soldati – e l'hanno accusato di aver tramato contro il papa assieme agli Orsini...”

L'Alviano, che già aveva pensato che, malgrado i rapitori fossero stati indicati come spagnoli, il mandante potesse essere il Valentino, nel sentire quelle parole fece una smorfia tremenda e digrignò i denti.

Ci mise qualche istante, prima di tornare padrone della propria mandibola, e, ancor di più, per riuscire a non mordersi la lingua, che correva per conto suo tra le labbra: “Il mio scrivano.” ordinò, perentorio: “Devo scrivere a mio cognato.”

Chiese ai suoi luogotenenti di controllare che non vi fossero stati altri rapimenti al campo e che tutto fosse in ordine. Diede anche disposizione che una pattuglia controllasse attorno al perimetro da loro occupato, ma era certo che non avrebbero trovato nessuno, perché i rapitori dovevano essere molto esperti e ben istruiti.

Tornato nella propria tenda, ancora stordito, Bartolomeo si dispose ad attendere il suo scrivano. Pur tentato di scrivere di suo pugno la richiesta a Giampaolo, alla fine aveva pensato che dare al suo messaggio un tocco più formale avrebbe convinto il cognato ad adoperarsi di più per salvare la sorella.

Bernardino, per l'Alviano, era poco più che un comune abate, quindi non si sarebbe scaldato più di tanto per salvarlo. Dubitava che si fosse immischiato con gli affari degli Orsini... Avrebbe condotto qualche ricerca. Se davvero suo fratello aveva appoggiato i suoi vecchi parenti, allora Bartolomeo avrebbe fatto qualcosa per sottrarlo ai Borja, ma era più probabile che Cesare l'avesse fatto prendere nella speranza di attirarlo in trappola con qualche stratagemma, magari con la promesso di uno scambio di prigionieri o chissà che altro...

I suoi nipoti erano stati chiaramente portati via per poter ricattare in qualche modo Alvise... O magari Bartolomeo stesso: in effetti potevano interessare a più di una persona, il Borja era stato scaltro.

Pantasilea, invece, era stata di certo rapita per far infuriare e disperare il Baglioni. Tutta Italia sapeva – proprio per colpa delle ostentazioni dello stesso Giampaolo – quanto la sorella fosse importante per il Baglioni... Quindi, anche quella volta, quella povera donna avrebbe sofferto solo ed esclusivamente per colpa del fratello.

Mentre si chiedeva cosa potesse fare per aiutarla, dato che, in fondo, le aveva da poco teso una mano e si sentiva in colpa a disinteressarsene, l'Alviano vide arrivare lo scrivano e gli indicò subito il tavolino da campo.

“Messaggio urgente per mio cognato.” disse e, mentre aspettava che il giovane scrivesse l'intestazione in modo più elegante di come l'aveva espressa lui, Bartolomeo si trovò a pensare con rammarico al momento in cui lui e sua moglie Bartolomea erano stati a un passo dall'uccidere i due virgulti più robusti dei Borja.

Juan era stato poi ucciso dal suo stesso sangue, ma Cesare... Ah, se solo non fosse sfuggito quando erano stati a un passo dall'ucciderlo, molti anni prima, chissà quante cose sarebbero state diverse...

L'uomo dettò, stringatamente, la missiva per il cognato e poi, colto da un moto di pietà, diede ordine che venisse presa una pagina nuova e dettò in fretta un ordine perentorio per suo fratello Alvise. Gli ordinava di inviare seduta stante un oratore veneziano al Valentino, intimandogli di rilasciare la povera Pantasilea.

Lo scrivano, concluso il messaggio, guardò un po' il suo signore, ma non osò chiedergli come mai non avanzasse lui stesso quella richiesta a uno dei tanti oratori veneziani con cui era in contatto. Gli bastava vedere gli occhi cupi e pieni di rabbia di Bartolomeo per capire che quella richiesta di intercessione fosse solo un modo per evitarsi errori legati alla furia e, proprio per quello, non lo condannò, anzi, ne lodò intimamente la decisione.

“Falli partire subito.” concluse l'Alviano.

