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Autore: Orso Scrive    10/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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6.

 

 

Estate 1903

 

 

I giorni che seguirono furono i più belli che Edith avesse mai vissuto nel corso della sua esistenza.

Lei e Marta cominciarono ad approfittare di ogni più minuta occasione per restare insieme da sole. Qualsiasi momento da condividere divenne, in breve, il loro momento.

Le passeggiate in carrozzella con Carlo Maria non ebbero vita lunga. Si scoprì che il ragazzo, piuttosto che accompagnare in giro le due giovani che, decisamente, non sembravano interessate a lui e alle sue chiacchiere relative all’andamento dell’industria tessile, preferiva di gran lunga spassarsela nelle sale da gioco, in teatro o al cinematografo – ne era da poco stato aperto uno in città, e i manifesti entusiasti annunciavano la proiezione dei grandi film d’oltreoceano, come Vita di un pompiere americano e la Grande rapina al treno, o ancora Al fuoco!, il tutto con l’accompagnamento musicale di uno dei migliori pianisti del posto.

Così, molto presto, si ritrovarono ad andarsene in giro per la città da sole – sebbene, per quello che ne sapevano i loro genitori, Carlo Maria le accompagnasse ovunque, come una specie di ombra.

«Non dirlo a nessuno», sussurrò un pomeriggio Marta, con aria complice, «ma credo che Carlo Maria abbia scoperto che in città c’è una casa di tolleranza molto rinomata! Ci sta spendendo un mucchio di soldi!»

«Oh!» fece Edith, arrossendo e reprimendo a stento il riso. «E dici che preferisce la compagnia di quelle signorine alla nostra?!»

Marta le sfiorò la mano.

«Mio fratello non capisce proprio nulla!» trillò. «Non sa riconoscere la bellezza, quando se la trova di fronte!»

Due giovani ragazze sorridenti e ridenti, che passeggiavano sotto il sole, tenendosi a braccetto e riparandosi sotto un ombrellino di tela bianca, ornato di pizzo come una tovaglia di Fiandra. Nulla su cui nessuno avrebbe potuto sparlare. Tutt’al più, con la loro grazia e il loro fascino giovanile, attraevano qualche compiaciuto sguardo maschile. Quasi non se ne accorgevano, e indirizzavano misteriose risatine agli uomini in doppiopetto che, sudando nell’afa estiva, si toglievano il cappello in segno di riverenza al loro passaggio.

Ma non appena l’albero di un parco, l’anfratto di una caletta o un vicolo ombroso offrivano un poco di riparo da guardi indiscreti, si trovavano l’una stretta all’altra, le bocche che si cercavano quasi avide, le mani che si esploravano e scoprivano e riscoprivano. Erano momenti veloci, quasi rubati al mondo intero che le circondava, ma di cui non avrebbero saputo fare a meno. E il pensiero di poter essere viste, scoperte, non solo non le fermava, bensì le rendeva più audaci. Conferiva a quella loro relazione clandestina qualcosa di eccitante, regalava loro l’avventuroso senso del proibito. Di sicuro, lo trovavano più emozionante della trama dei film che Carlo Maria andava a guardare al cinematografico, o dei romanzetti d’appendice che Marta leggeva quando non era a spasso con Edith.

E gli episodi audaci non erano certo mancati.

Un pomeriggio si erano trovate distese sotto una quercia, con la mano di Marta che frugava e accarezzava tra le cosce di Edith. Quando da lontano avevano visto un paio di gendarmi avanzare verso di loro con passo indolente, non solo non si erano fermate o ricomposte in fretta, ma la ragazza aveva anche aumentato la frenesia delle sue dita attorno al clitoride bagnato di Edith, strappandole un gemito roco. I due uomini, senza degnarle di un solo sguardo, le mani incrociate dietro la schiena, erano passati a pochi metri di distanza, sprofondati in una conversazione riguardo l’esito della gara ciclistica che si stava correndo in Francia, e di cui entrambi sembravano molto appassionati.

