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Autore: Adeia Di Elferas    01/01/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Nel momento stesso in cui Guidobaldo Maria da Montefeltro era riuscito a entrare a Venezia assieme all'ormai sparutissimo gruppo di uomini che lo seguiva, il Doge l'aveva subito voluto incontrare.

Il sessantaseienne Leonardo Loredan aveva spiegato diffusamente all'urbinate come Venezia fosse disponibile a dargli ospitalità, come già stava facendo con altre figure importanti e contrarie ai Borja. Anche se la Serenissima non aveva intenzione alcuna – almeno per il momento – di imbracciare le armi attivamente contro il Valentino, i suoi canali erano stati ben lieti di offrire riparo, come Guidobaldo ben sapeva, a Giovanna Malatesta e a sua nuora, Maria Giovanna Della Rovere, così come la Giudecca era ormai una vera e propria patria per Pandolfo Malatesta. Inoltre, per quel poco che poteva, Venezia stava cercando di forzare la mano al Duca di Valentinois affinché liberasse la sventuratissima Pantasilea Baglioni, sorella del povero Giampaolo e moglie di Bartolomeo d'Alviano, condottiero proprio del Doge.

Insomma, sempre con un occhio al proprio tornaconto e con una mano sulla scarsella, Loredan era più che pronto a dar ricetto anche al Montefeltro, purché, era chiaro, sapesse come ripagarlo.

Rinfrancato da quella dimostrazione di disponibilità, Guidobaldo non aveva perso tempo, elencando le garanzie che poteva dare e assicurando la sua completa disponibilità a parteggiare per Venezia, in caso di bisogno.

Prima che fosse sera, l'urbinate venne quindi mandato al cospetto del Collegio che, su precisa indicazione del Doge, gli riconobbe una provvigione mensile di cento ducati, nonché un'agiata dimora a Canareggio, che sarebbe rimasta a sua disposizione per tutto il tempo necessario.

Proprio mentre Guidobaldo stava dando disposizioni per sistemare quel poco bagaglio che aveva con sé, Giovanni Andrea Bravo, uno dei suoi migliori soldati, per non dire il migliore – o, forse, solo il preferito – gli si avvicinò e gli chiese, nervosamente: “Stanotte devo restare qui con voi o..?”

“Avete già trovato qualche svago interessante? Venezia vi ha davvero già sedotto, dopo così poche ore?” sorrise il Montefeltro, che pur non conosceva il veronese come un uomo dedito agli stravizi.

L'altro scosse il capo e, decidendo che dire una mezza verità fosse il modo più semplice per strappare il permesso del caso al suo signore, rispose: “La vostra protetta, Maria Giovanna, è qui in città, come sapete... Nel periodo in cui mi avevate affidato il compito di farle da scorta mi sono affezionato molto a lei e, visto che suo marito è ancora nelle mani del Valentino, vorrei sincerarmi che stia bene e di buona voglia...”

Per una frazione di secondo, Guidobaldo squadrò il suo soldato in modo strano. I suoi occhi inespressivi lo stavano passando in rassegna, forse cercando di intravedere sul suo bel volto qualche indizio sulle sue reali intenzioni.

L'indagine non doveva aver evidenziato nulla di preoccupante, però, perché l'urbinate rispose, calmo: “Certamente. Anzi, se lei e sua suocera lo vorranno, potrete restare da loro. Io qui sono al sicuro, ho più spade di quante me ne servano...”

Giovanni Andrea attese ancora qualche secondo, più per controllare la propria voce che altro, e poi domandò: “Allora posso andare?”

“Andate.” lo incitò il Montefeltro, attraversato per la seconda in pochi secondi da una strana sensazione che, tuttavia, venne subito smussata dalla consapevolezza di quanto Bravo fosse un soldato ligio al dovere e, soprattutto, dall'animo profondamente cavalleresco.

 

Cesare stava guardando la strada buia sotto la sua finestra. Il palazzo di suo padre, lì a Piena, era piccolino e scarno. Anche se si trovava nel cuore della piccola città e anche se era completamente efficiente, benché disabitato da sempre dai legittimi proprietari, al Borja non piaceva.

