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Autore: Adeia Di Elferas    23/12/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Jacopo stava guardando in silenzio la moglie che si affaccendava a destra e a manca nella loro camera da letto. Le aveva ribadito più e più volte di starsene tranquilla e l'aveva rassicurata sull'efficienza comprovata dei loro servi che, di certo, gli avevano preparato un bagaglio più che adeguato, ma la Medici non la smetteva di cercare e ammonticchiare cose 'indispensabili' per il marito, in vista del lungo viaggio.

Il Salviati non le diceva nulla, sia perché era convinto che fosse più semplice così – se avesse provato a frenarla, ne sarebbe sicuramente nata una discussione che lo avrebbe portato a partire a notte fatta – sia perché si era reso conto che quell'agitazione sottendeva non solo l'ansia di una moglie innamorata e incinta che stava per salutare il marito chissà per quanto tempo, ma anche, e forse soprattutto, l'ansia di una donna erede di un'importante, ma decadente famiglia, che vedeva nel marito, appena nominato oratore di Firenze presso il Duca di Valentinois, un'impagabile occasione di riscossa.

“E poi ovviamente dovrai portare con te il necessario per scrivere... Dispacci a Firenze ne dovrai mandare in grande quantità...” stava borbottando Lucrezia, cercando nei cassetti della scrivania qualche penna di ricambio.

“Per quello, ho già tutto...” intervenne alla fine lui, con calma, sperando che il buon senso, finalmente, prevalesse sull'apparente confusione che aveva catturato la mente della sua donna: “Se puoi farti stare tranquilla, ho con me abbastanza carta, inchiostro e penne da scrivere una nuova Commedia...”

Improvvisamente, come se qualcuno avesse tirato delle redini immaginarie, la donna smise di affaccendarsi e incrociò le braccia sul petto. I suoi occhi indagatori si aggirarono per qualche istante per la stanza e poi si puntarono sul marito. Nell'arco di pochi istanti, il volto della Medici venne attraversato da molte differenti emozioni, tra cui, alla fine, prevalse l'apprensione che, fino a quel momento, era stata tenuta a bada proprio dal suo tenersi indaffarata.

“Stai attento.” disse Lucrezia, appena udibile.

“Arriverò fino a Sarteano senza problemi... Sembra anche che smetterà di nevicare e...” cominciò a dire lui, ma la moglie lo fermò subito, scuotendo la testa.

“Sai che non è la neve ciò da cui ti chiedo di stare attento.” gli disse: “Siena potrebbe essere invasa da un momento all'altro e non sappiamo cosa potrebbe succedere...”

In effetti era notizia fresca di giornata che Pandolfo Petrucci, Moderatore di Siena – di fatto suo Signore – era scappato dalla città, portandosi appresso anche i figli. Quello sembrava l'atto finale per la resa non violenta di Siena, ma nessuno poteva dire di preciso come gli orgogliosi senesi avrebbero reagito a un nuovo padrone. Il rischio di trovarsi coinvolti in tafferugli o in vere e proprie battaglie non era nulla.

“E anche se non succedesse nulla di pericoloso a Siena – concluse Lucrezia, accigliandosi ancora di più – il Valentino non è un uomo facile da avvicinare...”

“Vado da lui a trattare per la pace... Starò a debita distanza e non gli darò confidenza... Non dovrei aver motivo di temere la sua violenza...” soppesò il Salviati che, però, era a sua volta molto teso all'idea di dover avere a che fare con il Duca.

“Stai attento.” ripeté, quasi con ostinazione, la donna.

Jacopo si lasciò sfuggire un breve sorriso, nel commentare: “Tra noi due credevo di essere io, quello troppo protettivo...”

Lucrezia, ricambiando il sorriso, evitò di raccomandarsi per la terza volta, e si avvicinò a lui, porgendogli una mano. Il Salviati la strinse prontamente e se la portò alle labbra, per un bacio.