Una sera, dinanzi a un monumento a qualche misconosciuto re dei tempi andati acceso dalla luce rossa e calda del tramonto, Edith si era protesa a catturare tra le sue le labbra di Marta. Lo aveva fatto dove chiunque avrebbe potuto scorgerle, incurante del via vai della gente attorno a loro. E, come se un velo magico le avesse protette, nessuno si era voltato dalla loro parte, e non avevano sentito urla furenti per quello scandalo dato in pubblico.

Qualche altra volta, invece, si divertivano a impersonare ruoli differenti, giocando come due bambine.

La spiaggia diventava l’ambiente ideale perché Marta si trasformasse in un sanguinario pirata, venuto a rapire la principessa Edith per farne la propria schiava. Camminare nel bosco tramutava Edith in un orco, che la fata Marta doveva liberare dalla sua maledizione. E il giorno in cui, sfidando le canicola del primo pomeriggio che aveva tenuto chiusi in casa tutti gli abitanti della città, si avvicinarono ai resti diroccati di un fortilizio arroccato sopra un piccolo monticello, entrambe si trasformarono in due guerrieri medievali. Due cavalieri audaci e senza macchia, che si diedero battaglia tra i resti dei muri invasi dai rampicanti e dai rovi, prima di atterrarsi insieme e di abbandonarsi reciprocamente alle brame dell’amore.

In hotel, a tavola, all’ora di pranzo e di cena, sedevano sempre vicine.

Mentre i tre uomini discutevano di come avrebbero incrementato la produzione tessile nei mesi autunnali e dell’aumento dei costi delle materie prime, Edith e Marta giocavano un loro gioco speciale fatto di sguardi furtivi, di calcetti, di sfioramenti, di piccoli tocchi in apparenza casuali. Far cadere il tovagliolo diventava la scusa per chinarsi e regalare un fugace bacetto sulle caviglie dell’altra, chiedere di assaggiare una pietanza era il modo perché le loro mani si toccassero quasi per sbaglio.

Poi, la sera, senza farsi scorgere da nessuno, ancora accaldata per le avventure del giorno, Edith andava nella stanza di Marta, da cui sgattaiolava fuori – ombra furtiva – dopo diverse ore. Entrava arrossata e pettinata e ne usciva sempre arrossata ma molto più scarmigliata.

Una di quelle sere, il cavalier Bonofede aveva aperto all’improvviso la porta e le aveva sorprese, sedute una accanto all’altra sul letto. Erano voltate e gli davano le spalle, quindi il cavaliere non poté vedere che cosa effettivamente stessero facendo, né notò che entrambe avevano la gonna sollevata molto al di sopra del ginocchio. Edith si era sentita sprofondare. Avrebbe desiderato scomparire nel nulla. Dentro di lei, si era fatto largo il timore che tutto, di punto in bianco, sarebbe finito: il cavalier Bonofede, mangiata la foglia, avrebbe fatto in maniera di separarle per sempre. Ma non aveva fatto i conti con le doti di quella ragazza che, fino a un secondo prima, le stava affondando le dita dentro il punto più intimo e segreto. Marta, dimostrando una prontezza di spirito unica, aveva cominciato a recitare alcuni versi della Divina Commedia.

 

«Amor, che al cor gentil ratto si apprende,

prese costui della bella persona

che mi fu tolta; e quel modo ancor m’offende.

Amor, che a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che ancor non mi abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

ma Caina attende chi a vita ci spense.»

 

Poi, come accorgendosi solo in quel momento della presenza del padre, Marta si volse verso di lui con lo sguardo più candido e innocente che Edith le avesse mai visto in viso. E considerato che, fino a un minuto prima, le stava muovendo le dita tra le cosce in modo tutto fuori che innocente, dovette fare del suo meglio per non scoppiare a ridere.

«Oh, ciao papà», disse la ragazza. «Edith mi sta dando una mano a ripassare la letteratura italiana.»

Il cavalier Bonofede annuì compiaciuto.

«Oh, bene, bene», disse, con il suo solito tono pacato. «Allora, non vi disturbo più, ragazze. Ho sentito che devi ancora lavorarci un pochino qua e là, cara, ma ci sei quasi.» Sorrise con fare affabile. «Sono molto contento che abbiate fatto amicizia, sapete?»

