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Autore: Yellow Canadair    27/12/2022    1 recensioni
Natale di tanti anni fa.
Jabura ha tredici anni e non ha paura di nessuno, ha le nocche spaccate per le risse con ragazzacci più grandi di lui e vive di furti ai danni delle stupide tizie ingioiellate che passeggiano per la ricca città. Kumadori è stato lasciato lì dalla mamma: "torno presto, non ti preoccupare..." ma non è più tornata.
Le feste invernali portano in paese tanti turisti, tanti mercanti, e per i bambini che abitano nei bassifondi è una grande occasione per poter mangiare qualcosa, o rubare un cappotto lasciato su una sedia... peccato che la città si lamenti di queste lacere presenze, e il Cipher lo viene a sapere...
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jabura, Kumadori, Rob Lucci
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Il Natale del lupo nel bosco delle fiabe

★★ Questa storia partecipa al Calendario dell’Avvento 2022 by Fanwriter.it! ★★

 


 

La bella ragazza bionda svoltò l'angolo a braccetto con l'amica del cazzo che si ritrovava, tutte giulive. L'amica aveva un cappottino corto verde, la bella ragazza invece un morbido cappotto rosa, e una borsetta di velluto nero con i fili rossi. Lasciavano improntine delicate nella neve, che sembrava spostarsi per lasciar passare le loro scarpine di velluto e le loro chiacchiere gné gné. 

Risero ancora per chissà quale cazzata delle loro, e poi sparirono alla vista di Jabura.

Non si erano accorte di niente, pensò il ragazzino, quasi invisibile dietro un carro fermo nel centro storico dell'isola di Vigo, tra le vetrine scintillanti, la gente che schiamazzava e chiacchierava carica di pacchetti, buste e acquisti.

Due svitate. Quei soldi avrebbero fatto più comodo alla sua banda che a quelle due cretine, pensò con rabbia Jabura, stringendo fra le dita magre un sontuoso portafogli di stoffa dorata e perline e nascondendolo sotto il cappotto grigio e troppo grande per lui.

Jabura aveva tredici anni e non aveva paura di niente. Aveva le nocche spaccate per le risse giù al porto con altri teppisti suoi pari, una lista di segnalazioni al comando della Marina di Vigo di tutto rispetto, e tirava a campare cercando robaccia da rivendere al mercatino, facendo qualche lavoretto pesante da fare per i negozianti svogliati o, più spesso, ad alleggerire le tasche delle ricche signore che passeggiavano ignare.

C'erano le feste del Solstizio, il culmine dell'inverno in un'isola invernale; il sindaco dell'isola, una quindicina di anni prima, si inventato una cosa assurda nella sua semplicità per ravvivare un buco di paese con quattro pidocchiosi negozi e una chiesetta in cima alla collina: luci. 

Un tizio strano aveva inventato un tipo di candela che era quasi a rischio zero di incendiare tutto, perché aveva una specie di bolla di vetro attorno alla fiamma, e il sindaco aveva sfruttato l'invenzione: aiutato da due o tre riccastri della zona che ci avevano investito i soldi, aveva riempito il paese di luci: piccole candeline ovunque, alle finestre delle case, sui tetti, agli angoli dei canali… l'isola era diventata una immensa torta di compleanno innevata e trapuntata di luci e di ombre tremolanti. E poi aveva comprato una pagina del Giornale dell'Economia Mondiale per scriverci "venite a visitare la più grande isola delle luci del mondo", o una stronzata simile. E il gioco era fatto: nel giro di pochissimi anni erano arrivati i turisti, avevano riaperto i negozi, era sorto un nuovo centro cittadino, e adesso c'era così tanta gente che era difficile camminare nei vicoli, data la calca. 

Situazione ideale per dei teppisti pelle e ossa che vivevano alla giornata. 

«Ehi.» salutò Jabura un altro bambino, molto più piccolo di lui, seduto sotto un muro, avvolto in una coperta e con un berretto rovesciato ai piedi con qualche spicciolo dentro.

«Ehi!» rispose lui, col muso sporco di briciole che gli erano cadute anche sulla sciarpa nera che lo teneva al caldo.

«Mangiato, oggi?» fece Jabura indicando le briciole.

«Una signora mi ha dato mezza ciambella.» 

Jabura proseguì lungo la via, aggiustandosi al di sotto del cappello i lunghi capelli legati in una treccia mezzo sfatta; sapeva che entro la fine dell'anno sarebbe dovuto ripartire: la Marina ormai l'aveva preso di mira, era una faccia conosciuta, e prima o poi l'avrebbero rispedito in qualche istituto o in galera. O direttamente sulla forca come i pirati, pensò con un ghigno. Aveva però rimandato la partenza all'anno nuovo: per il momento era troppo comodo pescare banconote da diecimila, ventimila, trentamila Berry direttamente dalle tasche dei passanti. Ma non era saggio sfidare la buona sorte, stava camminando su un filo.

Era semplice per lui: bastava puntare una vittima (qualcuno troppo debole, qualcuno troppo lento, qualcuno troppo distratto…), infilare una mano nella borsa, estrarre il portafogli, scappare. 

Era svelto, in questo: era come il lupo nel bosco delle favole.

Ma non un lupo stupido come quello di cui gli raccontava sempre la vecchia dell'orfanotrofio: lui era un lupo decente, uno capace di mangiare una mocciosa senza farsi intortare con storie di nonne malate, e soprattutto un lupo capace di ammazzare il cacciatore come meritava.

Altro che cacciatori vigliacchi e nonnine felici.

Lui voleva fare il lupo: cercare da mangiare e se necessario uccidere senza rimpianti scemi.

