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Autore: Adeia Di Elferas    05/01/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Cesare Borja era arrivato la sera prima ad Acquapendente. Fin dal primo momento, l'aria di quel paese non gli era piaciuta. La nausea che l'aveva preso a cena, non se n'era andata nemmeno a fine pasto e, infastidito da ogni cosa, il Valentino aveva rinviato una volta di più la richiesta di abboccamento ricevuta dall'ambasciatore di Firenze.

Si era trascinato a letto, coi denti che battevano per la febbre, e si era categoricamente rifiutato di vedere chicchessia.

Si era addormentato in fretta, coperto all'inverosimile, sentendo in quella prima notte di febbraio un freddo che nemmeno nel cuore più profondo dell'inverno più gelido aveva mai sentito.

Si svegliò appena un paio d'ore dopo, cercando con urgenza il vaso da notte, riempiendolo con conati di vomito e bestemmie in egual misura, finché, stremato e del tutto svuotato, si era ricoricato e aveva cominciato a elencare mentalmente i nomi di chi avrebbe potuto averlo avvelenato la sera prima.

Un po' per l'essersi purgato naturalmente e un po' per il sonno che alla fine era arrivato ed era stato profondo, al mattino Cesare si svegliò senza più nausea né crampi alla pancia, ma con ancora un po' di febbre e un forte mal di testa.

“Il male dei soldati...” aveva commentato, con aria sapiente il cerusico che era corso a visitarlo: “E non mi sorprende, visto che voi siete il condottiero dei condottieri!”

Quella battuta, che avrebbe dovuto essere lusinghiera, non fece altro che far arrabbiare il Borja, che vi lesse solo un infelice richiamo alla recente congiura dei condottieri ribelli che, per poco, non aveva fatto crollare il delicato castello messo in piedi da Cesare e da suo padre.

Mandato via a male parole il cerusico, il Valentino si tirò le coperte fin sotto al mento e sondò con attenzione ciò che gli stava attraversando il corpo. Si trattava di una serie di piccole scosse che gli davano la sensazione di essere coricato su un tappeto di spine. Tuttavia non poteva dire di stare male come la sera prima... Si toccò, quasi soprappensiero, le cicatrici sul volto, trovandole ancora perfettamente chiuse e non infiammate. Non si trattava del solito accesso di mal francese... Forse era vero: forse era solo stato contagiato dalla dissenteria, che, a intervalli regolari, colpiva i soldati che lo seguivano.

Con un sospiro dolente, maledicendo quei rozzi e sporchi uomini che doveva portarsi appresso di continuo, cominciò a pensare ai propri affari, andando da quello che era successo con Siena, ormai sua, ma non sua come avrebbe voluto, e alla gestione sempre più difficile della prigionia di Pantasilea Baglioni e degli altri parenti di Bartolomeo d'Alviano che aveva rapito assieme alla donna.

Stava già quasi pensando di cercare un accordo segreto con il guerriero, per ricavare un po' di oro dal riscatto e non sollevare grossi polveroni, quando sentì qualcuno entrare in stanza.

“Non sono morente – annunciò, cupo – quindi vi prego di annunciarvi, quando venite al mio cospetto...”

Il messaggero, scortato da un soldato, si scusò profusamente, ma a voce bassa come se, malgrado l'evidente presenza di spirito del Borja, lo ritesse davvero in fin di vita: “C'è una missiva da vostro padre, Sua Santità il pontefice...” spiegò e porse una lettera al Duca.

Questi, guardando la lettera di sottecchi, quasi temesse che potesse esplodere da un momento all'altro, fece un cenno del capo e poi scacciò soldato e messaggero con un gesto ampio della mano.

Rimasto solo, affrontò le parole di Rodrigo che, seppur scritte, gli davano l'impressione di essere un grido di collera imprigionato nell'inchiostro.

Alessandro VI gli si rivolgeva con un tono fintamente affettuoso, un tono che sottintedeva una rabbia profonda. Gli ordinava, senza possibilità di replica, di lasciar perdere i suoi giochetti da bambino e di concentrarsi sulla guerra, quella vera, innanzitutto occupandosi degli Orsini rimasti, dato che alcuni di loro – come Gian Giordano, che si ostinava a difendere Bracciano, o Giulio, che combatteva a Chieri – si trovavano proprio in Lazio, a un passo da Roma, pericolosi come nessun altro.