Lo scrivano fece un breve inchino e poi, veloce come un fulmine, sigillò i messaggi e lasciò il padiglione, sparendo nel buio della notte che avvolgeva ancora il campo militare.

 

Come aveva promesso, a notte fatta, quando la villa intera dormiva, Caterina era andata alla stanza di Bernardino e, bussando in modo appena udibile, l'aveva chiamato.

Il ragazzino aveva ascoltato le sue raccomandazioni e si era vestito di tutto punto, prontissimo per affrontare il freddo e le intemperie. Attento e ligio come un soldato, il Feo non aveva aperto bocca, dato che la madre gli aveva fatto segno di stare in silenzio e poi, felpato come un fantasma, l'aveva seguita fino al portone.

Erano usciti senza che nessuno, all'apparenza, se ne accorgesse. Nevischiava e i loro passi sulla neve croccante facevano rumore, ma il vento che fischiava copriva del tutto i loro spostamenti.

Raggiungere la stalla parve, a Bernardino, già un'avventura di per sé. Il biancore che li circondava rifletteva la scarsa luce della notte, permettendo loro di muoversi senza troppi problemi. La villa che si stavano lasciando alle spalle incombeva su di loro come un'ombra nefasta, ma più si allontanavano, meno spaventava il ragazzino.

In confronto a fuori, nelle stalle si poteva dire che facesse caldo. C'erano accesi solo un paio di lumi e, nel momento stesso in cui la Tigre e il figlio entrarono, una delle due fiammelle si mosse in fretta verso di loro.

Lo stalliere, poco più che un ragazzo, li guardò per un lungo istante e poi, fissando la Sforza con sguardo supplichevole, mormorò: “Madonna, vi prego... Io sono pronto a mentire per voi, ma se il piovano o il De Marzi lo viene a sapere, io...”

“Non lo saprà nessuno, se non lo dirai a nessuno.” tagliò corto la Leonessa, andando già verso il cavallo che le pareva più adatto per la passeggiata che aveva intenzione di fare.

Non aveva avuto modo di comprare da sé nessuna delle bestie che ospitava nella stalla, tanto meno i cani che aveva nei serragli o le galline del pollaio. Erano stati tutti regali, sia di sue vecchie conoscenze, sia, a volte, di ammiratori sconosciuti. Benché in parte tutti quegli animali fossero in parte una spesa, Caterina sapeva anche che, sul lungo periodo, avrebbero potuto rappresentare una piccola ricchezza...

“Mia signora, vi prego... Se succede qualcosa a voi a al piccolo...” provò a dire ancora lo stalliere.

“Credi che non sia capace di cavalcare nella neve?” lo attaccò lei, andando subito al piccolo deposito in cui tenevano le selle e le briglie, senza guardarlo più: “Sai quello che ho fatto io, in sella a un cavallo? Ho fatto guerre e ho attraversato da sola i passi di montagna, per venire a Firenze, partendo da Forlì... A cavallo sono arrivata da Milano fino a Roma... A cavallo, incinta, quasi al termine della gravidanza, ho preso Castel Sant'Angelo e messo sotto scacco un conclave...”

Mentre la donna elencava tutte le sue imprese, recuperando intanto i finimenti per il cavallo, il ragazzo stringeva le mani al petto, ancora preoccupatissimo, mentre Bernardino ascoltava rapito, immaginandosi la madre mentre compiva tutte quelle imprese leggendarie.

“Quindi – concluse la donna, iniziando a sistemare la sella alla cavalla che aveva scelto per lei e per il figlio – credimi se ti dico che posso fare una passeggiata sotto la neve... Saremo indietro prima che tu te ne accorga.”

“E se qualcuno venisse a cercarvi..?” chiese lo stalliere, quasi senza fiato.

“In tal caso, dirai che sei stato costretto a lasciarmi andare perché ti ho minacciato di morte e che ti ho puntato un coltello alla gola. Ti crederanno, perché è una cosa che sarei capace di fare...” rise lei, dando una carezza al grosso collo della bestia e poi facendo cenno a Bernardino di avvicinarsi.