Jabura nascose il malloppo sotto la camicia, assicurandolo per bene tra la pancia (vuota) e la corda che gli reggeva i calzoni troppo lunghi e troppo larghi, e poi scivolò via tra la folla, scansando un fattorino che scaricava le bobine di tessuto dal carro e saltando un cane che dormiva davanti alla drogheria.

Attraversò il centro della cittadina scintillante di luci, soffermandosi pochi preziosi attimi in più per riscaldarsi davanti alla porta aperta dei negozi, da cui usciva un refolo di aria calda, e arrivò infine al mercato popolare, prima dei vicoli tortuosi della città vecchia.

Vedendolo, una donna con una lunga treccia bianca guardò di sottecchi la collega della bancarella difronte; uno sguardo che voleva dire qualcosa come: "eccolo. Guardati bene la merce". La collega annuì, e seguì Jabura con lo sguardo mentre, con disinvoltura, serviva una cliente che le aveva chiesto tre chili di farina.

Jabura sapeva di essere osservato, ma chi se ne fregava? non l'avevano mai pizzicato. Era sempre stato troppo svelto per quei babbei.

Un cliente, che stava comprando delle castagne da un'altro bancone, disse al proprietario dell'attività: «Ma questi ragazzini? Devono stare proprio qui intorno? non fanno sentire molto tranquillo…»

«Cosa vuole che le dica? Abbiamo fatto richiesta al sindaco un sacco di volte, l'istituto di carità è pieno, non possono prenderli… e loro non hanno neppure voglia di lavorare. Ah, qui sono duecento Berry…»

I due osservarono Jabura sparire tra la folla, e altri due bambini andare in giro tra le gambe e le pance degli adulti per la loro questua. Danneggiavano gli affari… ma poi tornarono agli affari loro, inghiottiti dal loro lavoro: era lì che cuochi e massaie venivano a fare la spesa per le serate di festa, arrivavano a frotte da ogni ristorante e da ogni cucina della città, non c'era tempo da perdere con quel maledetto teppista che ogni tanto faceva sparire casse di mele e galline dalle stie. Maledetta Marina, perché non si occupava di tutti quei dannatissimi sfaccendati che ogni santo giorno scendevano dalla città abbandonata e venivano a infestare la parte nuova, disturbando i turisti e facendo gli accattoni?

Jabura però, fremente di curiosità per il bottino, passò oltre tutti i banchi di frutta, di formaggio, di pesce e di carne secca; si lasciò alle spalle il mercato e si inerpicò tra i vicoli tortuosi del borgo abbandonato, la città vecchia, quella che il sindaco aveva preferito ignorare e abbandonare in favore di un nuovo e moderno centro più vicino al porto e più facilmente raggiungibile dai soldi dei turisti che sbarcavano dalle navi da crociera.

 

I rumori del mercato scemarono, le lucine colorate divennero sempre più rade, le chiacchiere più fioche, i negozi sempre più piccoli, le vetrine sempre più polverose, e lui si ritrovò tra case diroccate dalle finestre buie, tra ragazzini sporchi e magri come lui.

Alcuni, troppo piccoli per andare in città a procurarsi da mangiare da soli, giocavano tra i viottoli fatiscenti, fra la neve sporca che qualcuno aveva faticosamente ammucchiato ai lati del selciato, altri ancora erano rintanati dentro le case, accanto a dei focolari faticosamente accesi, che rammendavano camiciole e pantaloni da rivendere, ben attenti a non macchiarli e stringendo i denti per il dolore ai geloni sulle dita. Molti altri erano, come Jabura poco prima, in giro a rovistare tra i rifiuti o nelle borsette lasciate aperte.

All'improvviso un rumore attirò l'attenzione di Jabura: anni e anni in mezzo alla strada lo avevano addestrato a stare sempre all'erta, a individuare sempre rumori sospetti, e anche questa volta il suo spirito non lo tradì: c'era qualcuno che piangeva, e non era uno dei soliti mocciosi che si lagnavano per la pancia vuota.

Chi cazzo era che piangeva mugolando, con un vocione grosso che cercava inutilmente di non farsi sentire, e mormorando preghiere?

«Kumadori?» chiamò sorpreso, svoltando in una stradetta dove non c'era nient'altro che case talmente pericolanti da non poter essere occupate da nessuno e una chiesetta dal portone sbarrato, sui gradoni del quale stava singhiozzando un ragazzo corpulento dai lunghi e sporchi capelli rosa. «Che fai qui?»

Kumadori aveva solo un anno in meno di Jabura, ma era già alto quasi il doppio di lui; non era certo la prima volta che Jabura lo vedeva frignare come un poppante, ma era strano che a quell'ora non fosse, come al solito, tra lo scintillante via vai della città nuova a spillare qualche soldo ai ricconi con recite di poesie strappalacrime e spettacolini dal vivo.

Kumadori strinse i denti e tirò su col naso, cercò di ricomporsi per rispondere ma scoppiò di nuovo in singhiozzi, e abbracciò Jabura che cautamente aveva provato ad avvicinarsi di più.

«Ehi, ehi, vacci piano!» protestò il ragazzo. «Si può sapere che diavolo ti prende?»

Kumadori gli porse tremando un foglio del giornale del giorno, tutto spiegazzato e bagnato di lacrime amare. Era un foglio di cronaca e parlava della "completa distruzione, senza superstiti" dell'isola di Supritt da parte dei pirati di Gold Roger. 

«E allora?» osservò spazientito Jabura.

«Mia… mia mamma era lì… yoyoyoi…» riuscì a singhiozzare Kumadori.

Jabura si fece più attento. «…come "era lì"? non era in giro per lavoro?»