Prima ancora che la porta si fosse rinchiusa del tutto, Marta fu di nuovo addosso a Edith, trattenendo a stento una risata nervosa. Aveva il cuore che batteva impazzito, tanto che l’altra se lo sentì sbattere forte contro il petto: tutte e due avevano avuto paura.

Ma quando Marta rovesciò Edith sul letto, scivolando lungo il suo corpo fino a lambirle il bocciolo delicato della vagina con la lingua frenetica, dall’Inferno salirono in Paradiso.

E così fu tutta quell’estate, la più bella delle loro esistenze.

Un continuo volo nel Paradiso.

 

* * *

 

Settembre 1903

 

 

Era stata un’estate meravigliosa. Ma era passata, come passano tutte le estati, e tutte le altre stagioni, una in seguito all’altro, nel continuo succedersi dei mesi, degli anni e delle epoche. Tutto passa, e questo è l’ineluttabile destino delle cose fisiche, soggette alle regole ferree e spesso crudeli del tempo, a cui non possono sottrarsi.

Edith aveva dovuto fare ritorno a casa. Aveva dovuto separarsi dalla sua amata Marta, anche se questo le aveva svuotato l’anima e riempito di lacrime gli occhi. Allontanarsi da lei l’aveva lacerata nel profondo. Il freddo l’aveva invasa, minacciando di non abbandonarla mai più.

E non era stata la sola difficoltà da affrontare. Suo padre era furente.

«Non sposerò Carlo Maria», aveva comunicato, risoluta, la mattina della partenza, dopo essersi sollevata dal baule che stava riempiendo di abiti e biancheria ripiegata, quando lui le aveva domandato conto dei mesi appena trascorsi.

A replicarle era stato un ceffone violento che le aveva tolto il fiato e le aveva lasciato un profondo segno rosso sulla guancia.

«Mi stai facendo perdere la pazienza, Edith!» aveva ruggito il signor Mayer, guardandolo con occhi spaventosi. «Io comincio a non tollerare più questa situazione ridicola e oltraggiosa!»

Senza fiato, interdetta da quella reazione inaspettata, la ragazza non era riuscita nemmeno a dire nulla. Era rimasta a bocca aperta per lo sconcerto. Suo padre era sempre stato un uomo brusco e autoritario ma mai, per nessun motivo, si era sognato di alzare le mani su di lei. Ora, nei suoi occhi quasi spiritati, vedeva qualcosa di sinistro.

Qualcosa di mostruoso che, però, non seppe interpretare.

«Non capisci che, facendo così, rovini non solo la tua vita, ma soprattutto, cosa ancora più importante, la mia vita e la mia reputazione?!» aveva proseguito l’uomo, sbraitando. «Rinunciando a sposare quel giovane, mi farai perdere tantissimo denaro! Con tutto quello che mi è costato tenerti qui tutti questi mesi, quando saresti potuta rimanere a casa come al solito! Per non parlare di quello che potrebbe pensare o dire la gente, sapendo che mia figlia, pur potendolo e dovendolo fare, non vuole prendere marito!»

Quella era stata l’estate delle novità, per Edith. La sua vita era mutata profondamente. Non solo aveva scoperto che cosa significasse amare qualcuno con tutto se stessi, donando in piena libertà il proprio corpo e la propria anima a un altro corpo e un’altra anima. Adesso aveva anche trovato il coraggio per replicare a suo padre. Mai, prima di quell’estate, si sarebbe spinta a tanto. Ma la vecchia Edith, quella sempre piegata ai doveri di figlia, non libera di essere una donna con la propria vita e i propri sogni, ora non c’era più. Marta le aveva mostrato chi fosse davvero. E non se lo sarebbe scordata mai.

Si sentì montare dentro una furia che non aveva mai provato prima in vita sua.

«Non me ne importa nulla né dei soldi né di quello che potrebbe pensare la gente!» strillò, fissandolo dritto negli occhi, senza ombra di paura. «Io sono una donna libera! Se non te ne sei ancora ancora, te lo dico io: siamo in un nuovo secolo, è tutto diverso! Io… ahhh!»

Restò senza fiato. Suo padre le aveva afferrato un polso e glielo stava torcendo con rabbia.

«Papà… così mi fai male…» singhiozzò.

«È nulla, se lo paragoni al dolore che provo io a sentire mia figlia che parla in questo modo!» ruggì lui.