Era inutile, a detta del papa, ostinarsi a puntare sulla Toscana o su terre ancor più complicate: era Roma, Roma prima di tutte, che andava messa in sicurezza.

Cesare, scorrendo le parole del padre, nella sua grafia pomposa e inconfondibile, provò un disprezzo così grande da non riuscire a trattenersi: scattando in piedi, fece a pezzi la lettra e la gettò nel camino acceso, prendendosi anche il disturbo di sputare sulle fiamme.

Suo padre ormai era un vecchio, non capiva più nulla, voleva solo coprirsi i piedi con la coperta, senza rendersi conto che non era corta quanto credesse lui. Il mondo era ai loro piedi e dovevano schiacciarlo, non ritirarsi e difendere il Lazio.

Il Valentino stava sciorinando una serie di titoli onorifici verso Rodrigo, tacciandolo di essere il più codardo dei codardi, non più degno del toro dei Borja, quando un nuovo attacco di nausea lo prese e lo fece come accartocciare su se stesso. Vomitando sul tappeto, Cesare si tenne lo stomaco con entrambe le mani e sgattaiolò di nuovo a letto.

Gli Orsini potevano impiccarsi con un metro di corda: lui avrebbe fatto quello che voleva! Suo padre era a Roma e là sarebbe rimasto... Poteva rimproverarlo e scrivergli, ma non poteva costringerlo a fare proprio nulla.

“Cerusico!” chiamò il Duca, con voce roca: “Cerusico!”

L'uomo accorse quasi saltellando, e, messosi al suo capezzale, lo interrogò minuziosamente su quanto accaduto. Esaminò la qualità del rigurgito finito sul tappeto e poi gli posò una mano sulla fronte.

“Dammi qualcosa per dormire, imbecille...” mormorò il Borja non appena il cerusico cominciò a elencare quali medicamenti gli servissero: “Lo so io di cosa ho bisogno... Tieni i tuoi veleni per te e per quegli ignoranti dei soldati...”

 

Bernardino e Sforzino avevano fatto sapere che si sarebbero trattenuti fino alla sera del 3 febbraio in città, dato che proprio quel giorno ci sarebbe stato l'atto finale, e più trionfale, della processione che aveva come protagonista la Cappa di San Francesco.

In accordo con Bianca, Caterina non aveva risposto ai due di rientrare subito da Firenze, visto che, anche se per motivi differenti, entrambi i ragazzi tenevano a stare ancora un po' lontani dalla villa e che, comunque, la Riario non era ancora stata convocata ufficialmente a Roma. Non avrebbe avuto senso, secondo la giovane, costringere i due fratelli a ritornare prima per stare qualche ora in più con lei, quando, con un po' di fortuna, negli anni avrebbero potuto andarsi a trovare a vicenda più volte.

Quella sera, però, la Tigre aspettava il rientro dei figli, che era stato assicurato da Scipione previo messaggio già nel primo mattino. Anche se stava venendo tardi ed era ormai passata l'ora di cena, la donna non accennava a volersi coricare. Aveva lasciato Bianca con Pier Maria e la balia, mentre Galeazzo si era messo nella sala delle letture, per concludere un piccolo studio personale su un testo militare – uno dei pochissimi che si trovavano alla villa – che aveva iniziato a leggere da poco. Solo frate Lauro aveva espresso presto la volontà di andarsi a riposare, e nessuno l'aveva fermato.

Fortunati, dopo che la Leonessa gli aveva chiesto di lasciarla sola per un po', si era messo a ronzare attorno a Galeazzo, forse sperando che il ragazzo, per qualche motivo, gli chiedesse aiuto con il latino o che volesse comunque metterlo a parte dei suoi studi. Quando il Riario, però, vagamente infastiditi dagli occhi puntati del piovano, gli aveva dato il permesso, un po' rigidamente, di ritirarsi per la notte, Francesco aveva capito l'antifona e aveva lasciato la sala.