Kumadori era arrivato lì a Vigo tre mesi prima con la mamma. Ma lei, all'improvviso, aveva ricevuto la visita di due uomini vestiti di nero, e così gli aveva detto "Kumadori, amore di mamma, vai al comando della Marina e di' loro che sei il figlio della signora Kumadori.  Devo andare a Supritt per lavoro, tornerò presto, non ti preoccupare. I Marines si occuperanno di te", e lei era sparita, come inghiottita dagli uomini in nero.

Però nel tragitto fino alla guarnigione della Marina aveva incontrato quel grandissimo farabutto di Jabura… 

"Stai andando dai Marine perché tua mamma ti ha lasciato solo? ma sei scemo?"
"Yoyoi, la mia buona madre me l'ha raccomandato…"
"Guarda che ti mettono in un orfanotrofio. Con me ci hanno provato. Vieni…"

Insomma, Kumadori era rimasto a vivere in strada per quei mesi, arrangiandosi con spettacoli di strada e vivendo nei bassifondi.

Kumadori strinse le labbra e cercò di asciugarsi il moccio al lembo della sciarpa di Jabura, che gliela strappò di mano. «Devi… devi promettermi di non raccontarlo a nessuno.»

«E a chi dovrei andarlo a dire, scemo? A Zezzie-tre-gambe dell'osteria?»

«Mamma… mamma era lì per combattere quei pirati.»

«Combattere con i pirati? cos'era, una Marine?»

«No… era nel Cipher.» mormorò con la voce più bassa che Jabura avrebbe mai sentito da Kumadori in tutta la vita.

Jabura lo guardò interrogativo. «…e che roba è?»

Kumadori si illuminò lievemente, come una delle fiammelle delle strade dei ricchi. «Sono agenti segreti! Fanno cose segrete, indagano sui delitti, arrestano persone!»

«Sbirri.» sputò a terra Jabura, sprezzante. «Oh, no, non ricominciare…» pregò, prima di raccogliere il pianto incessante di Kumadori. «Dai…» cercò di consolarlo, abbracciandolo bruscamente e dandogli qualche cameratesca pacca sulla testa. «Non era una sbirra cattiva, no?»

«Yoyoi, no… ma qui, qui c'è scritto che non è sopravvissuto nessuno… quindi anche lei è… è…»

Jabura sua madre nemmeno se la ricordava. Sapeva di doverla avere perché… beh, perché ormai era grande, e sapeva come nascevano i bambini. Ma non aveva nessun ricordo di lei. Non comprendeva il dramma di Kumadori, però anche lui aveva perso qualcuno, all'improvviso, anni prima, poteva immaginare abbastanza precisamente i sentimenti dell'amico.

«Senti…» disse esitante, arrendendosi con un sospiro. «Se vuoi… puoi dormire da me questa sera.»

«Yoyoi? posso?»

«Non farci l'abitudine.» lo sferzò Jabura alzandosi in piede e avviandosi lungo la strada che diventava sempre più buia, e senza il lumicino delle fiammelle a illuminarla.

 

Insieme si inerpicarono tra i vicoli tortuosi, e arrivarono a una modesta abitazione dal grande giardino incolto circondato da una recinzione di pietra, e che una volta doveva essere molto bello, ma ora era una sterpaia, e la recinzione era distrutta in più punti.

Jabura fece strada all'amico e lo fece entrare in casa attraverso una crepa nel muro posteriore. Mentre avanzavano tra i ciottoli e i calcinacci del tetto crollato, Jabura estrasse da una tasca interna del vecchio cappotto lo scintillante borsellino della signorina: aprì la prima tasca, poi un taschino interno, poi ancora la zip delle monetine, ma tutto ciò che riuscì a trovare fu una banconota da cinquemila Berry. Jabura ringhiò di rabbia: cinquemila miseri Berry. Quella stronza avrà avuto un miliardo di Berry solo di scarpe e vestiti addosso, e nel portafogli? cinquemila fottuti Berry?! 

«Fanculo!» ringhiò gettando a terra il sontuoso portafogli.

«Yoyoi, non ti soddisfò la caccia di oggi?» chiese cautamente Kumadori, scavalcando un divano marcio e dilaniato che ostruiva il passaggio.

«Manco per il cazzo.»

«Eppur con cinquemila Berry potresti mangiare almen tre giorni!»

«Tre giorni? Ma se siamo in due.»

«"Siamo in due"? cosa odono le mie orecchie? Oh giovane amico, tu apristi la tua casa e il tuo cuore a questa sventurata anima!»

«Solo perché altrimenti saresti così scemo da farti prendere dai Marine. Domani vai a comprare qualcosa da mangiare… se vado io, pensano subito che abbia rubato i soldi a qualcuno.»

Parlando, arrivarono nell'unica ala rimasta in piedi, in una grande cucina con un camino centrale e un giaciglio in un angolo, dove dormiva Jabura; era abbastanza grande perché potessero entrarci tutti e due.

Kumadori si guardò attorno: doveva essere stata la cucina di una grande casa, forse nobile, e lì dovevano essere stati preparati i fastosi pranzi di chissà che importante famiglia; riusciva quasi a vedere, attorno a sé, gli spiriti dei cuochi, dei servi, delle fantesche, che si rincorrevano in un ballo lugubre, che sparì davanti ai suoi occhi quando Jabura, facendo un fracasso infernale, gettò nel camino dei ciocchi di legno per accendere il fuoco.

Kumadori gli passò il foglio di giornale. Jabura lo prese, sfregò un fiammifero, ed entrambi in silenzio videro quel "Tragedia a Supritt" prendere lentamente fuoco e accendere il legname secco.

 

Urla. Urla nei vicoli e cani che abbaiavano.

Jabura fu il primo a svegliarsi, e a spalancare gli occhi nella notte gelida. 