La milanese aiutò il figlio a montare e poi, con un movimento meno agile di quanto avrebbe voluto, salì a sua volta in groppa alla cavalla, stando alle spalle del Feo, e da lui si fece dare le redini.

“Mi raccomando.” ripeté allo stalliere, mentre faceva avanzare l'animale, dalle cui froge si sollevavano spesse colonnine di vapore: “Ti sarò grata, se mi aiuterai. In caso contrario, capirai perché mi chiamavano la Leonessa di Romagna.”

Il giovane non sapeva come ribattere a quella che suonava come una minaccia in piena regola, perciò si limitò a guardare madre e figlio lasciare la stalla a passo lento e, tutto sommato, silenzioso.

Caterina non aveva in mente un itinerario preciso, ma siccome aveva un profondo bisogno di libertà, così come doveva avere anche Bernardino, si addentrò nel bosco alla prima occasione. La sua intenzione, comunque, era restare sempre in vista del limitare della vegetazione, in modo da poter ritrovare la strada del ritorno senza fatica.

Incitando l'assonnata e infreddolita cavalla ad accelerare un po', la Tigre si perse nel profumo gelido di quella notte, nei rumori del bosco oscuro e per qualche minuto né lei né il Feo dissero una parola.

“Te la senti di correre un po'?” chiese lei, a un certo punto.

Sapeva che era rischioso, con quella poca luce e con un animale che conosceva pochissimo, ma tutto ciò che desiderava, in quel momento, era lanciarsi al galoppo e non pensare più a nulla.

Bernardino, senza esitazione, annuì subito e strinse le mani alla criniera della cavalla, pronto a doversi tenere in caso di partenza improvvisa. Senza attendere oltre, la Sforza diede un forte colpo sui fianchi della bestia e questa, per quanto addestrata alla buona, colse il comando e iniziò a galoppare all'istante.

Caterina stava un po' curva, in un atteggiamento quasi difensivo nei confronti del figlio, ma sentire il ragazzino ridere di gusto la portò a fare altrettanto e rilassarsi. Corsero a perdifiato fino a che fu il cavallo stesso a rallentare per la stanchezza. Avevano perso leggermente la strada, ma la Leonessa aveva più o meno presente che direzione prendere, per uscire dal bosco.

Il mantello dell'animale era bollente e oltre al sudore, liberava una costante cortina di vapore che quasi faceva piacere ai due cavalieri. La neve, sotto agli zoccoli, crepitava leggera e di quando in quando un po' di ghiaccio si staccava dalle fronde degli alberi, cadendo su di loro, frantumandosi all'istante in una miriade di cristalli. Era da tanto tempo che madre e figlio non facevano qualcosa di piacevole assieme ed entrambi non volevano rovinare quel momento di gioia pura parlando.

Mentre osservava in silenzio le spalle del Feo sollevarsi e riabbassarsi nel riprendere fiato, la Sforza provò un moto d'affetto per lui che la portò a stringerlo a sé. Il ragazzino accettò quello slancio, posando la propria mano su quella della madre e voltandosi appena verso di lei, nella speranza di ricevere un bacio sulla guancia, magari, o qualche altro gesto materno. La donna lo baciò, ma sulla fronte e poi, con un'espressione strana, appena visibile in quella penombra, gli accarezzò il volto.

Caterina stava rivedendo molto di Giacomo, nel figlio. Il brillare dei suoi occhi, illuminati da una soddisfazione piena legata al momento di libertà appena vissuto, le faceva tornare in mente quello del suo secondo marito, quello che mostrava quando era davvero felice per qualcosa.

Con un velo opprimente di rammarico, però, la Tigre si ricordò anche di come, negli ultimi mesi della sua vita, il Barone Feo avesse avuto pochi motivi per sfoggiare quel brillio entusiasta. Con gli anni, malgrado il loro amore fosse sopravvissuto a tante brutte cose, Giacomo si era come affievolito e spento. I suoi difetti si erano accentuati e il suo senso di inadeguatezza, che la Leonessa aveva sempre cercato di minimizzare e ignorare, l'aveva portato a una scelta sbagliata dopo l'altra...