Pienza, per lui, era troppo silenziosa e solitaria. Aveva intenzione di spostarsi già l'indomani mattina, per avvicinarsi ancora di più a Siena. Era certo che Petrucci avrebbe firmato a breve la resa, e si chiedeva quando ne avrebbe ricevuta notifica... Voleva marciare per le strade senesi, mostrare a quella sedicente Repubblica quanta forza avesse il papato, zittire una volta per tutte quella tronfia boria di coloro che si vantavano di aver inventato la democrazia...

“Mio signore...” la voce di uno dei luogotenenti del Borja, che soggiornava con lui in quel palazzo, lo fece voltar di scatto.

In uno slancio di ottimismo, si era convinto che, malgrado l'ora tarda, in quella notte di gennaio fosse appena arrivata la delibera di Pandolfo che lo rendeva a tutti gli effetti il nuovo signore di Siena.

Già dall'espressione truce del luogotenente, però, comprese di essere in errore.

“Di sotto vi attende un legato francese.” spiegò l'uomo, cupo: “Vuole parlarvi subito.”

“Non l'ho visto arrivare...” borbottò il Valentino che era stato alla finestra tutta la sera, non essendoci passatempi migliori in quel mortorio che era Pienza.

“Non so che dirvi... L'hanno appena fatto entrare...” ribatté l'altro, con un'alzata di spalle.

Forse, pensò Cesare, si era distratto troppo a guardare il cielo freddo che prometteva neve e si era concentrato troppo poco sulla stradina centrale di quella che molti definivano una 'città ideale'.

Dandosi una rapida controllata e ritenendo di essere sufficientemente in ordine per incontrare un pidocchioso messo francese, il figlio del papa seguì il luogotenente e, riconoscendo il volto del portavoce del re, chiese di essere lasciato solo con lui.

L'incontro durò parecchio, tanto che, quando ne uscì, Cesare sembrava essere invecchiato di dieci anni almeno. Il suo volto era scuro, i suoi occhi pesti e le sue labbra scattavano di continuo a disegnare un'espressione di autentica rabbia.

Nessuno osò chiedergli cosa lui e il messaggero si fossero detti. L'unico che ne sentì un valido resoconto fu il suo paggio.

Chiamato di corsa nelle sue stanze, il ragazzino già immaginava cosa attendersi dal suo padrone, ma, proprio quando stava per cedere alle lacrime – che, per altro, tanto erano gradite al Duca di Valentinois – sentì la voce del Borja spiegare, rancorosa: “Quei dannati francesi... Mi hanno fatto fesso anche questa volta! Otterrò la firma di Petrucci e anche il suo esilio, ma non ho il permesso di marciare su Siena! Re Luigi ha promesso alla città la sua protezione! Diventerà mia, ma non potrò possederla!”

Il paggio corrucciò la fronte, mentre il suo padrone andava avanti e indietro per la stanza, a grandi e rabbiose falcate, senza guardarlo. Il Borja si lasciò andare a una sequela infinita di bestemmie, senza risparmiare nessun santo, e nemmeno suo padre il papa.

“Ci scommetto che c'è sotto quella meretrice della Sforza!” sbottò a un certo punto: “Lei è a Firenze, è una fiorentina! Figuriamoci se non è riuscita a irretire quel Gonfaloniere o chissà chi altri! E Firenze ha fatto pressioni al re! Quel dannato Luigi non sa nemmeno da che parte è girato e darebbe retta a chiunque! Basta pensare alla figura che ha fatto qualche mese fa! Quella cagna di Ippolita Sforza ha sollevato le sottane e lui s'è subito calato le brache, in senso sia letterale sia metaforico!”

Il paggio che, come tutti, aveva sentito dire di quanto la moglie di Alessandro Bentivoglio fosse stata cruciale in alcuni accordi presi con il re di Francia, trovò comunque molto sconveniente l'interpretazione data di suddetta influenza dal Valentino.

