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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giampaolo Baglioni aveva accolto con rabbia la risposta che, a Roma, era stata data alla richiesta portata dagli Alviano di costringere il Valentino a liberare Pantasilea.

Il papa aveva detto non solo di essere all'oscuro del rapimento della donna, ma, ancor di più, si era dichiarato sorpreso e offeso di vedere i sospetti ricadere proprio sul figlio. Cesare, sosteneva Alessandro VI, non aveva alcun motivo di rancore verso Bartolomeo d'Alviano, unico 'proprietario' di Pantasilea e inoltre era risaputo che la Baglioni non fosse propriamente ciò che si sarebbe definita una bellezza da far perdere la testa a un uomo... Dunque che motivi avrebbe avuto l'integerrimo Duca di Valentinois per sottrarla al marito?

Giampaolo, saputo ciò, aveva deciso che spettava a lui stesso risolvere quel problema, ma, fin da subito, si era reso conto che sarebbe stato più difficile del previsto. Tanto per cominciare non appena lasciato Montalboddo, assieme a Fabio Orsini, figlio di Paolo, e alle compagnie raminghe di Francesco Orsini e Vitellozzo Vitelli, il Baglioni si era reso conto di essere seguito.

Lui poteva contare al suo seguito ben cinquecento cavallo, cinquemila fanti e un gran numero di balestrieri a cavallo, ma Michelotto – suo era il vessillo che gli esploratori avevano scorto – poteva vantare un esercito di oltre duemila cavalli armati fino ai denti.

A Giampaolo risultava molto difficile capire come avesse fatto il Corella a scoprire il loro nascondiglio e, ancor di più, non capiva cosa volesse. Desiderava uno scontro in campo aperto, perché sicuro di vincere? Voleva coglierlo in un'imboscata e catturarlo, per consegnarlo al Borja e finire quello che aveva iniziato a Senigallia uccidendo Vitellozzo e Oliverotto? Era impossibile dirlo con certezza, anche se, dopo un primo momento, Giampaolo ebbe un dubbio atroce...

“Vuole farmi rientrare a Perugia...” sussurrò una mattina, mentre cavalcava in testa al suo esercito, percorrendo l'unica via, apparentemente, lasciata libera dal Corella.

Non aveva poi molta scelta, comunque. A Perugia aveva i suoi parenti e buona parte dei suoi soldi... Non potendo contare più di tanto su Bartolomeo d'Alviano, che si stava impegnando poco o nulla per salvare Pantasilea, il Baglioni poteva solo contare sulle proprie forze e su quelle dei suoi congiunti più stretti.

Così quel giorno, con lo strano presentimento di essere parte di una recita già scritta, ma di cui ignorava la trama, Giampaolo entrò in città e chiese di potersi incontrare subito con suo cugino, Gentile Baglioni.

“Non chiedermi come sia cominciata...” fece questo, in assetto da guerra, la testa coperta da un pesante cappuccio in cotta di maglia: “Ma fatto sta che devo tenere i miei uomini costantemente pronti a sedare risse e ormai... Ah! Guarda come vado conciato!”

Giampaolo lo squadrò di sottinsu e capì quanto fosse grave la situazione. Gentile era un uomo bellicoso e avvezzo ai disagi della vita militare, ma che, nei periodi di vita in città preferiva gli abiti eleganti e le acconciature alla moda, e tutto si poteva dire di lui fuorché fosse un fifone.

Dunque, trovarlo in mezza armatura e sporco come quando guidava il proprio esercito lasciava intendere quanto la situazione fosse degenerata da che Giampaolo aveva lasciato Perugia non molto tempo addietro.

“Qualcosa deve essere successo...” insistette il signore della città, volendo indagare l'esatta natura delle rivolte che si accendevano a sprazzi per le vie di Perugia: “Qualche voce nuova, qualche faccia che prima non si vedeva in giro... Le ribellioni non iniziano dal nulla!”

“Ti odiano.” tagliò corto Gentile: “E forse andandotene tu, loro hanno trovato quel poco di coraggio che serviva per alzare la voce.”

“O forse qualcuno, da fuori, ha soffiato sul fuoco per farlo ingigantire...” ragionò a voce alta Giampaolo, chiedendosi se il Valentino fosse in grado di orchestrare una cosa del genere.