“Adesso vado a salutare i nostri figli...” sospirò lui, dopo un po': “E poi partiremo...”

Ricevuta l'approvazione della Medici, che ormai sembrava aver ricacciato in fondo al petto l'ansia, ritornando al quieto ottimismo verso una missione sì complicata, ma anche molto promettente per la carriera del marito, Jacopo si dedicò a tutti i suoi figli, trovando solo in Maria una strenua resistenza alla sua partenza.

La bambina, di circa tre anni e mezzo, sembrava aver capito anche troppo bene le intenzioni del padre e, nel momento in cui lui si era chinato per abbracciarla, la piccola gli si era stretta al collo con una forza inaudita ed era scoppiata a piangere.

In difficoltà, l'uomo le aveva sussurrato tutte le rassicurazioni che era in grado di dare, senza, per altro, poter essere certo che una bambina tanto piccola le potesse davvero capire. Ci vollero due bambinaie e tante promesse per convincere la piccola Maria a lasciare la presa e permettere al Salviati di andare.

Mentre dava un ultimo saluto alla moglie, accarezzandole la pancia che ancora celava la nuova gravidanza, Jacopo ripensò al momento esatto in cui aveva accettato la proposta del Gonfaloniere Soderini e ricordò ancor meglio come il suo 'sì' fosse stato soffiato con decisione e titubanza allo stesso tempo, come se in quella minuscola parola convivessero la sua prudenza e l'irruenza che Lucrezia gli aveva instillato.

“Tornerò presto.” promise alla moglie, uscendo di casa, il cappuccio già calato sulla fronte per combattere contro il vento e la neve che si mescolava sempre più a una pioggia pesante e grossolana.

“Tornerai da eroe, per Firenze...” rispose lei, concludendo, con un sorriso carico di malinconia e orgoglio nella medesima quantità: “E per me.”

 

Caterina aveva ascoltato con attenzione le ultime novità arrivate da Firenze, che volevano Siena ormai a un passo dalla conquista effettiva da parte del Valentino e Jacopo Salviati in viaggio per andare a prendere il posto di Machiavelli.

Fortunati le aveva riportato fedelmente tutto ciò che gli era stato a sua volta riferito da Lucrezia Medici, e si era preparato a eventuali domande specifiche da parte della Tigre che, però, non arrivarono. La Sforza era troppo concentrata sui propri, di guai, per pensare, in quel momento, ai guai senesi.

Non mancava più molto alla convocazione della prima udienza del processo che avrebbe potuto strapparle in un sol colpo Giovannino, ciò che restava dell'eredità di Giovanni e la parvenza di stabilità che aveva guadagnato a fatica da che era alla villa di Castello. Il piovano, diligentemente, si era occupato per lei di contattare i suoi difensori e di organizzare ogni minimo dettaglio, tuttavia la donna soffriva nel sentire di non avere tutto sotto il suo direttissimo controllo.

Aveva passato una vita a dare ordini e comandare i suoi sottoposti e dunque trovarsi nelle condizioni di doversi necessariamente fidare di un piccolo esercito di sconosciuti – per quanto ritenuti affidabili da Francesco – era per lei una sconfitta personale a dir poco cocente.

Era proprio per quello che, mentre ascoltava in silenzio di come il Salviati avesse lasciato la città a gran velocità, per arrivare il prima possibile a Sarteano, dove l'attendevano prima del passaggio ufficiale di consegne, la Leonessa non aveva trovato spunto per nessuna domanda né tanto meno aveva avuto voglia di fingere più interesse di quello che effettivamente provava.

Anzi, nel momento esatto in cui il piovano aveva taciuto, gli aveva chiesto, nervosa: “Quanto credi che si protrarrà il processo?”