“Come mai sei scappato da Fortunati, oggi?” chiese la donna, non riuscendo a trattenersi: “Studiare è importante... Se non sarai istruito a sufficienza, sarai un adulto debole e facile da mettere in difficoltà...”

“Lui parla in modo difficile e di cose che non mi interessano.” rispose il ragazzino, tornando subito a guardare avanti, un po' infastidito da quella constatazione, che era arrivata a rovinare un istante per lui idilliaco.

“Tu diglielo e fai in modo che ti spieghi cose che ti interessano e in modo più facile.” provò a suggerire la milanese, mentre faceva ripartire al passo il cavallo.

“A me interessano le spade, le armi da fuoco, i cavalli, la guerra e le d...” il Feo si morse la lingua, appena prima di aggiungere le donne all'elenco che stava sciorinando, e poi concluse: “Tutte cose di cui lui non sa nulla.”

“Allora sarà proprio il caso che sia io a farti qualche lezione, almeno sulle spade, sui cavalli e sulla guerra...” sospirò Caterina, che aveva intuito anche quale potesse essere l'ultimo degli interessi del figlio: “Per il resto puoi chiedere qualche dritta a tuo fratello Galeazzo.”

Senza trattenersi, nell'immaginarsi a chiedere consigli anche sulle donne al fratello maggiore, Bernardino fece una breve risata, ma poi tornò subito serio, per evitare domande scomode, disse, serio: “Se voi mi insegnerete quello che sapete anche solo sulla guerra, vi giuro che sarò il migliore degli studenti.”

Apprezzando quella determinazione nel voler imparare qualcosa – che a Giacomo, invece, era sempre colpevolmente mancata – la Tigre sorrise e assicurò: “Pian piano ti insegnerò tutto, ma tu devi promettermi che farai uno sforzo anche con la scrittura e la lettura. Non può esistere un buon comandante che non sappia leggere o scrivere da sé un dispaccio...”

Bernardino non disse né di sì né di no, così la Leonessa lasciò momentaneamente da parte l'argomento e gli chiese se gli andasse di galoppare ancora un po'.

Questa volta, in un lampo di buon senso, la donna condusse l'animale di nuovo verso la villa, pur restando sempre nel perimetro boschivo. La cavalla correva, saltava e scartava, sempre più veloce e sempre più precisa. Non fosse stato che il suo tono muscolare non era più quello di una volta, la Sforza sarebbe andata avanti a cavalcare a quel modo fino all'alba. Invece, dopo un po', malgrado la bestia fosse pronta a proseguire, la milanese tirò le redini e la fece rallentare.

Il Feo era anche lui stanco, ma il freddo, la velocità e la sensazione impagabile di essere stato coinvolto da sua madre in qualcosa di così trasgressivo e segreto, lo portavano a essere ancora carico di energie.

La Tigre, invece, era sudata e faticava a riprendere fiato. Diede un paio di colpi di tosse e temette che quello potesse essere solo il preludio di qualcosa di più serio. Perciò, controvoglia, fece un paio di sospiri e poi fece virare il cavallo ancor di più verso il limitare del bosco.

“Credo sia ora di tornare a casa...” spiegò, temendo di incappare in qualche rimostranza del figlio, che invece, annuì e si disse d'accordo.

“Mi piacerebbe farlo di nuovo...” fu l'unico commento, dal tono malinconico, che Bernardino si permise di fare.

“Ti diverti di più a cavalcare nei boschi di notte con me, o a girare i bordelli di Firenze con Scipione?” chiese, d'istinto, la donna.

Non voleva mettere in difficoltà il figlio. La sua era stata una domanda senza cattiveria, solo una curiosità, un modo come un altro per cercare di inquadrare il Feo, che, a tratti, ancora le sfuggiva, malgrado fosse, forse, il figlio a lei più simile.

Il ragazzino, imbarazzato per quel quesito tanto diretto e sfacciato, arrossì violentemente e ringraziò il buio della notte e la fredda neve che gli sferzava le guance per nascondere quella reazione così rivelatrice del suo disagio.