“Fatto resta che o mi dici che abbiamo un esercito in forze tale da poter pacificare la città e permetterci allo stesso tempo di difenderci dal papa, che prima o poi calerà la sua spada sulle nostre teste – concluse, perentorio Gentile – oppure è meglio fare fagotto e metterci in salvo e pensare a riprenderci Perugia più avanti, quando cambierà il vento...”

“Quando cambierà il vento...” sospirò l'altro, guardandolo sfiduciato.

“I papi non vivono in eterno...” gli fece presente il cugino: “E il figlio, senza il padre, non sa nemmeno trovarsi da solo le terga...”

Giampaolo rise, ma solo per non risultare sgarbato. La sua mente stava già correndo al dopo, a come organizzare non solo l'uscita dalla città, ma anche alla scelta dei posti in cui ritirarsi e in cui cercare alleati per una futura riconquista.

Era così assorto, quindi, che quasi non capì al primo colpo ciò che Gentile gli mormorò di lì a poco: “Sai... Dicono che Paolo e Francesco Orsini ormai siano morti... Tutti e due. La notizia non è ancora ufficiale, ma dicono siano stati strangolati anche loro, a Città Della Pieve, come il Vitelli e l'Euffreducci lo sono stati a Senigallia.”

Solo quando colse appieno il significato di quelle parole, Giampaolo perse di colpo ogni interesse nel salvataggio della sorella Pantasilea, così come della preservazione del suo potere a Perugia, e, con improvvisa fretta, esclamò: “Partiamo oggi stesso, prima che sia notte! Fai prendere tutte le mie cose, chiama qui mio fratello Troilo e i miei figli Malatesta e Orazio!”

“Se scappiamo tanto di premura, penseranno che abbiamo paura delle rivolte e gli Oddi e Carlo ne approfitteranno e...” cominciò a protestare Gentile.

Nel sentire il nome dell'odiato congiunto, Carlo, che militava ormai da tempo al soldo del Valentino, Giampaolo ebbe un accesso incontrollato di rabbia e, dando un pugno alla parete, gridò, sputacchiando saliva e facendosi gonfiare i vasi sanguigno del collo: “Ho detto che andremo via oggi stesso! Non me ne importa nulla di questa schifosa città! I morti non comandano su niente! Tu farai quello che ti dirò io o ti passerò all'istante a fil di spada!”

E, per far seguire un'azione alle minacce, il Baglioni estrasse subito l'arma dalla guaina.

Gentile, conoscendo il temperamento del cugino, non provò più a fargli cambiare idea e disse solo, con tono pragmatico: “Vuoi far venire con noi anche Giovanni Rossetto e Giulio Vitelli o li vuoi lasciare qui come guarnigione per ritardare la resa?”

“Verranno con noi.” decise subito Giampaolo: “Ci servono due braccia come loro... Non si sa mai chi si può incontrare, su per le montagne...”

 

Cesare Borja aveva accolto con un sollievo evidente la notizia che presto, forse ancor prima di sera, Niccolò Machiavelli lo avrebbe liberato dalla sua presenza. Era cosa ormai nota che Firenze lo volesse richiamare e il nuovo ambasciatore, Jacopo Salviati, diceva ben poco al Valentino.

Gli era stato riferito che fosse il genero del defunto Lorenzo Medici, il cosiddetto Magnifico, ma al figlio del papa poco importava quali fossero i natali della moglie di quell'ambasciatore: di certo si sarebbe dimostrato meno fastidioso del ragnetto gobbo che andava sotto il nome di Machiavelli.

Così quel giorno, dopo aver accettato di malincuore di prestarsi a un lungo incontro proprio con Niccolò, al fine di augurargli un buon viaggio, il Borja si trovò abbastanza di buon umore.

Si immaginava già il fiorentino intento a raggiungere Castiglione d'Arezzo, o, almeno, quello era il nome che gli sembrava di aver sentito uscire dalle labbra umidicce di Niccolò, e in quella mattina di sole pallido nulla gli sembrava potesse andare storto. Michelotto stava inseguendo il Baglioni e presto lo avrebbe spinto fino a Perugia, quattro dei condottieri ribelli che avevano provato a farlo fesso erano morti e presto anche Guidobaldo da Montefeltro sarebbe stato stanato e ucciso, con un po' d'aiuto da parte della sorte.

Cosa poteva andare storto, in una giornata tanto serena?