Fortunati, un po' interdetto dal cambio repentino di argomento, si era seduto accanto a lei, sopra la cassapanca ai piedi del letto, e aveva risposto: “Non so nemmeno io cosa augurarmi... Un processo troppo breve può significare che le cose sono andate benissimo, così come che sono andate malissimo... E un processo molto lungo, il più delle volte, finisce male per tutti, perché nessuno più ricorda perché sia iniziato...”

“Io lo ricorderei benissimo: per Giovannino.” ribatté Caterina, secca.

“Certo, certo... Non volevo dire che...” sospirò il fiorentino, rinunciando presto a far valere la propria buona fede: “Piuttosto, tu cerca di stare tranquilla e se... Se dovessero interrogarti su qualcosa, su qualsiasi cosa, ti prego di non perdere la calma.”

“Perché ti senti in dovere di specificarlo?” fece la Tigre, piccata: “Credi che non sia capace di controllarmi, quando ce n'è bisogno?”

“Calcolando che sei stata capace, a suo tempo, di picchiare i pugni sul tavolo del Gonfaloniere, proprio quando ti era indispensabile mantenere rapporti distesi con Firenze...” commentò lui, sollevando un sopracciglio.

La Sforza, alzandosi, lo mandò a quel paese con un gesto e mormorò un paio di pesanti bestemmie in milanese che l'uomo finse di non cogliere. Stava cercando di essere il più possibile indulgente con lei, in quei giorni. Tutti questi riguardi risalivano, probabilmente, alla notte che la Leonessa aveva passato fuori. Anche se il fiorentino era abbastanza sicuro che Caterina non l'avesse davvero tradito con il giovane stalliere che si occupava quasi da solo di tutti i cavalli, il giorno dopo quella strana notte, si era sentito gelare il sangue nelle vene, quando si era reso conto che il ragazzo aveva davvero ricevuto una doppia razione di cibo per pranzo, come paventato dalla Tigre, in ricompensa, diceva, dei suoi sforzi notturni.

E così Fortunati aveva reagito all'ansia dovuta a tutti i suoi dubbi con un inconscio tentativo di mostrare alla milanese quanto lui sapesse essere con lei accomodante e accogliente.

“Ho notato che Bianca, ultimamente, non bada troppo a nascondere il suo attaccamento a Pier Maria...” disse, con tono casuale, il piovano, forse cercando inconsciamente di bilanciare l'accondiscendenza cieca mostrata a Caterina con una maggiore durezza verso la Riario: “È vero che ormai in questa villa la servitù è ridotta al minimo, ma qualcuno potrebbe comunque sparlare e...”

“Mia figlia ha accudito già Cornelia e anche Giovannino...” tagliò corto la Sforza, trovando quella reprimenda inutile: “Tutti la vedono come l'unica donna amorevole di casa e quindi è l'unica in grado di occuparsi di un bambino piccolo...”

“Dovresti farlo tu, invece.” si incaponì il fiorentino: “Ai fini del processo, mostrare la tua propensione a prenderti cura di un bambino piccolo potrebbe...”

“Bianca partirà tra una manciata di giorni, probabilmente.” lo zittì subito Caterina: “Non ho intenzione di rubarle le ultime attenzioni del suo primogenito che rivedrà tra chissà quanto.”

Francesco, che non aveva minimamente visto in quell'ottica la situazione, sollevò appena le spalle e le diede ragione, arrivando perfino a scusarsi per la sua insensibilità: “Piuttosto...” soggiunse in un secondo momento, quasi guardingo: “A Baccino cos'hai scritto di preciso? Per sapere, ecco, come gestire il suo coinvolgimento...”

“Non sono affari tuoi.” sospirò la Tigre, evitando di guardarlo: “Baccino farà quel che potrà, per proteggere Bianca. Per il resto, come piace dire a voi religiosi, siamo nelle mani di Dio...”

“Quello sempre, ci mancherebbe...” fece eco l'uomo, senza osare più sfiorare l'argomento.