“Le Sforza non sanno fare altro che...” cominciò a dire Cesare, ma poi si fermò guardò il ragazzino con un'aria stranita e chiese: “Perché ne sto parlando con te?”

Questi scosse il capo, come a dire che non lo sapeva, ma non fu abbastanza veloce da capire cosa avrebbe fatto subito dopo il suo padrone. Il colpo, a mano aperta, che lo colse in pieno viso, lo fece vacillare e quasi svenire.

“Tu non dirai a nessuno quello che ho detto stanotte...” intimò il Duca, prendendolo per il collo.

Il ragazzo scosse il capo e disse, per quel che poteva, che sarebbe stato muto come un pesce.

“E adesso mettiti a letto...” ordinò, senza quasi un filo logico, il figlio del papa.

Il paggio emise un gemito sommesso, tenendosi con una mano la guancia arrossata. Ubbidiente, ma con quel velo di riluttanza che a Cesare serviva, in quei casi, per accendersi davvero, si andò a sedere sul letto del suo padrone e aspettò.

“Userei quella maledetta Baglioni...” soppesò tra sé il Valentino, slacciandosi con gesti secchi e nervosi i lacci delle brache: “Ma tanto varrebbe mettere un fantoccio sotto le lenzuola... Tu, almeno, cerchi di opporti, quando comincio, quella sembra che nemmeno se ne accorga...”

 

Giovanni Andrea Bravo ci aveva messo quasi un'ora a trovare il palazzo che ospitava Maria Giovanna Della Rovere e la suocera, Giovanna Malatesta.

Una volta scovato l'indirizzo, ubriaco di calli e canali, il soldati aveva tergiversato per almeno un'altra mezz'ora, prima di trovare il coraggio di presentarsi alla porta. Non era da lui essere così timoroso, men che meno all'idea di rivedere una donna di cui si era innamorato, eppure quella sera sentiva di avere dei bracieri sotto ai piedi e un diavolo a punzecchiargli la schiena.

Si presentò, infine, solo quando su Venezia cominciò a cadere una fitta e densa pioggia che, a detta dei pochi veneziani che aveva potuto conoscere negli anni, presto avrebbe reso quella città una sorta di palude, con ogni piazza e ogni via coperta d'acqua tanto che bastasse ad arrivare alle ginocchia di un uomo alto come lui.

Forte del permesso ottenuto da Guidobaldo, si presentò alle guardie che presiedevano il palazzo come il nuovo responsabile della sicurezza della Malatesta e della Della Rovere, nonché dei figli di quest'ultima. Gli uomini lo squadrarono a lungo, e, malgrado il cappuccio calato sugli occhi e gli abiti già zuppi di pioggia, lo riconobbero.

Lo misero in attesa di parlare con Giovanna Malatesta e il soldato non mostrò il minimo cenno di insofferenza verso quell'imposizione. Anzi, attese immobile, fermo come una statua, e quando la sessantenne arrivò, si profuse per lei in inchini e saluti ossequiosi che, come previsto, la conquistarono subito.

La donna, che bel lo ricordava, parve un po' sorpresa dalla decisione di Guidobaldo di privarsi del suo miglior difensore per cederlo a lei, ma, proprio mentre alle sue spalle faceva capolino Maria Giovanna Della Rovere, la Malatesta concesse: “Se quest'offerta è gratuita, l'accettiamo ben volentieri... Vi farò sistemare nella stanzetta blu...”

La nuora, che era ancora a debita distanza, era stata svegliata da un insolito trambusto e, bel felice di lasciare i figli piangenti alla balia, era corsa a vedere chi fosse arrivato. Nello scorgere il veronese, sentì il fiato mancarle nei polmoni e i piedi, per un brave istante, parvero scordarsi come si camminava, tanto che, per non incespicare vistosamente, dovette tenersi al mobile più vicino.

“Chi ci fai qui?” abbaiò Giovanna, accorgendosi della presenza della Della Rovere: “Dovresti essere a badare ai miei nipoti!”