Indeciso sul da farsi, alla fine si era risolto ad andare a cercare la Sforza. Sapeva che si era rintanata nelle cucine, a quell'ora già deserte. Da un lato temeva che la Tigre lo apostrofasse in qualche modo, magari accusandolo di non lasciarle i suoi spazi, dall'altro gli premeva vedere come stesse, dato che da tutto il giorno gli sembrava che avesse qualcosa di strano, come fosse distratta da un vecchio fantasma, qualcosa che non si riusciva a palpare, ma che c'era.

Quella notte, intanto, mentre dormiva al suo fianco, si era messa a invocare Ludovico Marcobelli e poi un altro nome, che il piovano non aveva capito, si era divincolata per qualche istante e poi si era svegliata di colpo, guardando Francesco con gli occhi vitrei, come se non lo riconoscesse. Era stata questione di un minuto o due in tutto, eppure il piovano non riusciva a dimenticare lo smarrimento che aveva provato, nel vederla così.

Sceso nella cucine, l'uomo vide subito la donna che amava. Era seduta al tavolo su cui di solito le cuoche tagliavano la carne e le verdure, e teneva tra le mani un calice. Avvicinandosi, il fiorentino si accorse che la caraffa di vino davanti a lei, però, era ancora quasi piena.

La Leonessa guardò l'amante in modo distratto e poi sorbì, quasi a fatica, un sorso. Era evidente che, quali che fossero i demoni che la tormentavano, in quel momento erano così presenti da legarle perfino lo stomaco.

“Cosa ti angustia? A cosa stai pensando? È da tutto il giorno che...” cominciò a chiedere Francesco, ma Caterina lo interruppe subito per rispondere.

“Manfredi.” soffiò lei, tutto d'un colpo, quasi le facesse fisicamente male anche solo dire quella breve parola: “Non lo so perché... Da che mi sono svegliata stanotte, continuo a pensarci.”

Fortunati, che non si era mai dimenticato la paura che lui stesso aveva provato, il giorno in cui il povero faentino era morto sotto i suoi occhi, né l'ansia che era seguita, temendo che la Leonessa potesse in qualche modo accusarlo di non aver impedito l'imboscata, sentì il sangue gelarsi nelle vene.

Immobile come una statua, il fiorentino provò a schiudere le labbra, ma non uscì nemmeno un filo di voce, perciò le richiuse subito e attese.

“Non riesco quasi più a ricordarmi come fosse da vivo. Che voce avesse... Ricordo solo quando l'ho visto morto, gonfio e sfatto...” spiegò la donna, questa volta riuscendo a mettersi in pancia un sorso più abbondante di vino: “Dovevo dar retta al Battuto Nero che mi aveva consigliato di non guardarlo, di ricordarmelo com'era da vivo...”

A rendere amaro il calice che si portava alle labbra, non era solo quella consapevolezza, ma anche il ricordo, ancor più vivido, del dolore di sua figlia Bianca. Quel giorno, davanti alle spoglie mortali di Ottaviano Manfredi, lei e la Riario avevano pianto per lo stesso uomo, un uomo che entrambe avevano amato, anche se in modo diversi. Bianca era andata avanti, aveva superato perfino quel lutto, forse anche perché per lei il faentino era stato un amore platonico, per quanto violento e profondo... Fatto restava che Caterina si vergognava dell'invidia che provava per lei, prossima alle nozze con un uomo che amava, madre felice di un piccolo erede sano e forte.

Francesco, che sembrava voler mantenere una certa distanza con lei, deglutì e poi, riprovando ancora a parlare, si accorse di avere un nodo alla gola che gli impediva quasi, perfino, di respirare.

Avvertendo quel disagio, la milanese si accigliò e disse, piano: “Lo so che non avresti potuto fare nulla, per salvarlo...” tuttavia, dal suo tono, era evidente che le parole non rispecchiassero del tutto i suoi pensieri.

“Messer Ottaviano era un uomo molto...” cominciò a dire Fortunati, ma non riuscì a concludere il pensiero, perché la stessa Tigre lo zittì, sollevando una mano e tendendo l'orecchio.

“Sono arrivati...” disse, e, abbandonando calice e caraffa, si lasciò alle spalle pure il piovano.

L'uomo non sapeva dire come avesse fatto la sua amante a sentire l'arrivo di qualcuno – dei figli, in particolare – dato che i muri delle cucine erano spessi come le mura di un castello, ma sapeva che non sbagliava.