“Perdonami...” sorrise comprensiva la donna, dopo qualche secondo: “Non volevo metterti in imbarazzo... Comunque, Scipione mi ha detto che, se vuoi, ti ospiterà di nuovo quando vuoi, anche subito...”

“Davvero?” chiese subito lui, con un'urgenza che accentuò il sorriso indulgente della madre.

“Sì, davvero. Anche se, a mio avviso, dovresti fermarti da lui solo pochi giorni... Malgrado quel che dice, averti con sé di certo è un incomodo, se non altro perché deve badare a far sì che tu non ti metta in qualche guaio...” soppesò la donna.

“Quando partirà Bianca?” si informò il ragazzino.

“Credo verso fine mese...” rispose la Sforza, che, in realtà, non era sicura delle tempistiche, dato che non erano arrivate nuove direttive più precise dal De Rossi, né da nessun altro.

“Allora aspetterò che sia partita. Voglio salutarla.” decretò lui.

La Leonessa sapeva che tra la Riario e il Feo c'era dell'affetto di fondo, ma anche molta freddezza.

Non poteva fingere di non ricordare quanto Bianca, più o meno scientemente, fosse stata coinvolta nella morte di Giacomo. E non poteva fingere di credere che Bernardino non ne sapesse nulla. Era inevitabile che la sorella – di norma così amorevole e premurosa con tutti – con il fratello fosse in difficoltà, mostrandosi spesso distante, e allo stesso tempo era normale che il fratello faticasse a mostrarsi particolarmente legato alla sorella.

“Mi spiace pensare che, dopo che partirà, potremmo non vederla per mesi o anni...” sussurrò, un po' a sorpresa, il ragazzino.

La villa, ormai, incombeva davanti a loro e la Leonessa tratteneva i colpi di tosse, per non palesarsi a possibili orecchie indiscrete. Senza più toccare l'argomento della partenza di Bianca, Caterina fece rientrare la cavalla alle stalle e, trovando lo stalliere ancora intento a tormentarsi per averla lasciata uscire senza permesso, gli chiese di occuparsi lui dell'animale.

Il ragazzo, oltremodo felice di vederla tornare sana e salva e con ancora il figlio con sé, si appoggiò un momento a una delle travi portanti della stalla e si piegò su se stesso per respirare a fondo. Alla fine l'agitazione gli fece un brutto scherzo, e, invece di respirare a fondo e basta, il giovane finì per vomitare un blocco di bile e acidi che gli fece bruciare la gola come il fuoco.

“Ti sei davvero spaventato, eh?” gli disse, senza volerlo canzonare, ma sinceramente sorpresa da quella reazione eccessiva: “Domani ti farò servire un pranzo doppio, come ricompensa per la tua fedeltà.”

 

Non mancava molto all'alba, ma il Valentino era sicuro che la sua preda gli sarebbe stata consegnata prima dello spuntare del sole.

Erano troppi quelli che gli stavano sfuggendo... Guidobaldo da Montefeltro era più impalpabile di un'ombra, Giampaolo Baglioni si era rintanato chissà dove in attesa che passasse la tempesta... In suo possesso restavano solo gli Orsini e i Varano. Voleva aspettare di avere tra le mani anche qualcun altro, ma, forse, gli sarebbe convenuto cominciare uccidendo loro...

Camminando nervosamente nella stanza che gli era stata ceduta, in quel palazzo d'Assisi che per lui era solo scomodo e umido, il Valentino pensava e ripensava alla prossime mosse. Già stanare il Baglioni sarebbe stata una bella cosa: se il suo piano di rapire e umiliare Pantasilea avesse avuto successo, avrebbe trovato il modo di attirare Giampaolo a Perugia e lì i suoi stessi sudditi ne avrebbero fatto carne da macello...

In tutto ciò, restavano aperti i problemi di Siena e Firenze. Siena, in mano a Pandolfo Petrucci, era una vera incognita, ma Cesare era tutto sommato convinto che non sarebbe stato troppo difficile prendere la città.