“Adesso fammi qualche domanda che potrebbero farmi, eventualmente, al processo.” lo invitò lei, con un sospiro pesante: “Hai ragione: non devo farmi scomporre da nulla, quindi devo essere pronta... Avanti, fammi le domande peggiori che potrebbero farmi.”

“Va bene...” fece Fortunati, schiarendosi la voce e domandando poi, inquisitorio: “Il piccolo Giovanni, di cui oggi discutiamo l'affidamento, è davvero figlio di Giovanni Medici?”

Caterina lo guardò per un lungo istante, come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa di molto spiacevole.

“Potrebbero chiedertelo.” precisò il fiorentino, a mo' di scusa.

“Giovanni Medici era mio legittimo marito – rispose allora Caterina, sforzandosi di immaginarsi davvero in un tribunale a testimoniare ciò che le appariva ovvio – e Giovannino, battezzato inizialmente Ludovico, era figlio mio e di mio marito, come chiunque, a Forlì, avrebbe potuto testimoniare.”

Il piovano sembrava soddisfatto e stava già per andare oltre, quando la donna non si trattenne e volle aggiungere un pericoloso inciso.

“E come potrebbe testimoniare mezza Italia, Firenze compresa – soggiunse – dato che non c'era oratore, in quel periodo, che non si divertisse a raccontare a tutti quanti di come io e Giovanni non ci curassimo troppo di farci vedere in giro per la mia rocca ad amoreggiare...”

“Questo, magari, non dirlo.” la riprese Francesco, per poi accigliarsi, pensando che in effetti quello poteva davvero essere un punto a favore della loro parte, e aggiungere: “O, almeno, non dirlo in questo modo...”

 

Siccome Giampaolo Baglioni tentennava a far qualcosa per riprendersi la sorella Pantasilea, il Valentino aveva deciso di occuparsi, nel frattempo, di un altro problema che stava rinviando ormai da troppi giorni.

Aveva così ordinato a Michelotto di condurre i due cugini a Città Della Pieve, passando per Cagli, fingendo di volerli condurre a Roma per parlamentare con il papa. In realtà le disposizioni precise che il Duca aveva dato all'amico non conducevano fino a Roma, ma davano precisa indicazione di sistemare una volta e per tutte la questione dei due Orsini che ancora attendevano che si compisse il loro ineluttabile destino.

Il Corella, di norma abituato a soddisfare ogni desiderio di Cesare, anche quando si trattava di stupidi capricci, quella volta sentiva uno strano peso sul petto all'idea di tradire così la parola data ai due condottieri. Non si trattava tanto dell'idea di ucciderli, a pesargli, quanto la speranza che vedeva rilucere nei loro occhi al pensiero che, potendo discutere con il Santo Padre, avrebbero potuto negoziare a sufficienza da aver salva la vita.

Così, quando entrarono in Città Della Pieve e chiese loro di seguirlo, non ebbe il coraggio nemmeno di guardarli in volto. Lasciò che fosse il suo assistente a tenerli fermi, nel momento in cui i due intuirono cosa stesse per capitare.

Condotti in un corridoio stretto, di un palazzo che non conoscevano, colsero il silenzio colmo d'attesa e i passi grevi di Miguel e dell'altro soldato, ormai più simili a quelli di due boia che non di due uomini che facessero loro da scorta armata.

Quando giunsero nella saletta appartata che il Corella aveva scelto come teatro per l'ultimo atto dei due condottieri che avevano osato sfidare i Borja, Paolo Orsini – che si sentiva tremendamente in colpo per essere stato il primo, o forse addirittura l'unico, a essersi mai fidato davvero del Duca di Valentinois – si gettò in ginocchio e, aggrappandosi alla cappa di Miguel implorò: “Lasciate che mi confessi. Lasciate che muoia da cristiano, che scarichi la mia coscienza...”