Intravide le braci sotto la cenere del camino, unici puntini di luce rossa in un buio freddo. Però c'era qualcos'altro: odore di bruciato.

Porca miseria, prima o poi doveva succedere: aveva preso fuoco qualcosa in città, con tutta la stronzata delle luci sparse ovunque, anche vicino a roba infiammabile. 

Il ragazzo uscì dal letto con circospezione e si arrampicò fino alla finestrella della cucina salendo su una cassa e issandosi in punta di piedi.

Il cielo della notte si era tinto di rosso, il fuoco saliva dalla città vecchia e arrivava a sfiorare le nuvole basse, si sentivano le urla dei bambini e, imperiosi, ordini urlati e scariche di fucileria.

"I pirati"? pensò Jabura subito, ma poi guardò verso la città nuova: sembrava immobile come al solito, una bomboniera di neve silenziosa e perfetta. Tornò a guardare tra i vicoli del vecchio borgo: la luce delle fiamme provenienti dalle vecchie case illuminavano spettralmente le stradine, frotte di ragazzini scappavano, squadroni di uomini vestiti di nero entravano nelle case, buttavano giù dalle finestre mobilia, appiccavano il fuoco ai materassi messi davanti ai portoni.

Jabura guardava tutto con gli occhi sbarrati. Che cazzo stava succedendo?

Corse a svegliare Kumadori, e insieme si affacciarono alla finestra montando sulla stessa cassa.

In quel momento un materasso veniva dilaniato dal fuoco davanti a un uscio, i bambini della palazzina saltavano via dalle finestre e finivano tra le braccia degli uomini in nero.

Kumadori scese in fretta dalla cassa e tirò giù anche Jabura, preso all'improvviso dalla frenesia di andarsene. «Dobbiamo scappare più veloce che le nostre gambe possono.» mormorò. «Son uomini del Cipher.»

«Del Cipher? quelli di tua madre?» 

Kumadori rapidamente si mise gli scarponcini, il cappotto, la sciarpa, e cominciò ad afferrare tutto ciò che aveva sparso nella stanza e a ficcarselo in tasca: tozzi di pane, monetine, libriccini da cui prendeva le poesie, quadernini. Jabura, cominciò a fare lo stesso, anche se non aveva afferrato del tutto la situazione. Intanto Kumadori disse ancora: «Una grande forza di volontà accomuna gli agenti del Cipher… uomini coraggiosi e senza tema di pirati e masnadieri… ma tuttavia decisi a seguire qualsiasi ordine venga loro imposto! mio buon Jabura, non lo so che ordine abbiano… ma se devono distruggere questo posto… non si fermeranno finché non saremo tutti morti.»

Un boato fece tremare tutta la vecchia casa e sfarinare l'intonaco.

Dalla strada arrivarono vocii, grida, confusione: erano arrivati fin lì.

«Li sento! sono in due qui dentro!!» arrivò una voce dalla strada sottostante.

«Come cazzo hanno fatto a trovarci??» ringhiò Jabura. Infilò gli scarponcini e infilò i capelli sotto un cappello. «Muoviamoci, usciamo dal retro!»

 

«Signor Jerry, capitano.» disse un agente. «Abbiamo quasi finito. Le vittime dovrebbero essere solo dodici, stando all'ultimo rapporto della zona nord, e abbiamo finito di pattugliare anche il quadrante ovest. Rimane solo questa casa.»

«Perfetto.» disse Jerry, colpendo tra loro i pugni chiusi in grossi guantoni da boxe. «Facciamo in fretta. O li prendiamo, o li eliminiamo.»

«In quest'ordine?» chiese chiarimenti il subordinato.

«In quest'ordine.» confermò il capitano della squadra speciale del Cp6, Jerry.

L'agente si girò verso la casa e verso il resto dello squadrone: «Date fuoco a tutto! circondate lo stabile e fateli uscire.»

Jerry osservò le fiamme che salivano e i suoi uomini che radunavano i bambini superstiti. Qualcuno era finito male, ma pazienza: gli ordini erano di sgomberare. Chi gliel'aveva detto di scappare attraverso dei caseggiati pericolanti e in fiamme?

Il sindaco era stato chiarissimo: come aveva scritto nella richiesta al Cipher? "estirpare quelle erbacce infestanti che avevano attecchito nella parte più antica della nostra città, occupando abusivamente le case dei nostri onesti cittadini". 

Nel Cipher invece le nuove leve scarseggiavano, c'era bisogno di sangue nuovo e alcuni di quei teppisti, stando ai racconti del sindaco, potevano avere la verve giusta per diventare agenti: staremo a vedere, pensava Jerry saltellando sul posto per scaldarsi.

 

L'odore di fumo era sempre più pressante: Kumadori cominciò a tossire e Jabura si alzò la sciarpa sul naso. La temperatura stava salendo, i bagliori delle fiamme abbracciavano la vecchia casa, il fumo faceva salire le lacrime agli occhi e ovunque si sentivano i sinistri scricchiolii del legno delle travi che veniva mangiato dal fuoco.

Kumadori, tossendo e inciampando fra i laterizi sconnessi, si accucciò per terra. «Yoyoi mammina, mammina mia, aiutaci, aiutaci a trovare l'uscita!»

«Idiota, non fermarti!!» ringhiò Jabura prendendolo di peso e spingendolo via. «Muoviti! Cammina!»

Kumadori scoppiò in lacrime: «Non possiamo farci niente, dobbiamo arrenderci, dobbiamo dirglielo che non abbiamo fatto niente!»

