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Autore: Helena Hufflepuff    12/12/2022    1 recensioni
La Seconda Guerra Magica è finita da anni, Olivander è tornato nella tranquillità del suo negozio. Fino a quando, in un giorno come tanti, una giovane misteriosa legata a un passato troppo a lungo dimenticato entra nella sua vita...
Attenzione: Olivander leggermente OOC
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Olivander
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Dopo la II guerra magica/Pace
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Capitolo 2 


La voz a ti debida


La piantagione Manerbi era la più grande che avesse mai visto. Alberi di ogni genere, giovani e plurisecolari, a perdita d’occhio: una foresta impenetrabile. Così, Garrick decise di limitarsi alla macchia d’alberi sul limitare della piantagione, per non rischiare di smarrire la via. Tuttavia, gli alberi erano così ricettivi, e così abitati dagli Asticelli, che ben presto, prima ancora che il sole toccasse il suo apice, si trovò con una fascina piena di ramoscelli interessanti nel bel mezzo della foresta, senza più capire la strada del ritorno.

“¿Perdido?” gli chiese una voce. Quella voce.

“Buongiorno, Marcela” rispose lui, girandosi per guardare quella misteriosa ragazza.

Buenos días, Garrick. Ti sei svegliato temprano, oggi” rispose lei, sorridendogli. “Sei coraggioso. Non conosci la foresta, ma ti sei tanto allontanato da casa”

“Tu non hai paura di stare da sola in mezzo a tutti questi alberi?”

Lei scosse la testa, in un turbinio di riccioli. “Vivo qui da sempre. Gli alberi mi parlano. Se mi perdo, ci sono loro a riportarmi a casa” Accarezzò un’acacia con aria meditabonda. “Non li senti? Parlano anche a te”

“Non credo che sia…” cominciò lui, ma lei gli pose un dito sulle labbra – un contatto che gli diede una scossa sconosciuta – e gli indicò l’orecchio, come a dire: ascolta.

E in quel momento la udì anche lui: gli alberi parlavano. Non una lingua umana, no – ma stavano inequivocabilmente comunicando, tra loro ma anche con loro, quegli umani accolti nella loro famiglia.

“Li senti, vero?” disse lei. “Lo sapevo. L’ho capito appena ti ho visto”

“Cosa?”

Lei lo guardò a lungo negli occhi, come se volesse parlargli solo tramite lo sguardo, poi si riscosse e disse: “El desayuno. È ora del pranzo. Seguimi, o arrivi tardi e i lavoranti mangeranno tutto” E senza un’altra parola cominciò a percorrere un sentiero che vedeva soltanto lei, e Garrick non poté fare altro che seguirla, finché non arrivarono al limitare della foresta. A quel punto lei proseguì verso la casa, senza nemmeno voltarsi, e lui invece si diresse verso il capanno dove i dipendenti stavano dirigendosi per un pasto che si preannunciava delizioso, a giudicare dal profumo.

“Signor Olivander!” La voce del signor Manerbi sovrastò l’allegro vociare dei lavoratori. “Ma che fa in fila con gli operai? Lei è un ospite d’onore, deve assolutamente pranzare con noi! Voglio sapere che ha fatto di bello stamattina. Volevo fare una bella chiacchierata appena alzato, sa, ma poi la cameriera mi ha detto che era uscito alle prime luci dell’alba. Eh, adesso sarà esausto e affamato. Venga, venga, Anita era tanto in pensiero per lei, solo in mezzo alla foresta sconosciuta”

Garrick pranzò in compagnia dei signori Manerbi. Il suo spagnolo era povero, ma di una cosa era certo: papa significava papà, e mamà era la mamma. Ma se Marcela chiamava così i signori Manerbi, perché loro si comportavano come se non esistesse?

Decise di affrontare la discussione prendendola alle larghe, mentre si trasferivano nel salottino per il caffè. “Non credo di avervi ancora fatto i complimenti per la piantagione”

“Be’, la natura qui è ricca e generosa” rispose Anita. “Noi la indirizziamo soltanto verso il meglio di se stessa”

“E vedo che i lavoranti si trovano molto bene alle vostre dipendenze” aggiunse. “Magari è solo una mia impressione, ma si comportano come se fossero di famiglia”

“Oh, ma lo sono” confermò il signor Manerbi, che di nome faceva Giovanni (come gli aveva più volte ribadito durante la cena del giorno precedente, insistendo perché gli desse del tu). “Abbiamo sempre desiderato una famiglia numerosa, e loro sono un po’ figli nostri, e i loro figli sono per noi come dei nipotini. Il Natale qui è una festa strepitosa, vedrà!”