Anche Francesco Orsini, ormai del tutto conscio di quello che sarebbe accaduto a breve, si mise in ginocchio, anche se più lentamente, e, chinando il capo, domandò: “Posso chiedere che venga concessa anche a me la grazia di una confessione, prima di morire?”

Il Corella, che di norma non avrebbe concesso proprio nulla, vedendo anche una confessione a un prete come una pretestuosa perdita di tempo, non ce la fece a negare quell'ultimo favore ai due Orsini e così disse al suo assistente: “Porta qui un confessore. Che sia svelto e collaborante.”

Detto fatto, un religioso, munito di stola e libro di preghiere, giunse trafelato e ansimante nella saletta e, senza fare domande a Miguel, né permettendosi di chiedergli di uscire e lasciare un po' di privatezza ai due condannati, si sistemò accanto a Paolo Orsini e cominciò a sussurrargli qualcosa all'orecchio.

Michelotto rimase in un angolo, guardando altrove, ma riconobbe i segni e i rituali, colse anche la finezza del prete, che volle ungere con l'olio degli infermi entrambi gli uomini e poi lasciò che il religioso se ne andasse in silenzio, senza né mettergli fretta né commentare in modo aspro o denigratorio come avrebbe fatto in altre circostanze.

Quando si trovò solo coi due Orsini, richiamò nella stanza l'altro soldato, ma era abbastanza sicuro che non ci sarebbe stato motivo di chiedere aiuto a trattenere l'uno mentre uccideva l'altro.

Estrasse dalla sua scarsella la corda di violone che portava con sé da quando a Senigallia aveva spento due altri grandi guerrieri, Oliverotto e Vitellozzo, e poi si mise dinnanzi a Francesco Orsini, convinto che Paolo, in fondo, meritasse di vedere morire il cugino, visto che era in parte per colpa sua se i condottieri ribelli erano arrivati a quel punto.

Con un gesto rapido e preciso, Miguel strinse il collo dell'Orsini con la corda e strinse così forte da strangolarlo in pochi secondi. Mentre il corpo di Francesco si riversava in terra privo di vita, Paolo cominciò a piangere sommessamente, senza fare scenate di dolore o paura, ma mostrando solo un profondo cordoglio e un ancor più profondo pentimento.

Senza dire nulla, il Corella si pose davanti a lui. Non si imbatté in nessun tentativo di liberarsi dalla stretta mortale, né l'Orsini provò a gridare. I suoi occhi arrossati dal pianto, all'inizio chiusi, si spalancarono solo in una stranita espressione di stupore. Le mani del morente corsero istintivamente al collo, sempre più avviluppato nella corde del violone, sanguinante per il profondo solco lasciato dall'arma impropria.

Miguel continuò a stringere fino alla fine, digrignando perfino i denti per lo sforzo e facendosi male alle mani. Solo quando fu certo, più che certo che Paolo Orsini fosse morto, solo allora lasciò la presa.

Indeciso se farlo o meno, alla fine recuperò la corda di violone e se la rimise nella scarsella e poi fece un cenno al soldato che era lì per assisterlo e gli disse, secco: “Sistema tutto come eravamo d'accordo... Tra mezz'ora al massimo voglio andarmene da qui.”

 

“E sembra che a questo ballo al palazzo dello Strozzi Lucrecia sia stata tra le dame più invidiate e corteggiate...” stava riferendo Fortunati, che aveva ricevuto un breve dispaccio da uno dei suoi aiutanti di Cascina, il quale pareva avere un vero debole per i pettegolezzi mondani: “Bembo, quel letterato che tanto piaceva a Madonna Este... Dicono che non abbia avuto occhi che per la giovane Borja...”

“Immagino la gioia di Isabella...” commentò aspra Caterina, alla quale non interessavano affatto tutte quelle chiacchiere, ma che, per il quieto vivere, non poteva sottrarsi bruscamente al piovano.