Con un sospiro, bevve di un colpo il vino che la Sforza aveva avanzato e, più lentamente di quanto volesse, si alzò e andò a sua volta all'ingresso.

 

Giampaolo Baglioni guardò la lettera di Pandolfo Petrucci, mettendola ben sotto la luce della candela. La notte era tanto scura che sembrava non bastare, quella piccola fiammella, per vederci un po' di più....

Non aveva la più pallida idea di come scrivesse quel senese, ma osservare le sue parole a quel modo gli dava la sensazione di poter capire se il messaggio fosse o meno autentico.

Il vecchio Moderatore della Repubblica senese lo invitava a raggiungerlo, proprio nelle terre di Siena, malgrado al momento la città fosse formalmente sotto il controllo papale e francese. L'uomo gli assicurava che il loro era un fronte comune e che, ben concertati, avrebbero potuto accordarsi con altri che erano stati danneggiati dallo strapotere borgiano, e farsi valere.

“Che deciderai?” chiese Gentile, seduto sullo sgabello da campo accanto a lui.

Da quando avevano lasciato Perugia, attraversando mesti Porta Bogna con suppellettili, soldati e derrate alimentari per quanto fosse in loro potere portarsi appresso, erano successe molte cose.

Innanzitutto a Perugia erano arrivati Carlo Baglioni e gli Oddi e avevano di fatto preso il potere.

Non volendo cadere nella trappola del Valentino, Giampaolo aveva deciso di non fare nulla per ostacolarli, e si era rifugiato a Fratta Todina, sempre con il fratello Troilo, i figli Orazio e Malatesta, il congiunto Gentile e gli alleati Giulio Vitelli e Giovanni Rossetto.

Da lì erano andati verso il Trasimeno, e proprio sulle sue sponde si erano divisi: i Baglioni da una parte e Rossetto e il Vitelli dall'altra. Se questi ultimi erano andati verso Città Della Pieve, i primi avevano preferito attraversare la Val di Chiana e avvicinarsi a Siena, proprio per le lusinghiere proposte arrivate dal Petrucci.

Giampaolo era stato previdente: aveva lasciato alcuni presidi a Castiglione del Lago, alla rocca di Borghetto e alla torre di Baccatiquello, in più, in un eccesso di zelo, aveva fatto abbattere l'unico ponte che permettesse l'attraversamento della valle, quello sul Butarone.

Ora, che si trovava rintanato a Montepulciano, aveva la sensazione di essere allo stesso tempo al sicuro e in tremendo pericolo, e non sapeva dire qualche delle due sensazioni prevalesse.

“Dicono che il Valentino sia a Montefiascone o che, comunque, ci stia andando...” soppesò il Baglioni, guardando Gentile con gravità.

“Così dicono.” convenne quello.

“Accettiamo la proposta di Petrucci.” si risolse infine Giampaolo: “Finché il Valentino deve occuparsi d'altro... E poi... E poi ha mia sorella con cui distrarsi, no? Non vedo perché sprecare il suo tempo a correre appresso a me, quando... Quando può...”

Malgrado il suo tentativo di fare battute grevi, com'era suo costume, l'uomo non riuscì a concludere la frase, e spettò al suo congiunto commentare, amaro: “Ormai Pantasilea è problema di tuo cognato, non tuo... Lascia che sia lui a riportartela nel letto o, in alternativa, a essere biasimato per non essere stato capace di sottrarla al letto del Duca...”

Il Baglioni annuì e poi, cercando di non pensare a Pantasilea, né a Bartolomeo d'Alviano, né tanto meno a Cesare Borja, sospirò: “Prepariamo armi e bagagli: voglio partire alle prime luci dell'alba...”

 

“Forse sarebbe ora che tutti noi andassimo a riposare, ora che messer Sforzino e messer Carlo sono tornati...” provò a dire Alberto De Marzi, che aveva accolto per primo i figli della Tigre alla porta.

Siccome coi due ragazzi c'era anche Scipione Riario, Caterina era molto curiosa di sapere se ci fossero novità interessanti, quindi, in barba all'ora decisamente tarda e al proprio stato d'animo non ancora rinfrancato, ribatté, con una sorta di ringhio: “Voi andate pure, non c'è bisogno che restiate sveglio per colpa nostra...”