Firenze era un altro paio di maniche. L'incapacità, ormai manifesta, di Machiavelli da un possibile vantaggio, si stava trasformando in un imbroglio. Se in un primo momento, infatti, il Borja era stato in grado di estrapolare dalle chiacchiere del fiorentino notizie interessanti per la sua campagna, più i giorni erano passati, più l'ambasciatore della Repubblica si rivelava vanesio e succube, incapace di fornire notizie interessanti e sempre e solo intento a blandirlo e lodarlo, senza arrivare mai a nulla di concreto.

Secondo alcuni suoi consiglieri, presto Firenze avrebbe ritirato Niccolò in favore di un nuovo ambasciatore e il Valentino cominciava a esserne felice.

Il Duca si stava mordendo nervosamente il pollice, gli occhi puntati alle candele accese davanti a sé, quando finalmente sentì bussare alla sua porta. La mano pesante che stava picchiando sul legno era facile da riconoscere, perciò il figlio del papa diede subito il permesso di entrare.

“L'abbiamo presa.” riferì Miguel, aggiungendo il breve elenco degli altri prigionieri, tutti incidenti collaterali, catturati dagli spagnoli inviati a Corvara solo per semplicità.

Cesare agitò la mano con impazienza e poi, stringendosi un attimo nella vestaglia da camera damascata, chiese: “L'avete già portata qui?”

“Con discrezione, come richiesto.” annuì il Corella.

“Portamela qui, in camera... Devo... Voglio... Devo parlarle.” farfugliò Cesare che, fin da subito, si era scoperto curioso di provare in prima persona come fosse, una donna come Pantasilea Baglioni, che tanto era preziosa per il fratello e quanto poco la era per il marito.

Michelotto era visibilmente infastidito da quell'ordine, ma lo eseguì in fretta, tornando dopo appena una manciata di minuti assieme a un soldato suo diretto sottoposto e a una donna. Questa, occhi bassi e viso rigato dalle lacrime, non protestava né piangeva più. Aveva capito quasi subito dove sarebbe stata portata e l'identità ultima del suo rapitore e aveva accettato, come aveva fatto spesso nella sua vita, il suo triste destino.

Così come tante altre donne d'Italia, Pantasilea negli ultimi anni aveva ascoltato con curiosità e paura i racconti che riguardavano la Tigre di Forlì e la sua prigionia presso i Borja e dunque poteva immaginare molto bene cosa volesse da lei il Duca di Valentinois.

“Lasciateci soli.” disse subito Cesare, scacciando quasi di peso Miguel e l'altro uomo.

Chiuse la porta, rapido, e poi afferrò una delle candele, portandola vicina alla donna, per osservarla meglio. Era chiaro, dallo stato dei suoi abiti e della sua capigliatura, che la Baglioni era stata rapita nel sonno, affrontando poi un viaggio complicato e molto frettoloso.

La passò in rassegna lentamente, scrutandone il profilo, studiandone i lineamenti e valutandone la corporatura. Più si applicava, però, meno capiva cosa avesse di così speciale quella donna. Non gli sembrava che fosse né più bella, né più formosa, né più affascinante di una sguattera di cucina.

Per qualche istante ebbe il tremendo sospetto che gli spagnoli avessero fatto confusione e avessero rapito la donna sbagliata, poi, però, l'occhio gli cadde su un paio di anelli ancora alle dita della prigioniera e riconobbe lo stemma dei Baglioni.

“Vostro fratello impazzirà, nel sapere che siete stata nelle mie stanze, stanotte...” provò a dire, giusto per capire se, magari, fosse il carattere fumantino la chiave di lettura di quella taciturna dama.

In tutta risposta, però, Pantasilea abbassò ancora di più lo sguardo e rimase immobile e silenziosa.

Strattonandola, Cesare perse la pazienza e provò a posare le labbra su quelle di lei. La Baglioni non si oppose: restando passiva, lo lasciò fare.

Ancora più nervoso, l'uomo si sentì svilito. Un po' com'era stato per Caterina Sforza – che ancora infestava i suoi incubi – lo metteva molto più in difficoltà quell'apparente indifferenza che non eventuali grida o suppliche. Anzi, quell'arrendevolezza gli rendeva quasi difficile andare oltre...