Chinando il capo, ma trovando l'ardire di lanciare un'ultima occhiata a Giovanni Andrea, la giovane si scusò e tornò sui suoi passi. Aveva sentito tutto quello che le interessava sentire e, ancor di più, sapeva dove Bravo sarebbe stato alloggiato.

Tornata in stanza, trovò la balia intenta a consolare Porzia, ancora così piccola, malgrado avesse circa un anno e mezzo, e dalla pelle così bianca da sembrare un fantasma. E poi vide Battista, più grandicella, ma dall'espressione corrucciata e foriera di lacrime. Anche Sigismondo, di circa tre anni, aveva le guance arrossate e minacciava di mettersi a strillare da un momento all'altro.

Maria Giovanna si vergognò profondamente di sé, come donna e come madre, ma non riuscì a sopportare oltre la presenza dei tre figli che aveva avuto con suo marito, Giulio Cesare. Era tutti e tre troppo simili a lui e nessuno dei tre, a suo avviso, meritava il suo affetto o la sua pietà.

Scusandosi in fretta e farfugliando qualcosa riguardo un forte dolore al capo, la donna annunciò che avrebbe dormito nella stanza accanto e la balia, in quanto sua sottoposta, non poté far altro che accettare silenziosamente quella decisione.

Maria Giovanna si rintanò nella camera che a volte usava proprio per sfuggire ai propri figli, ma non si scostò dalla porta. Rimase in piedi, il cuore che batteva veloce e la mente che lavorava senza sosta.

L'aveva solo immaginato, o Bravo aveva sgranato gli occhi, quando l'aveva vista? L'aveva solo immaginato, o quell'uomo, così bello e affascinante, aveva mosso un passo in avanti, quando si era accorto della sua presenza, quasi volesse raggiungerla? L'aveva solo immaginato, o Giovanni Andrea non aveva staccato gli occhi da lei un solo istante, per tutto il tempo in cui era stata nella sala al piano di sotto?

Ricordava benissimo il sapore di quel soldato, ricordava le sue parole e ricordava le sue promesse...

Attese che fosse passato un lasso di tempo ragionevole e poi, quando fu certa, assolutamente certa, che il veronese fosse già nelle sue stanze, lasciò la propria e andò dritta verso l'alloggio di lui. Era stata un'autentica fortuna, sentire che avrebbe soggiornato nella camera blu... O forse era stato il destino a far sì che lei sentisse, proprio per permetterle di compiere quell'atto di cieco coraggio di cui aveva bisogno da una vita intera.

Con lo stomaco sottosopra per l'agitazione, Maria Giovanna attraversò mezzo palazzo, stando molto attenta a non farsi vedere da nessun servo, sfruttando abilmente le zone d'ombra e fermandosi di quando in quando ad ascoltare il silenzio della casa, per capire se qualcuno fosse sulle sue tracce.

Dopo quella che le parve un'eternità, giunse davanti alla porta di Bravo e, con una fretta che quasi spaventò lei stessa, bussò tre volte alla porta.

L'uomo aprì all'istante, senza esitazione alcuna, quasi si aspettasse di trovarsi davanti la donna per cui tanto aveva pregato e per la quale aveva perso intere notti di sonno, mentre era in Centro Italia col Montefeltro.

Senza pensarci un istante, dopo aver chiuso la porta con due mandate, il soldato abbracciò Maria Giovanna. La giovane accettò quel gesto, ricambiandolo con calore. Apprezzava le sue spalle larghe e il modo in cui le sue lunghe braccia la cingevano, tenendola stretta a sé. Era sopraffatta dal suo sentore, dalla sua presenza, e quasi non si accorse di come egli stesse cercando la sua guancia per baciarla. Solo quando sentì le sue labbra sulla pelle, capì che finalmente – non si ingannava, a differenza di quando lo sognava solamente – l'uomo che amava era tornato da lei.

Giovanni Andrea, con lentezza, lasciò che le proprie labbra scivolassero appena, lasciando la guancia accalorata della donna e trovando le labbra di lei. Attese con pazienza che la Della Rovere rispondesse al suo bacio e, quando lo fece, quasi la sollevò da terra per l'entusiasmo.