In quel giorno nevoso, inoltre, non c'era molto altro che potesse fare, per passare il tempo. Sforzino stava studiando con frate Lauro, e Galeazzo si stava dedicando, concentrato come non mai, a qualche esercizio matematico in solitudine. Bernardino era, stranamente, con Bianca, forse attirato più dal poter accudire il nipotino Pier Maria che non per stare vicino alla sorella.

Francesco, infine, era lì con lei, ma sembrava intenzionato a parlare e basta, aumentando il tedio di quella giornata infinita.

“Isabella ha i suoi motivi per essere contenta, comunque...” soppesò Fortunati: “Ha da poco firmato un contratto vantaggioso con un pittore che chiamano Perugino, per un'opera che rappresenti la lotta tra amore e castità...”

“Lotta tra amore e castità...” sbuffò la milanese, tra il divertito e l'irritato: “Suo marito Francesco dovrebbe farsi due domande...”

“Al ballo, comunque, c'erano tutti quelli che contano... Mancava solo Ercole Este, che dicono sia andato direttamente a Belriguardo... Comprensibile, alla sua età...” continuò a dire il fiorentino, apparentemente insensibile alla noia dell'amante, ignorandone volutamente l'acidità: “Alfonso, Ferrante, Giulio... Perfino Sigismondo era con loro, malgrado sia così pio e schivo alle feste... I giovani Este c'erano tutti.”

“Capisco il tuo interesse per questa cosa...” fece alla fine la Leonessa, stremata e stanca di sentir parlare di gente che non conosceva, o molto poco, e che non aveva molto a che fare né col suo passato, né col suo presente: “Ma mi interesserebbe di più, per esempio, sapere cosa sta succedendo a Venezia.”

“A Venezia?” chiese Fortunati, accavallando le gambe sotto al vestone da religioso e accigliandosi.

“A Venezia ci sono quel pazzo di Pandolfo Malatesta e Giovanna Malatesta, vedova di Giulio Cesare da Varano... E poi c'è la nuora della Malatesta, che è nipote di Giuliano Della Rovere, e da quello che so perfino Guidobaldo da Montefeltro sta correndo dal Doge...” elencò Caterina, infervorandosi tanto da lasciare la poltroncina su cui era appollaiata e cominciare a girare per la saletta: “Tutti questi sono potenziali nemici per il papa e amici per me. Se solo avessimo modo di...”

“Come fai a dire che Guidobaldo da Montefeltro stia andando a Venezia?” la interruppe Francesco, sconcertato: “Nessuno sa dove sia... Il Valentino lo sta cercando in lungo e in largo, perfino qui in Toscana...”

“Così mi hanno scritto dei vecchi amici, dalla Romagna.” riferì, riluttante, la donna: “Dicono che sia passato da Bologna, fermandosi all'osteria del Montone, e dicono che i Bentivoglio l'abbiano deliberatamente ignorato, forse per paura di attirare il figlio del papa a Bologna...”

“I tuoi vecchi amici sono molto informati, direi...” ribatté a quel punto il piovano, sospettoso: “Mi chiedo se possa io sapere di chi si tratta...”

“Non li conosci, tanto.” tagliò corto la Leonessa, credendo che sarebbe stato troppo complicato spiegargli come alcuni dei suoi vecchi soldati, che erano stati anche suoi fugaci amanti, si sentissero in dovere di aiutarla ancora dopo anni, riferendole, quando possibile, ogni genere di dettaglio o diceria che potesse tornarle utile.

“Ho capito.” sussurrò il fiorentino, intendo abbastanza quale potesse essere la natura dell'amicizia che legava Caterina ai suoi delatori: “In ogni caso, non dovresti guardare troppo a Venezia... Ora la tua priorità è il processo. A riprendere Forlì ci penserai in un secondo momento.”

La donna tacque, chiedendosi se quella di Francesco fosse stata una considerazione generica, o se si fosse ricordato di quando, qualche notte addietro, lei gli avesse confessato, resa vulnerabile dalla passione, la sua voglia profonda di riconquistare il suo Stato.