Posando la candela al mobile, decise di non frapporre altro indugio e, prese quasi di peso la Baglioni e la butto sul letto, che era già sfatto. Le strappò gli abiti, mentre lei guardava altrove, impassibile, chiusa in un suo mondo.

Il Duca non poteva sapere quello che stava succedendo nella mente della sua preda. La giovane altro non stava facendo se non mettere in atto una strategia che, suo malgrado, aveva affinato negli anni per sopravvivere a tutto ciò che suo fratello l'aveva costretta a sopportare. Dentro di sé piangeva, gridava, si disperava e desiderava morire, piuttosto che subire la violenza del Borja, ma fuori, come un'attrice consumata, non mostrava nulla, se non una distanza quasi annoiata.

Il Valentino, lanciata in terra la vestaglia da notte e rimasto nudo, sperando così di aiutarsi a trovare la situazione eccitante, si adoperò e si sforzò, arrivò perfino a colpirla in viso due, tre, quattro volte, nella speranza di scatenarne il pianto o, almeno, le proteste, ma la donna rimase muta e sorda, come una bambola senza vita.

Avvilito e vergognandosi di non riuscire a portare a termine ciò che si era prefissato di fare, il Duca tentò un'ultima carta, cingendo il collo della Baglioni con le mani e cominciando a stringere, ma anche quella volta – con uno sforzo di volontà che a lui sfuggì – la donna non fece nulla, nemmeno quando il respiro le mancò del tutto.

Sull'orlo della perdita di coscienza, Pantasilea sentì con dolore l'aria tornare a entrare nei polmoni, ma accolse con un sospiro di enorme sollievo il gesto subitaneo del Duca che, rabbioso – più verso se stesso che altro – non riuscendo in alcun modo a suscitare una reazione dalla propria virilità, si era alzato di scatto e si era chinato per recuperare la propria vestaglia da camera.

Senza dire nulla, l'uomo uscì e tornò dopo pochi istanti seguito da Miguel: “Portala via.” ordinò, brusco: “Non mi interessa dove, purché nessuno la veda. Per ora... Be', poi penseremo a che farne di lei.”

Il Corella, che grossomodo aveva intuito il decorso sfavorevole di quell'incontro, preferì non fare commenti e, deciso, andò a prendere la Baglioni, facendola alzare dal letto e ordinandole di coprirsi come poteva con gli abiti sbrindellati che aveva addosso. Notò di sfuggita il collo arrossato e il viso che portava recenti segni di percosse, ma finse non non vedere nulla.

“Che sia chiaro, anche a Roma – fece presente il Duca, mentre il Corella portava la donna alla porta – che noi non abbiamo nulla a che fare con questa storia...”

Miguel annuì, prendendosi appunto mentale di scrivere subito al Vaticano, e senza frapporre altri indugi, lasciò la stanza, tenendo con fermezza la Baglioni per un braccio.

 

Caterina aveva salutato con un abbraccio il figlio Bernardino, che, furbescamente, approfittando di quel momento di vicinanza, le aveva fatto promettere a mezza bocca che sarebbero usciti altre volte a quel modo.

La donna aveva poi camminato lentamente fino alla sua stanza, pensando che fosse il caso di scrivere davvero a Baccino, lasciando da parte tutti i tentennamenti che l'avevano bloccata quando ci aveva provato la prima volta. Quando aprì la porta, stava già immaginando a come iniziare la sua missiva, quando si rese conto che nel suo letto c'era già qualcuno.

Guardinga, com'era sempre stata in vita sua, rimase vicino al muro e scrutò meglio nella penombra, riconoscendo quasi subito la sagoma di Fortunati.

Chiudendo allora la porta con un piccolo scatto e accendendo un paio di candele, la donna aspettò che il piovano si risvegliasse e sbattesse le palpebre un paio di volte, prima di chiedergli: “Che ci fai qui?”

Francesco, alzandosi subito, le si parò davanti e, dandole uno sguardo sommario e notando all'istante la neve sulla sua cappa e gli stivali pesanti ai suoi piedi, chiese di rimando: “Dove sei stata?”