Maria Giovanna, che pur si era recata lì per un motivo ben preciso, in fondo non si era aspettata quel bacio, né tutto il resto e quindi, un po' stordita da quell'insieme di emozioni, riuscì solo a seguire il movimento delle labbra dell'uomo che amava e aspettare che fosse lui a dire o fare qualcos'altro.

“Se ti trovano qui...” sussurrò Bravo, quasi senza voce.

La donna, nel tragitto che l'aveva portata fino a quella piccola camera dalle pareti scure, aveva pensato a quello che stava per fare e si era lasciata a sua volta prendere da mille dubbi. Ora, però, che sentiva addosso a sé l'unico uomo che avesse mai desiderato, tutti quei dubbi sembravano non avere alcun senso.

Non riusciva, in tutta onestà, a comprendere la forza misteriosa che la portava a desiderare di sfiorare di nuovo le labbra di Giovanni Andrea con le proprie, fino ad arrivare al vero e proprio scontro, fin quasi a farsi male. Non capiva perché mai volesse così ardentemente sentire le mani di lui sul proprio corpo e, tanto meno, capiva come mai sentisse il bisogno ineluttabile di unirsi a lui, di lasciare che lui la prendesse come tante volte l'aveva presa suo marito...

Come poteva desiderare così tanto una cosa che aveva imparato a temere e disdegnare, una cosa che l'aveva sempre e solo fatta soffrire o, nella migliore delle ipotesi, sentire debole e sottomessa?

Non sapeva darsi pace né risposta, sapeva solo che lo voleva. Non c'era altro, nella sua mente, se non il desiderio incessante e pulsante di concedersi a quel giovane uomo che tanto l'aveva intrigata fin dal primo momento e che ora sembrava dimostrare per lei il medesimo interesse.

Sapeva, nel profondo, che solo nel momento in cui si fosse sentita di Giovanni Andrea, solo allora avrebbe capito tutto quanto e ogni sua domanda avrebbe trovato una risposta soddisfacente.

“Se ti trovano qui..?” chiese di nuovo lui, dopo un lungo bacio, la mente già offuscata dalla voglia di dar seguito a quel primo incontrarsi dei loro corpi.

Maria Giovanna, come risvegliandosi da un lungo torpore, gli prese il viso tra le mani, e lo guardò a lungo negli occhi. Non esisteva più nulla, né la paura di essere trovata – magari addirittura da sua suocera – nel letto di quel soldato, né la paura di compromettersi con un uomo che conosceva a stento...

Si sentiva viva e tale voleva restare, quella volta, anche se ciò avesse dovuto significare morire quella notte stessa, per mano di sua suocera o di uno dei suoi sicari.

“Non mi interessa.” rispose quindi, con un filo di voce: “Mi trovino e mi ammazzino, non mi importa, io voglio passare questa notte con te.”

Giovanni Andrea si inorgoglì, nel sentire quella dichiarazione. Benché fosse stato il suo intento fin da subito, quello di tornare dalla donna di cui si era innamorato per amarla in ogni modo possibile, con lo spirito, ma soprattutto con il corpo, non si era aspettato da lei tutta quella risolutezza.

“Anche io voglio passare questa notte con te.” le disse quindi, stringendola così tanto a sé da sentire il suo respiro mozzarsi per qualche istante.

La Della Rovere si sentì attraversare da un brivido profondo, chiedendosi perché quel contatto così prolungato e insistente le piacesse così tanto, quando, invece, quello di suo marito le era sempre risultato fastidioso ed estraneo.

Mentre l'uomo riprendeva a baciarla, cominciando a spogliarsi e a spogliarla, ormai pronto a dar seguito a ciò che si erano solo detti a parole, Maria Giovanna avvertì ancor di più l'eccitazione e il senso di gioiosa irrealtà che la circondava. Stava per tradire suo marito, stava per conoscere qualcuno che non fosse Venanzio, qualcuno che lei stessa si era scelta e che, fin dal primo momento, anche solo con uno sguardo, le aveva dato molto più di quanto avesse mai ricevuto in vita sua.