Cesare si era appena messo tranquillo su uno sgabello dalla seduta in pelle, guardando verso il camino acceso, visualizzando le sue prossime mosse, che l'avrebbero visto muoversi verso Pieza, dove avrebbe soggiornato nel palazzotto che era stato regalato a suo padre, quando ancora era Cardinale, da Pio II. Da lì non avrebbe dovuto far altro che attendere il messaggio della resa definitiva di Siena. Probabilmente non avrebbe dovuto attendere molto, dato che Pandolfo Petrucci ormai era fuggito da giorni...

I suoi occhi si stavano perdendo tra le fiamme, quando sentì i passi incerti del paggio di cui si era incapricciato in quel periodo, un ragazzino biondo che ben tamponava la sua pigrizia nel cercare ogni notte una compagnia diversa.

Senza voltarsi a guardarlo gli chiese cosa volesse e in tutta risposta, il giovane, che aveva una paura folle del suo padrone, gli porse una lettera dall'aria ufficiale che arrivava niente meno che da Roma.

Il Duca la prese subito, alzandosi, e cominciò a leggere febbrilmente le parole vergate dal papa in persona. La breve di Alessandro VI lasciava poco spazio ai toni paterni con cui a volte Rodrigo si indirizzava al figlio. Era una sequela di rimproveri e reprimende con cui lo si pregava di risolvere quanto prima la questione di Pantasilea Baglioni, dato che a Roma più di un oratore – anche un veneziano, come colmo di sventura – si stavano prodigando per perorare la causa della povera sventurata.

Gli citava una lettera di lamentele che era stata inviata proprio al papa stesso e che, invece, doveva essere rivolta a lui e a lui solamente, avendo lui rapito di sua iniziativa e senza consultare alcuno, la moglie di Bartolomeo d'Alviano. Rodrigo si perdeva anche in una lunga filippica in cui accusava il figlio di non essere ubbidiente e di aver continuato anche la sua campagna contro Siena, quando invece Alessandro VI non era affatto sicuro che fosse la mossa migliore, volendosi assicurare l'amicizia sempiterna dei francesi. C'erano tante altre terre, invece della Toscana, da prendere e, inoltre, perdere così tanto tempo a correre dietro ai condottieri ribelli per ucciderli era una cosa da bambini e non da uomini. Gli Orsini, come se non bastasse, erano troppi e qualcuno di loro avrebbe potuto presentarsi a Roma per reclamare giustizia per i propri congiunti.

Cesare lasciava i suoi occhi liberi di correre sulle parole rabbiose scritte dal padre e poi, non riuscendo più a trattenersi, ringhiò al paggio di portare al suo cospetto il messaggero, affinché ricevesse all'istante la risposta da riportare al papa.

Scattando come una saetta, il ragazzino sparì oltre la porta e ritornò dopo pochi minuti, seguito dal corriere pontificio.

“Dite a mio padre – iniziò il Duca di Valentinois – di riferire a chi ha scritto questa breve con cui mi si accusa di questo rapimento, che, non essendo indirizzato a me questo messaggio, ma al rapitore della Baglioni, farmelo avere è un mandarlo da Erode a Pilato!”

Il messo ascoltava in silenzio, cercando di mandare a memoria ogni singola parola.

“E fategli sapere che io faccio quello che mi pare! Non c'è lui qui a rischiare la vita! Parla tanto, ma se ne sta a Roma! Voleva il suo impero?! Glielo sto dando!” gridava il Borja, ormai fuori controllo, la lettera del padre stretta nel pugno, tanto accartocciata da sembrare carta straccia: “Non voleva Siena? Mi spiace! Gliela darò! E gli darò anche Firenze e se non morirò prima, marcerò su Napoli e su tutto il mondo e sarò io il nuovo Giulio Cesare! Lui, che voleva essere il nuovo Alessandro Magno, cos'è riuscito a fare?! Nulla! Ingrassa come un maiale, sempre di più a ogni banchetto e pretende di darmi ordini!”

Il messaggero deglutì e poi, dato che il Valentino sembrava non aver altro d'aggiungere, chiese licenza di partire.

“Vai e corri più veloce che puoi...” sbuffò Cesare, di colpo abbacchiato: “Digli ogni cosa e fa' in modo che la capisca davvero...”

Lasciato di nuovo solo – il paggio si era affrettato a scortare fuori il messo, per non dover rimanere nella stanza con il suo padrone – il Duca si rimise sullo sgabello e si prese la testa tra le mani. Il suo piano per mettere in trappola il Baglioni stava per funzionare... Perché suo padre lo tediava a quel modo?