“Non sono affari tuoi.” ribatté lei, chiedendosi come avesse fatto a essere tanto stupida da non pensare che Fortunati si sarebbe presentato in camera sua come, ormai, faceva ogni notte.

“Ormai è quasi l'alba, sei stata fuori tutta notte. Dov'eri?” chiese di nuovo lui, con il fiato un po' corto, come se quell'attacco frontale gli stesse costando molto, sia in termini di coraggio che di sforzo fisico.

“Ti ho detto che non sono affari tuoi.” ripeté lei, togliendosi la cappa e andandosi a mettere alla scrivania, come se davvero volesse dedicarsi alla corrispondenza, ma il fiorentino non aveva alcuna intenzione di lasciar cadere il discorso.

“Sei sudata...” notò, accorgendosi del velo umido che ancora imperlava la fronte e il collo della Sforza: “Si può sapere che hai fatto?”

Chiudendo un momento gli occhi, richiamando a sé la poca calma di cui era capace, la Tigre ribatté, con il preciso intento di ferire il piovano e quindi farlo tacere e, magari, addirittura andarsene dalla stanza: “Ho passato la notte con il giovane stalliere di cui eri tanto geloso, te lo ricordi? È lui che mi ha fatta sudare... Ed è colpa sua se ho fatto tardi: non ne aveva mai abbastanza... Gli ho promesso razione doppia di cibo, domani, come ringraziamento...”

Per qualche secondo, Francesco rimase come stordito, ma poi una serie di indizi lo portò a credere che quella fosse solo una grossolana bugia confezionata ad hoc solo per farlo ingelosire e farlo arrabbiare.

“Sei andata a cavalcare nei boschi.” le disse quindi, tornando al primissimo sospetto che aveva nutrito.

“E anche se fosse?” fece lei, non avendo voglia di provare a negare di nuovo.

Stanco, incrociando le braccia sul petto, il fiorentino scosse il capo e sospirò: “Ti prego, non farlo mai più. Ti prego. Ti supplico. Prima o poi finirà questa storia, la tua condizione cambierà e allora potrai andare nei boschi come e quanto ti pare, ma per ora...”

“Non lo puoi sapere, se cambierà.” lo zittì lei, con un paio di colpi di tosse: “Lo puoi sperare, ma non lo puoi sapere. Potrebbe anche peggiorare. Quindi smettila di starmi con il fiato sul collo e pensa alle tue preghiere e a tutte le tue cose da prete...”

“Dovresti cambiarti... Non va bene restare così sudati con questo freddo: mettiti degli abiti asciutti...” provò a consigliare l'uomo, accomodante, posandole una mano sulla spalla, provando a riportare un minimo di intimità tra loro.

La Leonessa, però, si scostò di colpo e disse solo: “Adesso, per favore, lasciamo in pace: devo scrivere una lettera importante da inviare a Roma.”

“A Roma?” chiese Fortunati, accigliandosi.

“A Baccino.” rispose lei: “Avevi ragione tu, quando mi hai detto che è l'unico che possa badare a mia figlia, quando andrà in Vaticano. E lui non mi dirà di no, qualsiasi cosa gli chieda...”

Incassando quella che sembrava una stoccata ad personam, il fiorentino sollevò appena le spalle e concluse, abbattuto: “Va bene, torno in camera mia. Tanto tra poco sarà mattina e mi dovrò svegliare per le mie orazioni...”

Caterina non sollevò più lo sguardo dalla pagina, che, intanto, aveva intestato, e attese di sentire la porta chiudersi. Solo allora seguì il consiglio di Fortunati e si cambiò, tossendo ancora un paio di volte. Solo quando fu asciutta e calda, riprese in mano la penna e, lasciando che le parole scorressero sul foglio da sole, invocò l'aiuto di Baccino da Cremona, uno degli uomini che le era stato più vicino nel momento della disfatta e che, ne era sicura, le sarebbe tornato al fianco solo come i veri soldati pregni di lealtà e fedeltà sapevano fare.

 

   
 
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