“Invece io credo che sia utile, anche per il processo, avere un quadro generale di quello che...” si affrettò a schermirsi lei, ma prima che potesse finire, Creobola fece capolino alla porta, senza bussare, annunciando l'arrivo di un messaggio.

Infastidita dal comportamento scostante della strana serva che più di tutti gli altri, ormai, conosceva i segreti della famiglia, la Sforza la ringraziò e prese la missiva, chiedendo se fosse attesa risposta.

“Sì, ma senza fretta.” rispose Creobola: “Il messaggero ha detto di aver fame e si sta già strafogando nelle cucine... Non credo che voglia ripartire all'istante...”

Chiedendosi chi mai avesse mandato un corriere tanto sfacciato, la Leonessa ringraziò ancora una volta la donna e poi le indicò la porta con un cenno, e senza dover aggiungere altro, la guardò mentre usciva, lasciando di nuovo lei e Fortunati soli.

Tesa, nel vedere come all'esterno della missiva non ci fossero intestazioni di sorta, la milanese la spiegò subito dinnanzi a sé e cercò, per prima cosa la firma.

Si era per qualche motivo convinta che potesse trattarsi di un messaggio segreto di Luffo Numai o, perché no, che fosse finalmente giunta la convocazione a Roma per Bianca, che si faceva ogni giorno più impaziente di raggiungere il suo promesso sposo. Perciò rimase un attimo sorpresa nel leggere la firma di Scipione Riario.

Il giovane, che lei, ormai da tempo, considerava alla stregua di un figliocco, le scriveva di aver saputo che a fine mese ci sarebbe stata una bella processione in città, a Firenze, per far reverenza alla Cappa di San Francesco, che i fiorentini avevano preso dal castello di Monte Aguto. Il Riario suggeriva di proporre tanto a Sforzino, quanto a Bernardino di raggiungerlo per allora in città, in modo da permettere al primo di soddisfare una curiosità religiosa che di certi nutriva verso quella reliquia e all'altro di soddisfare curiosità molto più terrene, ma altrettanto importanti, come aveva fatto durante il suo ultimo breve soggiorno a Firenze. Se i due fratelli, insomma, erano disposti a accettare e sopportare almeno in parte i passatempi l'uno dell'altro, Scipione li avrebbe presi volentieri con sé per qualche giorno.

“Va tutto bene?” chiese Francesco, guardando il volto della Tigre che non nascondeva una certa delusione.

La Sforza, che tutto si era attesa tranne quel messaggio tanto innocuo e di ordine familiare, sollevò appena le spalle e commentò: “Sì, non è niente di che...” sbuffò lei, scuotendo il capo: “Anzi, vado subito a rispondere, così non ci penso più.”

Lasciando la sala in fretta, senza badare alle domande che Fortunati le aveva rivolto e che lei nemmeno aveva sentito, Caterina raggiunse i suoi alloggi, prese una pagina bianca e scrisse che avrebbe chiesto ai figli cosa volessero fare, accennò, senza parlarne apertamente, alla possibile vicina partenza di Bianca e al desiderio espresso da Bernardino di aspettare a lasciare per qualsiasi motivo la villa, per poterla salutare. Poi aggiunse, parlando sempre per sottintesi, che Sforzino avrebbe potuto benissimo passare qualche notte da solo in casa, senza doverli accompagnare a destra e a manca. Dubitava, infatti, che il Riario avrebbe sopportato di trascorrere ore in un postribolo, fosse anche solo per attendere i due fratelli. Anche se aveva già passato i quindici anni, Sforzino non dimostrava, apparentemente, interesse in certe cose e, anzi, in alcuni momenti la Leonessa si chiedeva quali potessero essere le sue reali preferenze, ma ogni volta abbandonava quel periglioso percorso e pensava ad altro.