L'uomo, colto alla sprovvista, sollevò le sopracciglia e si congedò senza aggiungere altro.

“Venite di là, accendiamo un po' di candele...” invitò Caterina, facendo strada ai figli e al figlioccio, scorgendo con la coda dell'occhio Fortunati che, finalmente, li raggiungeva, a passo lento. Come se ci avesse ripensato all'ultimo, però, non li seguì fino alla sala in cui erano diretti, cambiando direzione appena prima, forse pensando che gli aneddoti dei due ragazzi potessero aspettare.

Nel giro di pochi minuti, arrivarono anche Bianca e Galeazzo che, attirati dai rumori insoliti, avevano capito che infine i due fratelli erano tornati alla villa.

Sforzino, ancora infervorato per quelle giornate cariche di novità, si era subito messo a raccontare, a voce alta, senza la sua consueta ritrosia a parlare in pubblico – anche se il pubblico era rappresentato solo dalla sua famiglia – e senza la minima preoccupazione di suonare pedante o ripetitivo: “Prima, l'altro giorno, hanno dato la Cappa di San Francesco ai frati Osservanti di San Miniato e, dopo che loro hanno pregato e fatto grande devozione, s'è andati tutti all'Osservanza di San Francesco di San Miniato...”

Caterina aveva notato come il figlio, robusto come una piccola otre e dalle guance tonde arrossate per l'entusiasmo, avesse usato una cadenza quasi fiorentina, accantonando, almeno per ora, il suo innato accento romagnolo. Quel dettaglio, però, non la infastidì: anzi, la portò a pensare che per il suo sestogenito sarebbe stata solo una fortuna, sentirsi più toscano che non romagnolo, visti i risvolti degli ultimi anni.

“E poi, questa mattina – riprese Sforzino, quasi senza fiato – tutte le Compagnie e le Regole di Firenze hanno seguito la processione, e la Cappa è stata posata in Piazza de' Mozzi, dove s'è fatto un palco con colonne grandi come non ne ho mai viste! Da lì s'è portata la cappa a San Miniato, all'Osservanza ed è stata messa a riposare... Avrei voluto che l'esponessero in piazza per più tempo, ma capisco che sarebbe stato imprudente, lasciarla fuori, di notte...”

La Leonessa sorrise, più per gentilezza verso il figlio, che non perché gliene importasse qualcosa di quella reliquia, che, era pronta a scommetterlo, probabilmente non era appartenuta affatto a San Francesco, ma a qualche straccione che, chissà quando, aveva deciso di rivenderla come appartenuta al Santo per fare un po' di soldi.

Il Riario, infervorato da quello che gli sembrò un genuino interessamento della madre, passò a descrivere meticolosamente la Cappa e poi, senza che nessuno glielo chiedesse, parlò della magnificenza della processione e degli abiti dei fiorentini, finendo per elogiare la maestosità della città intera, arrivando a spegnersi appena nell'esprimere il suo rammarico per non aver avuto modo di recarsi in San Lorenzo, a pregare sulla tomba di Giovanni.

Nel mentre, la Sforza aveva notato qualcosa di stonato nell'espressione di Scipione. L'uomo sorrideva, condiscendente, ma nei suoi occhi c'era un velo di preoccupazione palpabile e la Tigre sentì il bisogno di indagare.

“Non preoccuparti...” disse, quindi, rivolgendosi a Sforzino: “Giovanni capirebbe e non te ne farebbe una colpa... Credo sia stato molto più importante che tu gli abbia voluto bene da vivo, che non che tu vada sulla sua tomba, ora che è morto...”

Il ragazzo fece un sorriso timido, la voce che tornava a farsi piccola piccola, mentre ribatteva: “Sì, madre, avete ragione...”

“Piuttosto...” sospirò la donna, arrivando al punto: “Mi sembri stanchissimo... Vuoi andare a dormire? Mi racconterai domani tutte le altre cose che hai visto...”

Difficile capire se Sforzino colse l'invito a togliersi di torno o se credette davvero che la madre lo vedesse così stravolto da concedergli di andare a riposarsi benché fosse ancora molto curiosa di sentire i suoi racconti. Come che fu, comunque il Riario annuì e, in uno slancio che non riuscì a controllare, le si avvicinò, abbracciandola e mormorandole un grazie.