Travolta dalla sensazione impagabile di essere finalmente viva, mentre Bravo la faceva stendere sul letto, sotto di sé, Maria Giovanna esplose in una risata limpida e genuina che, istintivamente, trascinò con sé anche il soldato, che pur non aveva capito l'esatta origine di quello scoppio di felicità.

La donna stava pensando a quante volte, di certo, Venanzio l'aveva tradita con donne di ogni tipo e si disse che lei, almeno, aveva aspettato di trovare un amante che le piacesse davvero. Si immaginò suo marito in catene, in cella, in attesa che qualche boia borgiano si decidesse a ucciderlo, e la risata le sgorgò ancor più vivida nel petto.

Giovanni Andrea, che non si faceva un grosso problema del non capire l'origine di tante risa, era ormai concentrato solo sul corpo caldo e accogliente della Della Rovere. Ormai era a un soffio da lui, gli bastava poco e l'avrebbe fatta finalmente sua...

Sorprendendolo, ma in modo piacevole, la donna lo fermò e gli ordinò, con pochi movimenti e qualche gesto, di mettersi supino accanto a lei. Quello era un gioco che Maria Giovanna in fondo già conosceva, ma che sembrava aver cambiato regole tutto d'un colpo, permettendole, questa volta, non solo di poter decidere lei cosa fare e quando, ma addirittura di vincere.

Così, lasciando che fosse la sua amante a cominciare e a continuare, Bravo chiuse per un istante gli occhi e si chiese dove l'avrebbe portato, tutto quel fuoco. Si sarebbe bruciato o lui e la sua donna avrebbero incendiato tutti quanti, restando vivi e vincenti, alla faccia dei Varano, del Montefeltro e di quella cornacchia di Giovanna Malatesta?

Non lo sapeva, e, mentre la Della Rovere sussurrava al suo orecchio un insieme confuso di parole dolci e parole volgari, nemmeno gli interessava, darsi una risposta.

 

Siccome da Roma non era ancora arrivata nessuna convocazione ufficiale per Bianca, alla fine sia Sforzino sia Bernardino, su pressioni della stessa Riario, avevano deciso di raggiungere Scipione in città, per la processione che si sarebbe tenuta quel 30 gennaio.

Entrambi si erano però detti d'accordo di rientrare già il giorno seguente, dato che, fondamentalmente, al primo interessava solo veder sfilare la Cappa di San Francesco – sia per pregare, sia per accademica curiosità – mentre al secondo bastava passare una notte fuori per svagarsi e sfogare un po' della tensione che stava accumulando ormai da settimane.

Alla villa, quindi, altri non erano rimasti – a parte la servitù, Francesco Fortunati, frate Lauro e il De Marzi – se non Caterina con Galeazzo, Bianca e il piccolo Pier Maria.

Siccome la Riario era con il figlio, intenta a fargli un bagnetto assieme alla balia, alla Tigre non era rimasto altro da fare se non osservare in silenzio il suo quintogenito che si allenava da solo in cortile.

La donna era a una delle finestre che dava sulla piccola corte interna e, da lì, poteva vedere l'adolescente riscaldare i muscoli con dei salti e delle brevi corse. Gli aveva fatto presente di non dar troppo a vedere che si stesse addestrando nelle arti militari e quindi il Riario sembrava aver optato per un esercizio più generico, che, comunque, risvegliasse la sua muscolatura.

Proprio mentre stava facendo un esercizio – imparato ai tempi in cui viveva a Ravaldino e si allenava coi soldati di sua madre – molto faticoso, saltando e poi gettandosi a terra per ritornare subito su con un altro salto, una delle serve più giovani della villa attraversò il cortile, una cesta di lenzuola sotto al braccio, diretta alla lavanderia.

Il diciassettenne terminò goffamente il suo movimento ginnico e poi, tanto rosso da notarsi fin dalla finestra a cui era affacciata Caterina, guardò la giovane allontanarsi, senza avere nemmeno la prontezza di ricambiare il suo cenno di saluto.