Si premette le tempie, maledicendo Pantasilea Baglioni, che si stava dimostrando solo un impaccio... Anche se stava servendo a smuovere il fratello Giampaolo, non lo stava facendo con la rapidità sperata e, in più, gli stava procurando solo problemi, perché sembrava che, malgrado tutte le spose bambine e le donne violate che ci fossero in Italia, ai pettegoli interessasse solo sapere se il figlio del papa avesse o meno rapito e usato violenza a una donna scialba, che aveva passato i venticinque anni, e che aveva non solo già un marito, ma anche un fratello come amante... Che gente insulsa poteva interessarsi a un pettegolezzo simile?

Senza contare, pensò con rancore il Borja, che con la Baglioni non era ancora riuscito a combinare nulla, benché ci avesse riprovato più volte... Lui, che tutti ricordavano capace, alle sue nozze con Charlotte, di giacere con la novella sposa per ben otto volte successive in una sola notte, non riusciva a farcela nemmeno una misera volta con quella dannata Pantasilea...

“Non è buona nemmeno come schiava da letto, non c'è altra spiegazione...” borbottò tra sé alla fine, scuotendo il capo e dicendosi che tormentarsi oltre era inutile.

 

Caterina, per l'inizio del suo contenzioso legale contro il cognato Lorenzo si era affidata in tutto e per tutto ai consigli di Francesco Fortunati e alla preghiere di frate Lauro che, stranamente, nel farle presente il suo impegno spirituale per la sua causa, si era astenuto dal mostrare il suo consueto sorrisetto mellifluo.

Quel giorno Niccolò di Bindo, da Pistoia, l'aveva rappresentata in veste di procuratore e, per quel che la Sforza poteva capirne, aveva fatto un buon lavoro. Per strategia concordata, aveva calcato il più possibile la mano, indicando il Medici come suo debitore di non meno di sessantaseimila fiorini e di un gran numero di ritratti e di molte altre cose preziose. La richiesta fatta ai giudici era chiara, ossia che Lorenzo fosse costretto a renderle ogni cosa, fino all'ultimo centesimo, ma era da inguaribili ottimisti pensare che così sarebbe stato davvero.

“Ci si può lavorare...” commentò Francesco, che era stato in città apposta per poter seguire l'udienza, e aveva fatto un preciso resoconto alla Tigre: “Per ora è meglio che sia Niccolò a rappresentarti... Il rischio che gli animi si scaldino è...”

“Sarei capace di tenere a freno la lingua.” ribatté la Sforza, con un risentimento che andava già a togliere credibilità alla sua dichiarazione.

Il fiorentino sollevò un sopracciglio, e preferì andare oltre, spiegando: “Sottolineare come questo sia un processo tra due cittadini di Firenze, pari grado in termini di diritti, dovrebbe deporre sicuramente a tuo favore...”

“Giovanni ha voluto dare la cittadinanza a me e ai miei figli proprio per tutelarci...” soppesò la donna, le mani in grembo e lo sguardo stanco.

Era sera tardi, ma la villa non accennava a silenziarsi per la notte. Tutti avevano atteso il rientro di Fortunati, per poterlo interrogare sugli avvenimenti della giornata, ma lui aveva detto solo qualche parola nervosa, chiedendo di essere subito lasciato solo con la Leonessa, quindi i figli di Caterina, così come frate Lauro e il De Marzi, ancora aspettavano di avere notizie certe, incuranti dell'ora sempre più tarda.

“Ciò che mi preme è poter avere la custodia esclusiva di Giovannino... Comunque Lorenzo non mi darà mai tutti quei soldi...” concluse amaramente la milanese, con un sospiro profondo: “Né riuscirò mai a mettere le mani sull'intera eredità immobiliare di Giovanni...”

“Non essere così negativa...” provò a sollevarla il piovano.

“Sono oggettiva.” lo corresse la donna: “Comunque, per ora credo che non ci sia altro da dire... Ti sarei grata se facessi tu un breve resoconto per Bossi e per Alberto...”

Francesco annuì subito e poi, facendo per alzarsi, si bloccò per un istante e le chiese: “Stai bene?”

La Tigre, con quella luce fioca e con le occhiaie dovute alle lunghe ore di veglia, sembrava pallida e triste, e nei suoi occhi verdi c'era un'ombra strana, già presente quando Fortunati era rientrato alla villa e non ancora svanita nemmeno adesso che, tutto sommato, le notizie da Firenze avrebbero dovuto averla tranquillizzata un pochino.