Jabura lo prese per il bavero e gli urlò in faccia: «Se ti fermi crepiamo tutti e due qui! lo capisci o no? dobbiamo uscire!!» e lo trascinò via, e Kumadori non oppose alcuna resistenza. Il fuoco faceva crepitare le assi della casa, il fumo riempiva i loro polmoni e le loro bocche. Arrivarono alla crepa per uscire, ma un crollo aveva ostruito l'ingresso, impossibile proseguire.

Jabura prese Kumadori per una manica e lo condusse da un'altra parte: conosceva un'altra uscita, più lontana, cioè un vecchio montacarichi che era semidistrutto e aveva la tromba infestata da piante e dall'acqua di falda. Il montacarichi non esisteva più, ma la sua struttura era diroccata e aveva una grossa spaccatura nel muro esterno: sarebbe bastato saltare la tromba per ritrovarsi fuori dall'edificio. Era in una zona di servizio, dal lato opposto rispetto alle forze del Cipher, e forse sarebbero riusciti a passare.

Tossivano sempre più forte, incespicavano nei cocci per terra, ma finalmente arrivarono al vecchio montacarichi, e dall'altra parte non sembravano esserci governativi. Jabura quasi non riusciva a respirare più, tossiva e aveva gli occhi pieni di lacrime. 

«Dai, muoviti, passa!» incitò Jabura «Devi saltare centrando il buco nel muro!» ma la spaccatura si vedeva a mala pena. Il ragazzo se ne rese conto e propose: «Ti faccio strada! salta esattamente da dove salto io!»

E vide gli occhioni di Kumadori spalancarsi verso l'alto, il suo braccio che si sollevava, l'urlo: «Arretra!!!!»

Jabura guardò in alto e vide una trave in fiamme piombare dritto su di lui, dall'alto del montacarichi.

Kumadori lo afferrò per il braccio e lo tirò indietro, ma troppo tardi: la trave si abbatté con forza sul ragazzo, centrandolo in pieno volto e poi cadendo nella tromba del montacarichi.

Kumadori in lacrime prese Jabura per le spalle, lui ringhiava e piangeva rabbioso, e si premeva le mani in faccia.

«Yoyoi, Jabura! Compagno mio, dimmi qualcosa!»

Jabura, a terra tra le braccia di Kumadori, si tolse dal volto le mani piene di sangue, si rialzò in piedi stoicamente e dichiarò: «Non cediamo adesso, andiamo!» non sentiva dolore, non sentiva niente, aveva la vaga percezione di aver perso metà del campo visivo.

Stavolta fu Kumadori a saltare per primo, infilarsi nella crepa, e poi aiutare Jabura a superare il balzo.

«Yoyoi, sei… sei sicuro di stare bene?» chiese Kumadori spaventato, mentre si allontanavano dalla casa in fiamme e dalle urla dei governativi. Il suo compagno era pallido, metà del volto era una maschera di sangue, e l'occhio sinistro non si vedeva più. 

«No…» barcollò Jabura. «No, muoviti. Andiamo.» lo spronò. Prese una manciata di neve dal ciglio del vicolo e se la buttò in faccia, e quando ricadde era cremisi: cazzo, il freddo era un sollievo, ma non potevano lasciare tracce così evidenti. 

Kumadori prese per mano l'amico e se lo trascinò dietro, cercando di infilarsi nei vicoli più bui, allontanandosi dall'incendio e dai governativi, e scomparvero insieme nel bosco che delimitava la città vecchia, inoltrandosi nella montagna.

 

«Jabura! Jabura, mascalzone, svegliati!»

Cosa cazzo…? quella voce…? pensò Jabura affaticato.

«Jabura! Che ci fai ancora a letto? Muoviti! I tuoi compagni sono già alzati!»

Era arrochita dall'alcol, brusca ma maledettamente familiare.

Jabura spalancò gli occhi e vide un volto che conosceva benissimo, che pensava non avrebbe rivisto mai più.

«Shakiin?» mormorò. Che cazzo ci faceva il vecchio Shakiin lì? con quei suoi maledetti capelli acconciati in tre punte, i baffoni lunghi già mezzo grigi anche se avrà avuto trent'anni… «Che cazzo ci fai qui?»

«Devi alzarti. È Natale, briccone, non vorrai rimanere a letto fino a tardi?», gli disse Shakiin, scuro in volto.

«Porca miseria, ma dovevi proprio morire? non dovevi difendere il tuo branco, maledetto?» lo rimproverò il giovane Jabura, ingoiando un groppo.

«Morire io?» si offese pure! «A letto senza cena!» ma Jabura sapeva che poi gli avrebbe portato un biscotto… le immagini si accavallarono, si confusero. Bruciava la testa, bruciava la faccia, Jabura si portò le mani al volto e sentì una voce lontana lontana che urlava, disperata…

 

Si svegliò di soprassalto, dilaniato dal dolore. Era l'alba, un'alba ghiacciata, lui era a terra sotto una specie di anfratto creato dalle radici di un albero, un rifugio appena sufficiente a non farlo bagnare con la neve che cadeva. Dov'era? Dov'era Kumadori? Il volto bruciava, si guardò attorno, un velo cremisi offuscava la sua vista.

La neve, la neve, prese una manciata di neve e se la sbatté in volto. Che cazzo era successo? La fuga, la casa in fiamme, i governativi… e Kumadori? dov'era Kumadori?

Il cuore gli pulsava in faccia. Non si sentiva i piedi, non si sentiva le mani, era bagnato, stava tremando. 

Si issò in piedi, sbattendo la testa contro le radici dell'albero.

Inciampò in un oggetto: lo conosceva, era il quadernino rosso di Kumadori, quello che aveva salvato dalla loro casa prima di abbandonarla… come se fosse stato forzatamente aperto su una pagina, il quadernino si aprì, e Jabura a fatica lesse la grafia piena di riccioli di Kumadori:

 

"non osare il tuo corpo muovere dal rifugio sicuro.