Rientrata nella villa la serva, il Riario si grattò la testa e poi, con un evidente gesto di frustrazione, diede un calcio all'aria e nel giro di un minuto ritornò a concentrarsi sui suoi esercizi.

“Galeazzo è un giovane timido...” commentò, con aria casuale, Fortunati.

La Leonessa non si era accorta dell'arrivo del piovano alle sue spalle, ma non lo rimproverò per non essersi palesato prima: “Credo che quella serva gli sia sempre piaciuta...” commentò, ricordando qualche pettegolezzo carpito dai suoi altri figli: “Ma in parte il suo fascino è andato perduto quando lui ha saputo che lei si è venduta a Ottaviano per due soldi...”

“Sarà come dici...” sospirò l'uomo, mettendosi accanto a lei, e continuando a sua volta a guardare verso il basso: “A me sembra che gli piaccia ancora molto.”

“Se così fosse, dovrebbe provare ad avvicinarla... Alla fin fine la maggior parte dei suoi coetanei non si tirerebbe certo indietro, specie avendo in casa una donna così disponibile come sembra essere questa serva...”

“Non fare un confronto coi suoi coetanei...” la riprese Francesco, un po' in imbarazzo, ma deciso, per quel che poteva, a difendere la timidezza di Galeazzo che, a suo avviso, era un pregio, nel mondo di sfrontati in cui vivevano: “Ognuno ha i suoi tempi, e mi sembra che tu sia sempre stata felice di lasciare che tutti i tuoi figli, Bianca compresa, decidessero le proprie tempistiche, no?”

Siccome la Tigre non parlava, limitandosi a continuare a fissare il Riario, il piovano decise di prodigarsi ancor di più.

“Guarda me... Sono diventato un religioso da ragazzino, ho vissuto letteralmente come un monaco fino a quarant'anni e poi ho incontrato la donna giusta...” sorrise, allargando un po' le braccia, mentre, finalmente, la Sforza si voltava a guardarlo: “Rifarei ogni cosa da principio, se sapessi che ciò mi assicurerebbe di avere te qui, accanto a me.”

Sollevando appena l'angolo delle labbra, la donna non commentò, ma, con un sospiro profondo, lasciò la finestra e concesse: “Galeazzo è un ragazzo intelligente e pieno di buone qualità... Hai ragione, devo continuare a lasciargli i suoi spazi. Se gli servirà aiuto o un consiglio, sarà lui a chiederlo.”

Il piovano stava per dirsi felice della sua risoluzione, quando Antonio De Marzi li raggiunse con una lettera in mano, rivolgendosi proprio alla milanese: “Questa è appena arrivata, solo per voi, mi hanno detto...”

La Leonessa ringraziò e poi, riconoscendo la carta pregiata che si usava spesso a Roma, prese il messaggio e si scusò sia con il De Marzi sia con Fortunati, andando filata in camera sua.

Rimasta sola, aprì la missiva e, nel capire che era una lettera informale e non ufficiale, sentì il cuore battere ancor più velocemente. Non sembrava manomessa, e sperava che davvero nessuno l'avesse intercettata, perché il suo contenuto avrebbe potuto far fallire come niente un progetto che portavano faticosamente avanti da mesi.

La grafia, ormai la riconosceva, era di Troilo De Rossi e la data era di appena un paio di giorni prima.

L'uomo spiegava, in poche righe, come la procura per il matrimonio fosse appena stata firmata e che gli incaricati, scelti da Gian Giacomo Trivulzio, fossero i Conti Scaramuccia, Catellano, e i due fratelli Trivulzio, Giorgio e Gian Antonio. Proprio questi due, spiegava, avrebbero indicato Bianca come sposa migliore per Troilo e avrebbero reclamato, a breve, la sua venuta a Roma.

Spiegava che le avrebbero fatto pressioni per accordarsi sulla dote. La pregava di accettare – dopo una credibile contrattazione – una qualsiasi cifra, che, tanto, lui non avrebbe mai davvero preteso, e chiudeva pregandola di far leggere la missiva anche a Bianca, per la quale aveva aggiunto un piccolo messaggio in calce che, per discrezione e rispetto, la Sforza si astenne dal leggere.