Firmata la lettera, andò personalmente nelle cucine, dove trovò il messaggero con una coscia di pollo ancora in mano.

“Questo cibo non ce lo regalano...” disse, fredda, porgendogli la missiva, ma poi, ricordandosi delle gentilezze gratuite di Scipione, si ammorbidì e concluse: “Comunque, mangiate quello che volete e poi tornate da messer Riario e portategli questo messaggio e i miei saluti...”

Il ragazzo annuì e ringraziò, senza smettere un istante di masticare. Lasciando la cucina, la Tigre si imbatté di nuovo in Creobola, e, convinta che fosse tra le poche che davvero le potesse ubbidire, le chiese di assicurarsi che il messaggero finisse di mangiare in tempi ragionevoli e lasciasse la villa senza curiosare in giro: si fidava ciecamente di Scipione, ma non di uno sconosciuto pagato per portare avanti e indietro qualche lettera.

Volendo provare a vedere se Fortunati fosse ancora nella saletta, la donna attraversò di nuovo buona parte della villa, passando, volutamente, davanti alla camera di Pier Maria. Origliò da dietro la porta accostata e sentì Bianca parlare a voce bassa e Bernardino rispondere di quando in quando con qualche breve asserzione.

Curiosa, trattenne un attimo il fiato e tese ancor di più l'orecchio, fino a riuscire a carpire qualche parola in più.

“Se dovesse soffrire per i denti che crescono – stava spiegando la Riario – nostra madre ha una mistura apposta da mettere sulle gengive... Almeno tre volte al giorno, in questo modo... Anche Giovannino ne ha avuto bisogno più volte...”

“Va bene, se servisse lo farò io.” rispose il Feo, serio.

“Poi potrebbe venire un momento in cui cercherà di mettere in bocca tutto quello che gli capita a tiro...” proseguì Bianca, con il rigore di chi stesse scorrendo una lista immaginaria di cose da riferire e avesse paura di dimenticarne qualcuna: “In tal caso bisogna stare attenti che non abbia a portata di mano nulla di pericoloso...”

“Starò attentissimo.” assicurò Bernardino.

“Se, comunque, dovesse prendere qualcosa che non deve e dovesse rischiare di strozzarsi, lo devi afferrare tenendolo stretto qui e...” la voce della Riario si fece ancora più sottile e Caterina non riuscì più a sentire oltre.

Le aveva scaldato il cuore sentire fratello e sorella parlarsi a quel modo e, ancor di più, la rassicurava vedere Bernardino desideroso di proteggere il nipotino, malgrado verso la sorella avesse sempre mantenuto una certa distanza, e Bianca incline a fidarsi di quel fratello verso cui non aveva mai dimostrato né uno spiccato affetto, né una particolare simpatia.

Tornata nella saletta, in cui in effetti Fortunati era rimasto, trovò l'uomo immerso nei suoi pensieri, le gambe accavallate e una mano sulle labbra, gli occhi fissi al camino acceso.

“Ti andrebbe di fare qualcosa?” chiese la Tigre, restando sulla porta.

“Cosa?” si informò lui, un po' sospettoso, come se si aspettasse di sentirsi proporre qualcosa di illecito o sconveniente.

La milanese ci pensò un momento e poi si ricordò della scacchiera, molto malconcia, che aveva ritrovato di recente in uno dei mobili del piano superiore: “Una partita a scacchi.”

“Non so giocare...” confessò Francesco, alzandosi, un po' a disagio.

Caterina gli andò incontro e gli prese le mani con le sue, dandogli un rapido bacio, confidando che non arrivasse nessuno, proprio in quel momento, a coglierli sul fatto: “Ti ho insegnato a fare cose molto più complicate...”

“Mi affido a te anima e corpo, allora...” accettò il piovano, rasserenato, e la seguì, fiducioso proprio come quando la Leonessa l'aveva accolto per la prima volta tra le sue braccia.

   
 
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