Quasi commuovendosi dinnanzi alla facilità con cui si poteva rendere felice Sforzino, la Leonessa ricambiò brevemente l'abbraccio e gli augurò un buon sonno.

“Forse sarebbe meglio se anche noi ci ritirassimo...” provò a dire Bianca, rivolgendosi a Bernardino, comprendendo bene che la madre volesse discutere di qualcosa di serio con Scipione, dato che i due, non appena Sforzino era uscito, avevano cominciato a guardarsi con insistenza.

Il Feo, però, insofferente al tono usato dalla sorella, più adatto a un bambino piccolo che non a lui, fissò la madre e chiese: “Posso restare?”

A quella domanda, tutti, Galeazzo compreso, puntarono lo sguardo sulla milanese che, dopo averci ragionato qualche istante, rispose: “Sì.”

Bernardino, con aria di sfida, guardò in tralice Bianca e, allargando bene le spalle, piantò ancor di più i piedi in terra, incrociando, soddisfatto, le braccia sul petto.

“Cos'è successo, mentre eravate a Firenze?” chiese Caterina, rivolgendosi a Scipione.

“La città, ovviamente, era in festa – spiegò il Riario, giocherellando nervosamente con le corte lattughine del suo colletto – tuttavia non ci è sfuggita una cosa importante. Ieri, in pieno giorno, sono passati in mezzo alle vie di Firenze non meno di quattrocento fanti del Valentino.”

Caterina sentì il cuore mancare un colpo, e dovette stringersi entrambe la mani in grembo per non permettere che nessuno le vedesse attraversate da un leggero tremito.

“Ho cercato di informarmi.... Abbiamo cercato di informarci...” si corresse Scipione, intercettando lo sguardo di Bernardino, che, in effetti, aveva fatto la sua parte, nel domandare in giro: “E abbiamo scoperto che si trattava di soldati tedeschi che avevano appena lasciato il circondario di Siena. A quanto dicono, Cesare li ha licenziati, per tagliare le spese, e ha fatto accordi coi fuoriusciti senesi, per metterli a comandare la città...”

Caterina teneva lo sguardo basso e non diceva nulla. Anche se quei fanti erano stati licenziati, Firenze aveva comunque permesso a delle truppe che fino al giorno prima erano state al soldo del Borja di attraversare senza problemi la città. Per quello che il Gonfaloniere sapeva, avrebbe potuto trattarsi di una trappola, o di un modo per vagliare le difese fiorentine...

“Dicono anche che il figlio del papa stia tornando a Roma...” volle aggiungere Bernardino, forse per alleviare l'angoscia della madre.

La Tigre non diede cenno di aver sentito quest'ultima frase, ma, quando parlò, si rivolse tanto al Feo, quando ai due Riario: “Ora credo che dobbiate andare tutti a riposare...” poi soggiunse, sperando di indurli a lasciarla sola più in fretta: “Bianca... Spiega bene ai tuoi fratelli le ultime novità riguardo il tuo matrimonio...”

La giovane, felice di rendersi utile, benché Galeazzo fosse già al corrente di tutto, guardò entrambi i fratelli e disse, quasi con affettazione: “Venite nella mia stanza, che vi spiegherò bene ogni cosa...”

“Ma io voglio sentire...” provò a dire il Feo.

“Bernardino: segui tua sorella.” il tono della Tigre era inconfondibile: era lo stesso che aveva usato per anni quando aveva dato gli ordini ai suoi soldati.

Il ragazzino, prendendo colore in viso, non osò aggiungere altro, ma lanciò un ultimo sguardo a Scipione.

Caterina, allora, gli concesse: “Dai la buona notte a tuo fratello Scipione e poi segui Bianca e Galeazzo, per favore.”

Il Feo si avvicinò al Riario e gli diede una goffa stretta, mentre sul suo viso si apriva un sorriso spontaneo e caldo, al pensiero che anche agli occhi della madre, quel giovane uomo, pur non avendo con lui in comune nemmeno una goccia di sangue, fosse un fratello a tutti gli effetti.