Dopo aver raccolto le idee, andò a cercare la Riario, e la trovò intenta ad asciugare con cura Pier Maria, la balia relegata a mera serva, affaccendata con la biancheria da cambiare.

“Potete lasciarci sole?” chiese la Tigre a quest'ultima.

Ben felice di sottrarsi a quel tedioso compito, la balia si dileguò all'istante e Caterina porse il messaggio di Troilo alla figlia. Fece per andarsene, e lasciarla tranquilla a leggere le parole del suo amato, ma la ragazza la pregò di attendere lì.

Con il foglio in una mano e il figlio aggrappato al braccio libero, la Riario trattenne a stento un grido di gioia nel capire che il suo matrimonio era sempre più vicino e che, per quanto si trattasse di un salto nel vuoto, a breve avrebbe cominciato una nuova vita, una vita che tanto stava sognando...

“Dovremo fare accuratamente i tuoi bagagli...” disse piano Caterina, quando la giovane ebbe concluso la lettura, gli occhi lucidi per quella che doveva essere stata una bella dichiarazione d'amore finale del De Rossi: “E dovrai portarti anche una copia delle mie ricette, che potrebbero servirti...”

Bianca ascoltava in silenzio l'elenco che la madre aveva cominciato a fare, rendendosi conto che quell'atteggiamento, estremamente pragmatico, nascondeva un'inquietudine che non aveva creduto di trovare così tanto nella Leonessa. Anche a lei dispiaceva doverla lasciare, ma confidava nel fatto che una donna forte come Caterina Sforza fosse in grado di accettare e superare egregiamente la distanza di una figlia. In fondo, Ottaviano e Cesare mancavano da molto tempo, eppure non li nominava mai... Era per fino difficile sentirle citare Giovannino, seppur da lei notoriamente molto amato, se non per il processo o in funzione di altre recriminazioni nei confronti del cognato...

“E poi, almeno per il viaggio, dovrei portarti anche delle pezze, nel caso dovessi ricominciare a sanguinare...” stava continuando l'elenco la milanese.

“Da che ho partorito, il sangue non è ancora tornato...” rivelò, quasi soprappensiero, la giovane.

Pier Maria, del tutto ignaro dell'argomento del discorso, bello fresco e pulito, si stava quasi addormentando in braccio alla madre, da cui era ormai innegabile avesse preso la sfumatura pallida della pelle e il profilo del naso.

“Ah no?” chiese la Leonessa, cercando di farsi due calcoli a mente: “Ma allatti ancora, quindi?”

La Riario arrossì appena e rivelò: “Solo di notte, solo quando sono sicura che non mi veda nessuno... In realtà lo faccio di rado, e ormai non ho quasi più latte, però sì, a volte sì...”

“Ho capito...” sussurrò Caterina, un po' guardinga: “Allora... Allora può essere... Ma andando a Roma e non allattando più... Be', tu portati le pezze e al massimo non...”

La Tigre non finì la frase, troppo presa da un dubbio improvviso che le era balenato in mente. Era vero che sua figlia ancora allattava, se pur saltuariamente, ma era anche vero che non era passato molto tempo, dall'ultima visita del De Rossi e la Sforza non poteva fingere di non ricordare come i due avessero trascorso buona parte del loro tempo chiusi in camera...

Mordendosi le labbra, trattenendosi a stento dal domandare a Bianca se ritenesse possibile essere di nuovo incinta, Caterina sorrise e concluse: “Ti lascio tranquilla con tuo figlio... Vado... Vado a ragguagliare Fortunati sulle ultime novità. Voglio che anche lui sappia bene ogni cosa, così quando arriverà qualcosa di ufficiale da questi procuratori, saprà anche lui come muoversi...”

La Riario annuì e poi, cercando di includere tutto ciò che poteva in quella piccola parola, disse un accorato: “Grazie.”

 

   
 
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