“Sì, certo, tutto bene. Sto bene.” rispose la Sforza, che, in realtà, malgrado la tensione per il processo, aveva passato buona parte della sua giornata a rimuginare su ben altro, ossia sulla risposta della sua lettera, arrivata da Roma, per mano di Baccino.

Le parole del cremonese, semplici, ma calde, erano state come una carezza che arrivava da lontano, per lei. Le sue promesse di badare a Bianca come fosse stata figlia sua e la sua fermezza nel dirsi felice di saperla in salute e al sicuro glielo avevano fatto sentire incredibilmente vicino. Una volta di più, quel giorno, si era interrogata nel profondo, domandandosi se mai avrebbe preso come amante Francesco, se avesse avuto al suo fianco Baccino. La risposta era sottotraccia, leggibilissima, ma lei fingeva di non capirla, e quell'ignoranza voluta l'aveva fatta sentire male per tutto il giorno.

E a farla stare ancora peggio, se possibile, c'era stato il senso di colpa nel trovarsi concentrata su se stessa invece che intenta a sperare e pregare affinché il processo per l'affidamento di suo figlio andasse bene.

“Davvero.” disse la Leonessa, con fermezza, alzandosi, come se facendo a quel modo potesse togliere ogni sospetto: “Sto bene, sono solo un po' stanca... Anche se non sono venuta anche io a Firenze, è stata una giornata lunga...”

“Certo.” soffiò il piovano: “Più tardi ti raggiungo in camera o preferisci stare da sola..?”

La Tigre sapeva bene che la domanda del fiorentino era innocente. Malgrado fossero amanti da tempo, ormai, la mente di Fortunati sembrava incapace di generare malizia. Lui non voleva sapere se lei ne desiderava la compagnia come uomo, ma semplicemente se voleva averlo vicino, anche solo per non avvertire troppo il morso della solitudine, anche solo per sentire il respiro di un'altra persona nella stanza, prima di addormentarsi.

“Sì, ti prego.” rispose quindi lei, colma di gratitudine e non riuscendo a tacitare il senso di colpa che tornava a rimorderla, al pensiero che Francesco era stato scelto per lei dal caso, al pensiero, crudele e ineluttabile, che se Baccino fosse arrivato con lei a Firenze fin da subito, il piovano sarebbe rimasto solo un amico e un confidente, ma mai e poi mai un amante.

Sorridendole, l'uomo andò alla porta e disse che avrebbe riferito agli altri quanto detto in tribunale, e poi la lasciò sola.

Caterina, indecisa se andare o meno subito in stanza, restò alla fine per almeno una mezz'ora immobile a guardare il camino. Aveva le gambe intorpidite, ma la sua mente continuava a correre, saltando da una cosa all'altra senza darle tregua, facendole quasi mancare il fiato.

Era ancora persa nei suoi ragionamenti, quando si rese conto di essere osservata. Voltandosi lentamente verso la porta, vide Bernardino che la guardava con insistenza.

Il Feo aveva compiuto da pochi mesi dodici anni e ormai dava più l'idea del ragazzo che non del bambino. Longilineo, alto, ben proporzionato, prometteva ogni giorno di più di diventare un uomo forte e affascinante. Il suo volto, benché ricordasse spiccatamente quello di suo zio Tommaso e avesse anche tratti simili a quelli di Caterina, aveva la stessa crudele bellezza di quello di suo padre Giacomo.

Forse resa vulnerabile dal sonno o dalla tensione che andava sfumando con il passare delle ore, la Tigre dovette reprimere un moto di commozione nel ritrovare nel figlio un'effige tanto riconoscibile del padre. Aveva spesso sfuggito quel confronto, trovandolo troppo doloroso, ma in quel momento tutto ciò che rivedeva del suo secondo marito era come acqua fresca per lenire le proprie ferite urenti e dolenti.

“Il piovano ci ha detto del processo...” disse il ragazzino, restando al suo posto, lo sguardo che si abbassava un po'.

“Per ora non è stato deciso nulla – provò a rassicurarlo la madre, sentendo in lui una qualcosa di stonato che la mise in allarme – e intanto abbiamo avanzato le nostre richieste, sperando che...”