Andati via i tre ragazzi, la Sforza si morse l'unghia del pollice e poi chiese: “Quattrocento fanti tedeschi hanno marciato davanti ai vostri occhi nel centro della città, e Sforzino non se n'è nemmeno reso conto...”

“Certo che se n'è reso conto...” volle difenderlo Scipione: “Ma voleva raccontarti della processione e...”

“Al diavolo la processione!” sbottò la Leonessa, alzandosi di colpo: “Cosa vuoi che mi interessi di un brandello di un mantello che probabilmente è stato comprato da un rigattiere per due soldi! Gli uomini del papa erano in mezzo a Firenze, armati, e mio figlio non li ha nemmeno visti!”

Anche il Riario si era alzato in piedi e si era parato davanti alla donna, cercando di calmarla, con ampi gesti delle braccia: “Sforzino non l'ha ritenuto importante... Non pensava fosse la prima cosa da dirti...”

“E sbagliava!” insistette la Sforza, con rabbia: “Ma in che mondo pensa di vivere? Vale di più una Cappa portata in processione o quattrocento fanti armati?!”

Finalmente, Scipione capì il punto della questione. Quella della milanese non era rabbia verso un figlio disattento, ma semplice paura.

Sperando di non farla scatenare ancor di più, il giovane tentò di posare una mano su quelle della Tigre e lei, miracolosamente, non si oppose. Anzi, cercò a sua volta le sue dita, stringendole con forza, come se bastasse quel contatto per tamponare almeno in parte la sua paura.

Non dissero più nulla, sull'argomento. Lentamente, l'uomo la convinse a rimettersi seduta e, con delicatezza, iniziò a parlare d'altro. Tra le tante cose cui lui fece cenno, ci fu anche il processo per la custodia di Giovannino.

“Non andrai a testimoniare?” chiese, più per portarla ad aprire bocca, visto che il suo mutismo cominciava a preoccuparlo.

“No... Cioè, sì, ma non subito... Sembra non sia ancora il momento, non lo so...” fece lei, sbuffando: “Non ci capisco molto della giustizia fiorentina... A Forlì era tutto... Più veloce.”

“Già.” fece eco, laconico, il Riario, ricordando anche troppo bene i processi sommari – o, meglio, la loro assenza – durante le repressioni del 1495, seguite alla morta di Giacomo Feo.

“Comunque...” fece la donna, sforzandosi di ritrovare un contegno: “Bernardino è stato bravo?”

“Sì.” rispose lui: “Aveva bisogno di sfogarsi...”

“Immagino.” ribatté lei, stringendo poi le labbra, evitando di scendere nei dettagli, non sentendosi nelle condizioni di discorrere di quel lato della vita del figlio.

“Devi stare tranquilla, quando è con me.” volle invece rimarcare Scipione: “Quando andiamo all'osteria, io non mi ubriaco mai, per guardargli meglio le spalle... E quando andiamo al bordello, scelgo con attenzione dove e con chi...”

“Sforzino si è comportato bene?” lo frenò Caterina, non volendo sentire altro.

“Lui è buono come il pane...” riassunse, efficacemente, il Riario: “Come immaginerai, non ha mai voluto seguirci, quando uscivamo la sera, ma credo che si sia divertito moltissimo comunque, anche se a modo suo...”

La Leonessa annuì appena, ma era evidente che stesse ancora pensando ai fanti del Borja e dunque al suo interlocutore non restava che lasciarla ai suoi pensieri.

“Domattina rientrerò in città. Non voglio...” l'uomo strinse gli occhi, cercando le parole migliori e poi concluse: “Non voglio accendere chiacchiere. Finché qui ci sta De Marzi, va bene, perché tutti lo credono un uomo fedele a Lorenzo. E Fortunati... Lui è un sant'uomo, sanno tutti che non ti toccherebbe nemmeno per sbaglio... Mentre su di me potrebbero fare chiacchiere che non voglio girino, per il bene tuo e dei miei fratelli.”

“Hai ragione, purtroppo sembra che in molti trovino ancora divertente cercare di indovinare chi mi scaldi il letto la sera...” convenne la Tigre, felice che Francesco fosse ancora al di là di ogni sospetto per i fiorentini.