Conduco lontano il Cipher dal tuo riposo."

 

Jabura ci mise qualche secondo per capire il significato del messaggio.

Cretino deficiente figlio della merda, aveva fatto da esca!! Li aveva portati via da lì visto che era inverno, c'era la neve, lui perdeva sangue e sarebbe stato una facile preda!

Ringhiò alla luna (che comunque non c'era, perché era nuvoloso), e poi si gettò all'inseguimento, avviandosi più in fretta che poteva giù dalla montagna e dirigendosi verso la città.

 

Arrivò giù al porto che il sole era sorto da poco, col fiato corto e bagnato come un cane.

«Che ci fai tu qui?» mormorò uno dei manovali del mercato, di quelli che guardavano storto Jabura ogni volta che attraversava quella strada. «Non ti dovevano sbattere dentro?»

Jabura gli andò addosso, lo prese per il bavero e gli urlò a mezzo centimetro dalla faccia: «DOVE. DOVE HANNO PORTATO GLI ALTRI? DOVE LI HANNO PORTATI, CAZZO?»

«FIGLIO DI PUTTANA» gli assestò un pugno in faccia che lo fece rotolare giù, nella neve. «Ve l'avevamo detto di non provocarci… di non rovinare la nostra città… e invece siete rimasti in quel cazzo di buco di paese, non si poteva camminare senza vedere uno di voi pidocchi a chiedere soldi…» assestò un calcio a Jabura. «I tuoi amici sono al porto, pezzo di merda. L'immondizia va portata vi-»

Jabura gli saltò alla gola, caddero a terra, le sue mani artigliarono la trachea dell'uomo, a sangue freddo, premette quelle vene pulsanti di sangue e cattiveria, premette con forza, l'uomo lo prese a pugni, lo colpì a ripetizione, Jabura non mollava la presa.

L'uomo smise di combattere.

Qualcuno urlò.

Jabura scese dal cadavere.

Il porto. Aveva detto "al porto".

 

Corse come un diotifulmini nelle strade ancora addormentate del paese, arrivò al porto, riconobbe una grande nave dalle vele bianche e con il maledetto simbolo del Governo Mondiale dipinto sfacciatamente ovunque.

Alle sue orecchie arrivavano le voci dei ragazzini.

Voleva fare una strage.

Sospirò per darsi una calmata, non poteva fare una strage. L'avrebbero ucciso prima di avere il tempo di trovare Kumadori.

 

Due agenti giacevano a terra nel loro stesso sangue, poco distanti. La stanza era buia, ma era appena sottocoperta, Jabura era stato bravissimo a seguire l'odore e le voci dei bambini fino ad arrivare davanti alla gabbia di Kumadori. Crollò sul pavimento davanti al suo amico, prese a pugni le sbarre della gabbia, furioso.

«Jabura, mio compagno, mio fratello» singhiozzò Kumadori cercando di afferrare il volto e le mani di Jabura attraverso le sbarre. «Sì grande il tuo peccato. Cessa di combattere, te ne prego.»

«Che cazzo stai dicendo maledizione, ce ne andiamo di qui! Muoviti, rompi queste sbarre!»

«Hai ucciso due agenti del Cipher, devi scappare. Non indugiare qui ma prendi il mare, nuota più veloce che puoi. Lì v'è un oblò, e senz'altro magro come sei ci puoi passare!» gli suggerì.

«Non ci penso neanche.» ringhiò Jabura.

«ECCOLO!»

Kumadori alzò la testa, Jabura si voltò. Venne spianato un fucile, si udì uno sparo.

 

«Ancora che dormi? basta. Scendi dal letto.»

Shakiin, ti prego basta, attaccati alla tua bottiglia e non mi rompere il cazzo.

Jabura voleva vomitare. Si sentiva sballottato su e giù, ma non aveva neppure la forza per rimettere. 

Cercò di muoversi, ma non si mosse.

Il collo faceva male.

Era seduto. Che cazzo ci faceva seduto? voleva mettersi disteso… la faccia era una palla di fuoco, gli faceva male…

A poco a poco si riebbe. Era legato su una sedia, in una stanza semibuia. Su una nave. La luce filtrava da un oblò.

Porco cazzo…

«Oh, finalmente. Ciao.» lo salutò una donna seduta davanti a lui.

Jabura ci mise del buono a mettere a fuoco una tizia vestita da becchino, in completo nero, china con i gomiti poggiati sulle ginocchia. Aveva due splendide tette, pensò Jabura di botto. Erano letteralmente l'unica cosa che metteva a fuoco, anche perché, avrebbe pensato molto dopo, la tipa non portava nulla sotto la giacca.

«Sono il tenente Divine, tesoro. Tu sei Jabura, vero?» si presentò, mandando all'indietro una cascata di capelli biondi e issandosi sulla fronte i grandissimi occhiali da sole a mascherina.

Jabura annuì poco convinto. Doveva averglielo detto Kumadori, il suo nome.

Guardò negli occhi il tenente Divine e mormorò: «…Kumadori?» appena udibile.

Divine osservò il moccioso: era al limite. Doveva sbrigarsi.

«Kumadori è su questa nave. Sta bene. Ma parliamo di te.» sospirò e fece la sedia un po' più avanti. 

Tette abbronzate.

Jabura sapeva di star sragionando, vedeva a metà, la testa gli scoppiava.

«Quanti anni hai?» chiese la donna.

«Tredici. Tu?»

Divine rise. «Ventisette.» poi si fece seria: «Sei in un mare di guai. Hai ucciso un civile e quattro agenti del Cipher Pol. Sai cosa succede adesso?»