“Eppure ho sentito spesso un nome” inventò lì per lì. “Suonava come… Marcela. Chi è?”

I due signori si scambiarono uno sguardo torvo, ma durò appena un istante, poi lui disse: “Marcela? Mai sentito. Tu, cara?”

Lei scosse il capo, ma non disse nulla. Olivander capì una cosa: se voleva saperne di più, doveva parlarne con lei.

“Può essere che abbia capito male io” si corresse Olivander, con un sorriso di scuse. “Il mio spagnolo evidentemente è persino peggiore di quanto pensassi”

“Capita, per gli inglesi questa lingua è così difficile da afferrare…” sorrise il signor Manerbi con aria benevola. “Un’altra tazza di caffè?”

*-*-*

“Grazie mille per il tè, signor Olivander” disse Gwendolyn con un sorriso rivolto al fabbricante di bacchette, che però non rispose.

“Cosa le ha detto Marcela… di me?”

Gwen fece una scrollatina di spalle: “Bah, un po’ di questo, un po’ di quello” Mangiò un biscottino e poi aggiunse: “Mi ha raccontato che vi siete conosciuti in Argentina, che lei viveva nella piantagione dei Manerbi. Il resto ho potuto ricostruirlo tramite alcuni ricordi di abuela

“Vivete ancora in Argentina?”

“Oh no, io sono nata a Montréal, Québec” rispose lei con un sorriso orgoglioso. “Abuela e maman vi si sono trasferite quando maman era ancora piccola. Infatti sia lei che io abbiamo studiato a Ilvermorny”.

Olivander sbuffò. A Ilvermorny le bacchette scelgono i maghi solo una volta che sono entrati a scuola. Questo comportava delle scelte quantomeno discutibili: non potendo esserci un negozio di bacchette, né tantomeno un fabbricante apposito, molte delle accoppiate più che su una ricerca ponderata avvenivano su una combinazione del meno peggio. Questo comportava che maghi eccellenti, abbinati a bacchette mediocri, producessero risultati di molto inferiori alle loro capacità, solo per un ragionamento del tipo: un mago, una bacchetta. Decisamente poco professionale.

Gwendolyn sembrò leggergli nel pensiero, perché disse: “So che a Ilvermorny, e negli Stati Uniti in generale, non c’è una grande cura dell’arte delle bacchette, ma penso sia una conoscenza sottovalutata. Io con la mia bacchetta mi sono sempre trovata uno schifo, per dire” La estrasse e il signor Olivander trattenne a stento una smorfia di disgusto: era graffiata e piena di ditate, e come se non bastasse era di qualità bassissima, con il cuore – che sembrava un banalissimo crine di Abraxan – che già faceva capolino dalla punta.

“Gliel’ho detto, fanno schifo” disse lei. “Ed è per questo che sono qui: se me lo permette, vorrei diventare la sua apprendista”

“E se ti dicessi che non voglio apprendisti?”

“Mi prenda in prova per un mese” insistette lei, senza demordere. “Non voglio essere pagata. Voglio imparare, e imparo velocemente. Se tra un mese riterrete opportuno rispedirmi indietro, me ne andrò e sparirò per sempre dalla sua vita; ma fino ad allora, mi tenga… per qualsiasi cosa l’abbia legata a mia nonna”

Se Garrick poteva ancora nutrire dei dubbi sull’ascendenza di quella ragazza, adesso le erano passati tutti. Quello era decisamente lo stesso carattere di Marcela. Gwendolyn aveva ragione: glielo doveva.

“Domani, puntuale alle sette del mattino. Non tollero i ritardatari” borbottò lui.

Lei, evidentemente in un momento di instabilità mentale, lo abbracciò e disse: “Grazie, signor Olivander, non  la deluderò!” Poi si staccò, afferrò il suo borsone e si diresse verso le scale e, dopo qualche secondo, sentì il campanello della porta tintinnare.

Garrick non aveva fretta, e così si mise comodo in poltrona…

   
 
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