“Domani ragguaglierai anche me sulle ultime novità del matrimonio del secolo...” provò a scherzare lui, con un sorriso morbido, mentre si alzava e andava a farsi porgere la mano, per un saluto.

Caterina lasciò che il figlioccio le baciasse il dorso, permettendogli, allo stesso tempo, di avvertire il tremore che ancora non l'aveva lasciata.

Lui la guardò preoccupato, ma alla fine si congedò davvero e alla Sforza non restò che ritirarsi nelle proprie stanze.

“Chi ci fai qui?” chiese, quando trovò il piovano steso a letto, con un libro, in un atteggiamento che ormai aveva fatto diventare abituale.

Il fiorentino non rispose, guardandola di sottecchi, forse per capire se l'argomento 'Manfredi' fosse ancora fresco, o se fosse stato soppiantato da qualche novità più pressante.

“Come mai non sei venuto anche tu a salutare i miei figli?” provò a domandare allora la milanese, iniziando a spogliarsi, seduta davanti al piccolo specchio della scrivania.

Seguendo con lo sguardo la Leonessa, che si stava sfilando i calzari, il piovano rispose, con aria sostenuta: “Credevo non avessi voglia di avermi intorno, dopo che...”

“Dopo che ti ho parlato di Manfredi?” l'attaccò lei, stanca di quelle schermaglie: “E allora perché sei venuto ad attendermi in stanza? Avresti dovuto stare lontano da qui, stanotte...”

Ancora una volta, Francesco non profferì parola, ma il suo silenzio, invece che placare gli animi, ebbe un effetto amplificante del malumore della sua amante.

“Fai tanto il sant'uomo – sputò lei, riprendendo in parte il discorso di Scipione – ma alla fine anche tu vuoi solo una cosa...”

Sinceramente mortificato da un'accusa che percepiva come falsa, il fiorentino si alzò dal letto e, senza provare a difendersi, camminò con decisione verso la porta, per andarsene.

“Aspetta, non volevo dirlo...” lo bloccò lei, impedendogli il passaggio.

Francesco la fissò, lesse nel suo volto qualcosa che non andava, ma in quel momento il suo orgoglio ferito faceva così male da portarlo a ripagare una cattiveria con un'altra cattiveria: “Tra noi due, sei tu quella che pensa sempre a una cosa sola...”

“Quattrocento fanti del figlio del papa sono passati in mezzo a Firenze, armati e senza che nessuno li fermasse.” riassunse lei, tutto d'un fiato.

Fortunati, attonito, abbandonò subito l'idea di lasciare la stanza e le chiese di essere più chiara. La Tigre allora riferì ciò che aveva appena scoperto. Anche al piovano sembrava una situazione strana, ma non colse appieno la gravità della cosa, o, almeno, ebbe l'impressione che così fosse, perché quando la donna, sommessamente, si mise a piangere, ne rimase allibito.

“Ho paura.” ammise lei, con un filo di voce: “E non so domarmi... Non vorrei avere così paura... In fondo, non sta assediando Firenze, non è alla nostre porte... Ma io non voglio che mi tocchi mai più.”

Chiedendosi una volta di più quanto dovessero essere state segnanti le violenze del Valentino, per portare una donna come Caterina a reagire così, Fortunati lasciò da parte il proprio orgoglio e tutto il resto e, con dolcezza, allargò le braccia, offrendosi a lei.

Tentennante, quasi temesse di cadere in un tranello, la Sforza si mosse verso di lui e si lasciò abbracciare. Cullata e rassicurata da lui a quel modo, pian piano riuscì a smettere di piangere e poi, seguendolo sul letto, iniziò davvero a calmarsi.

“Non ti toccherà mai più, te lo giuro.” sussurrò Francesco, con il cuore che batteva veloce nel rendersi conto che la sua promessa era tutt'altro che semplice da mantenere: “Se dovesse mai avvicinarsi di nuovo a te, lo ucciderò.”

Colpita da quell'affermazione, così forte per un uomo come Fortunati, la Leonessa nascose il viso contro il suo collo e, aggrappandosi a lui, fece un paio di sospiri, prima di sussurrare: “Grazie, Francesco...”

E il piovano, in tutta risposta, le accarezzò la testa e bisbigliò, quasi avesse la stessa identica valenza: “Ti amo, Caterina.”

   
 
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