Non lo sapeva, cazzo. «Mi uccidete?»

Divine si strinse nelle spalle. «Sì.»

Jabura sollevò lo sguardo. «E allora che stiamo facendo qui?»

«Perché mi piacciono i tipi che ammazzano quattro persone per proteggerne una sola.» sorrise il tenente. «Ti offro una scelta. O ti consegnamo alla Marina con accuse di accattonaggio, furto, borseggio e omicidi, e anche truffa e contraffazione per quando vivevi con tale Shakiin, e poi danni, lesioni personali, ricettazione e minacce a pubblico ufficiale per il periodo in orfanotrofio… oppure dimentichiamo tutto questo, e ti unisci al Cipher.»

Jabura era senza parole per la rabbia e per l'indignazione del vedere la sua vita spiata e rigettata in faccia così.

Sputò a terra un grumo di saliva e sangue. «Fanculo.» disse sprezzante. 

Divine si aggiustò la giacca; era soddisfatta da quella risposta. «Ti possiamo salvare l'occhio.» propose.

Jabura sputò di nuovo, stavolta esattamente tra i piedi dell'agente. «Consegnami alla Marina e falla finita.»

Divine era ammirata: era proprio un duro, quel soldo di cacio. Anzi, voleva fare il duro: la Percezione rivelava che, dentro di sé, quel ragazzino stava piangendo di dolore ed era terrorizzato. Ma nonostante questo, la sua facciata era impeccabile: spavaldo e stoico. Prometteva bene. Poteva alzare la posta: «Se ti unisci al Cipher, liberiamo tutti gli altri ragazzi.»

Jabura rimase in silenzio.

La faccia scottava, tutta la pelle aveva preso a scottargli.

«Liberate anche Kumadori.» contrattò. 

«Anche Kumadori. Ma in realtà, lui ha chiesto di rimanere con noi.»

Jabura si sforzò di pensare. Alla fine disse: «Quindi… rimaniamo qui io e lui?»

«Tu e lui. Due nuovi agenti del Cipher. Niente più fame.» sorrise Divine. «Niente più freddo. E assistenza medica. E credimi, tu ne hai bisogno.»

Stavolta Jabura tacque.




 

Rob Lucci posò a terra il suo bicchiere di grog sul tavolino basso di legno, e si sistemò meglio tra i cuscini spersi per terra. Hattori si era addormentato tra le sue gambe, il suo minuscolo bicchiere di grog era vuoto.

Pioveva da ore, ma non poteva abbandonare la guardia: dovevano sorvegliare un ricco mercante accusato di tramare alle spalle dei Draghi Celesti, e che viveva in una sontuosa magione in un'isola autunnale, molto fuori mano rispetto alla città più vicina. Lui e Jabura, perciò, si erano infiltrati fingendosi giardinieri specializzati.

Il problema era sorto quando erano rimasti bloccati nel seminterrato della sontuosa dependance che fungeva da deposito attrezzi e vecchi mobili, ed essendo giorni di festa era impossibile trovare un fabbro per aprire l'unico accesso del seminterrato. 

In realtà i due agenti avrebbero potuto sfondare un'intera parete con un colpo di Rankyaku, ma sarebbe saltata la copertura: bisognava aspettare. E poi, la dependance era esattamente davanti alla casa, quindi era un punto di controllo estremamente vantaggioso.

Perciò i due uomini si erano guardati attorno, avevano trovato un vecchio tappeto e l'avevano sistemato sotto la finestrella che dava sulla magione, avevano rovesciato una cassa per farne un tavolino basso, e avevano trovato una sfilza di vecchi cuscini per mettersi comodi; inoltre, la dependance era ricca di alcolici e Sathia, la cuoca, ogni tanto portava loro i cestini del pranzo. Era una situazione fortuita ideale per la loro missione, e anche un modo decisamente piacevole per passare il Natale, ma aveva un punto debole: la noia. Così, quando era arrivato il grog e Jabura ne aveva buttato giù due o tre boccali, aveva cominciato a raccontare i cazzi suoi.

Non che a Lucci interessasse la storia dell'infanzia di qualcuno, ma non c'era molto altro da fare. Hattori, poi, si era accoccolato in ascolto su un cuscino, quindi non gli rimaneva altra scelta che ascoltare il rivale.

«E quindi? ti hanno preso con appena quattro omicidi? dilettante.» disse a Jabura, quando finì di raccontare.

«Ma sentilo! "dilettante"! e comunque erano cinque in tutto!» precisò il Lupo.

«Io a quell'età ne ho ammazzati cinquecento.» lo provocò.

«Vai a cagare. Quando è successa quella storia tu eri già nel Cipher da un pezzo.»

«Tutte scuse.» rispose Lucci, sorseggiando ancora la bevanda calda.

La magione era illuminata, le finestre del pianterreno brillavano. Con un po' di fantasia, si poteva sentire la musica del pianoforte e le risate degli invitati alla festa. Lucci prese il binocolo e lo puntò verso la finestra del salone: c'erano bambini che si inseguivano tra le sedie, la moglie del mercante, altri parenti già precedentemente schedati. 

Anche Jabura si sorbì lentamente il suo grog. «Carina Sathia, a prepararcelo.» commentò. «Cerchiamo di non ucciderla, se capita che la situazione ci sfugga di mano, ok?»

«La situazione non ci deve sfuggire di mano, caro Jabura.» sottolineò Lucci posando il binocolo. «E poi quanta pena per una vecchia.»

«Non è pena: è riguardo per chi cucina bene… ah già, dimenticavo che il miglior agente del Cipher Pol non bada a queste sciocchezze!»