“Madre...” Bernardino si schiarì la voce e poi, muovendo un paio di passi avanti, senza però osare guardarla, chiese: “Ma è vero che in tribunale vi siete fatta presentare come Madonna Caterina Sforza Riario Medici..?”

Finalmente la Leonessa capì il motivo del tono mortificato del figlio e, sollevando gli occhi al cielo, imprecando mentalmente contro Fortunati e la sua propensione a perdersi in quel genere di dettagli, raccolse le idee e alla fine spiegò: “Avrei voluto che venisse detto anche Feo, tra i miei cognomi...” deglutì, un nodo alla gola che le impediva quasi di continuare: “Lo sai che tuo padre è stato... Lui è stato l'unico uomo che io abbia mai amato davvero e completamente. Ho amato anche Giovanni, ma è stata una cosa molto diversa...”

“E allora perché..?” domandò il ragazzino, corrucciato, vedendo in quella mancanza un affronto enorme alla memoria del padre.

“I miei legali hanno pensato che fosse meglio non ricordare ai giudici fiorentini quello che ho fatto dopo la morte di tuo padre.” rispose lei, improvvisamente fredda: “Mi hanno detto che... Non era prudente riportare alla memoria di Firenze i miei peccati.”

Il Feo si morse il labbro. Stava ragionando su quello che la madre gli aveva detto, ma sembrava convinto solo in parte.

Così, per spianargli la fronte, per quanto poteva, la donna si mosse verso di lui, fin quasi a fronteggiarlo, e rimarcò: “Sforza l'ho dovuto far dire, perché è il nome che mi porto fin dalla nascita ed è il nome che mi ha permesso di essere ciò che sono stata. Riario l'ho dovuto far dire perché è il nome che mi ha permesso di governare in Romagna, all'inizio, e che ancora mi rende la nipote acquisita di un papa che, seppur morto, resta un papa. E Medici l'ho dovuto far dire perché sia chiaro che Giovannino è figlio sia mia, ma anche di Giovanni, che era mio marito.”

“Invece Feo avrebbe solo ricordato una strage...” mormorò Bernardino, stringendo i denti, il peso che si spostava nervosamente da un piede all'altro.

Chinandosi appena verso di lui – ormai non mancava molto affinché il figlio raggiungesse la madre in altezza – Caterina lo costrinse a sollevare lo sguardo e rispose: “Feo per me era troppo importante, per darlo in pasto a quelle boriose sanguisughe del tribunale...”

Bernardino la scrutò a lungo e attentamente, con uno sguardo maturo che la madre faticò a riconoscere. Alla fine, forse più per nascondere le lacrime che altro, il Feo le si gettò tra le braccia e la strinse a sé con forza.

Nel suo modo di abbracciarla, la Leonessa riconobbe una volta di più l'uomo che iniziava a profilarsi dietro al ragazzino, e si chiese, con un velo di malinconia, quanto Giacomo sarebbe stato fiero di vedere suo figlio tanto cresciuto.

“Adesso corri a dormire, che sei stravolto anche tu...” sussurrò Caterina, accarezzando la testa del figlio e inducendolo a staccarsi da lei.

Bernardino si asciugò il viso, puntando i suoi occhi lucidi in quelli versi della Tigre e poi le disse, con fermezza e con un malcelato orgoglio: “Anche per me Feo è qualcosa di importante. Così come lo è Sforza.”

La milanese allungò una mano e gli accarezzò la guancia, caldo e umida, ancora imberbe, ma coi primi segni dell'adolescenza che facevano la loro comparsa, rendendo la pelle meno liscia di quanto si sarebbe aspettata. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma la voce le moriva in gola appena provava a schiudere le labbra, così alla fine, semplicemente, si lasciò andare a un breve sorriso e permise a una piccola lacrima di scivolarle dalle ciglia.

Scaldato da quella dimostrazione di affetto, il ragazzino ricambiò il sorriso e poi, dopo aver posato per un solo istante la sua mano – dalle dita lunghe e già forti – su quella della madre, andò alla porta e sparì.

La Sforza cercò di riordinare la confusione che aveva nell'anima e quando più o meno ci riuscì, andò in camera. Trovò Fortunati che già l'attendeva, sotto le coperte, con un libro tra le mani, e, felice di trovarsi davanti una scena così familiare e rassicurante, la donna lo raggiunse in fretta e gli chiese di leggere ad alta voce anche per lei, poco le importava se il volume del piovano era un noiosissimo testo di teologia...

 

   
 
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