«È non badando a queste sciocchezze, che si diventa il miglior agente del Cipher Pol.» chiuse la questione Rob Lucci, prendendo Hattori con delicatezza e spostandolo in un morbido nido ricavato da una cassetta di frutta svuotata e riempita di panni di lana.

In genere sarebbe stato Kaku il partner di Lucci nelle missioni, ma era rimasto bloccato sull'isola di partenza a causa di un brutto malanno, così era subentrato Jabura. Una volta sarebbe stato impensabile mandare in missione Rob Lucci e Jabura: si sarebbero scannati a vicenda entro la prima giornata. Ma dopo Enies Lobby erano cambiate molte cose, e ormai potevano partecipare alla stessa missione senza uccidersi. Persino stare nella stessa stanza!

Ormai erano due agenti navigati, e sapevano di non militare più nel Cp9, ma nel Cp0: le antipatie personali non potevano compromettere gli affari dei Draghi Celesti. Anche il fatto di dover trascorrere il periodo natalizio lontano dalla base non li impensieriva: infiltrazioni e missioni non avevano calendario, anzi in quel caso forse sarebbero stati fortunati e sarebbero tornati a casa nel giro di qualche settimana. Meno male, perché Jabura era già stufo marcio di potare siepi e spalare merda.

«Quindi chi sarebbe "Shakiin"?» domandò Rob Lucci, riflettendo sulla storia che gli aveva raccontato il collega per passare il tempo.

Jabura si mise più comodo e posò accanto a sé il grog. Sogghignò amaramente, cercò le parole, poi rispose: «Il tizio che mi ha cresciuto, in un certo senso. Ho vissuto con lui e con… boh? dieci, quindici bambini, fino ai dodici anni. E poi è morto.» troncò la discussione.

«E l'orfanotrofio?» chiese Lucci, evidentemente annoiato da morire.

«Una tappa dimenticabile.» minimizzò Jabura. «Quando è morto Shakiin… insomma, c'era un'epidemia in città, stava morendo un sacco di gente.» disse mesto l'uomo «e quindi c'erano queste "tizie religiose" che andavano in giro a cercare i bambini orfani. Qualcuno deve aver fatto la soffiata che c'eravamo noi che eravamo rimasti soli… sai, alcuni bambini che Shakiin aveva preso con sé a mala pena camminavano, e quindi sono venute a prenderci. Io però sono durato poco. O meglio… le tizie religiose sono durate poco.» sghignazzò orgogliosissimo.

Rob Lucci non domandò più niente, i due uomini rimasero seduti l'uno di fronte all'altro, al tavolino basso davanti alla finestra, a vigilare sui movimenti del mercante e della sua famiglia mentre la pioggia cadeva incessante e cominciava a fare più freddo perché si avvicinava la sera. A quanto pareva, nulla era cambiato in ventisette anni: Jabura era rimasto lo stesso brigante di quando era un moccioso. 

Ed era rimasto lo stesso lupo di branco, pensò Lucci, mentre Jabura gli versava generosamente dell'altro grog nel bicchiere dal thermos e gli diceva: «Adesso tocca a te, raccontare una bella storia natalizia…»



 

Dietro le quinte…

Eccomi! Non pensavo di scrivere una storia natalizia, non pensavo di scrivere del Cipher, non pensavo di indagare il passato di Jabura, non pensavo di scrivere un'altra storia con una long in corso, e invece ECCOMI, grazie al Calendario dell'Avvento su Fanwriter.it! 

Spero che la storia vi sia piaciuta, l'ambientazione è natalizia ma… niente happy ending per nessuno stavolta: i bambini vengono sfrattati dal Cipher e Jabura riceve la sua prima e ultima proposta di lavoro della sua vita, "o con noi, o ti ammazziamo".

 

Non mi aspettavo di indagare il suo passato e quello di Kumadori, invece. Hanno sorpreso anche me! Questi due personaggi ultimamente stanno andando un po' per conto proprio e hanno preso a scriversi da soli (specialmente Jabura: sto tardando con la long soprattutto perché si è scritto una scena che non avevo minimamente previsto con un altro personaggio…! ho deciso di inserirla nella storia, ma ora devo fare in modo che non stoni con il resto).

Il personaggio di Shakiin, l'uomo che è stato l'adulto di riferimento di Jabura quando era bambino, prende ispirazione da quelle scene tanto care a Charles Dickens dove, in città poverissime e super industrializzate, un poco di buono si prende "cura" dei trovatelli, mandandoli a guadagnare qualcosa per la città, con furtarelli o elemosina. Per il riferimento grafico e il nome, Shakiin nasce da… Jabura stesso! era il prototipo, poi scartato da Oda e poi rivelato nello speciale One Piece Green. È facilmente riconoscibile qui sotto, sulla sinistra:

 

 

Nella mia storia, Shakiin non era un uomo cattivo come quelli dei romanzi di Dickens, anzi, voleva davvero aiutare i bambini estremamente poveri in una città dai bassifondi poveri e malsani. Però non aveva né i mezzi né le capacità per gestire tutti questi bambini, che quindi dovevano aiutarsi tra loro a vicenda. Muore per una brutta epidemia scoppiata per le condizioni igieniche carenti, quando Jabura aveva circa undici o dodici anni.

Grazie per aver letto questa storia e grazie a Fanwriter.it per la sempre graditissima challenge natalizia!

Se volete lasciare una recensione, ve ne sarò molto grata! mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate della storia!

Buone feste e felice 2023!

 

Yellow Canadair

 

ps per i lettori di "I Demoni di Catarina": lo so, non aggiorno da molto. Ci sto lavorando! non ho intenzione di lasciarla incompiuta, ma la real life è brutta e cattiva. Grazie per la pazienza ♥
 

 

  
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