Allentò un po’ la stretta. Ora non sbraitava più, e parlava con tono freddo.

«Non osare rivolgerti a me in questo modo, Edith, non osare mai più… nemmeno tua madre ci ha mai provato, o sarebbe finita male. Molto male. Le avrei spaccato la testa a bastonate e la schiena a cinghiate per molto meno, posso assicurartelo. E tu non sei lei… non sfidare la mia autorità, o te ne farò pentire nel peggiore dei modi. Stai a cuccia, sciocca bestiolina, o diventerò cattivo per davvero…»

Quel riferimento a sua madre riempì di lacrime gli occhi di Edith. Questo era davvero troppo.

«Io non sono la mamma!» strepitò. «Forse lei avrebbe obbedito in tutto, ma io…»

«NON OSARE BESTEMMIARE LA SANTA MEMORIA DI TUA MADRE!» ruggì il signor Mayer, fuori di sé, riprendendo a torcerle il polso.

Edith gridò forte per il dolore acuto, ma lui non ci fece caso. Continuò a stritolare il braccio in quella specie di implacabile morsa e a urlare, la voce che saliva di tono e si faceva sempre più stridula a ogni parola.

«Non dimenticare che è morta nel darti alla luce! Tu sei responsabile della sua morte! Non provare a trincerarti dietro di lei o non avrò pietà! Vedrai di che cosa sono capace e ti prometto che non ti piacerà per niente!»

Con uno spintone l’allontanò da sé, mandandola a ruzzolare sul pavimento. La ragazza scivolò all’indietro e picchiò con la testa contro lo spigolo del cassettone. Per un istante, a Edith parve di galleggiare in un nero nulla, fatto di pura tenebra e vertigine. Scivolò nel niente, e non seppe per quanto a lungo ci rimase sospesa. Poi la luce rifluì ai suoi occhi e tornò a mettere a fuoco la stanza. Provò un senso di nausea, ma si riprese non appena riconobbe il viso che la fissava da pochi centimetri di distanza.

Marta era china su di lei e la guardava con apprensione. Si accorse che le aveva stretto la mano. Era sudata. Spaventata. Suo padre era in un angolo della stanza, rosso di collera, con accanto il cavalier Bonofede e Carlo Maria, che cercavano di calmarlo con qualche parola.

«Edith, amore…» disse Marta.

Edith non fu nemmeno certa se lo avesse soltanto sussurrato o se avesse parlato ad alta voce, senza curarsi di ciò che avrebbero potuto pensare gli altri. Scoprì che non le importava.

«Devo essere svenuta», mormorò.

Marta aveva nell’altra mano una pezzuola inumidita. Odorava di aceto. Gliela passò sul viso.

«Ora sto meglio», sussurrò, cercando di mettersi a sedere.

Ebbe un capogiro seguito da un nuoto attacco di nausea. Il polso, dove suo padre glielo aveva ritorto, pulsava forte, mandando fitte dolorose lungo tutto il braccio. Non resistette e tornò a sdraiarsi sul pavimento.

«È inciampata», proclamò ad alta voce il signor Mayer. Respirava molto forte, in preda a una specie di frenesia. «Edith aveva fretta di partire per casa nostra ed è inciampata! Non ne può più di questo posto e di questa gente, vuole soltanto tornarsene a casa, ma la fretta è sempre cattiva consigliera.»

Nessuno gli badò. Il cavaliere fece un passo verso di lei, tallonato da vicino da Carlo Maria, che non sembrava troppo felice di trovarsi nei paraggi di un uomo violento e rancoroso come Mayer.

«Come sta, signorina Edith?» domandò il cavalier Bonofede, con fare bonario.

«Sta bene, sta bene», tagliò corto Mayer, indispettito. «Anzi, ora basta perdere tempo, Edith: ci aspetta un lungo viaggio e dobbiamo partire al più presto! Vedi di darti una mossa!»

Marta si girò di scatto verso di lui, pronta a dire qualcosa di tagliente, ma tornò subito a guardare Edith quando lei le strinse la mano. Si guardarono negli occhi e tra loro passò un’intesa silenziosa.

Lascialo perdere. Non ne vale la pena.

Anche il cavaliere dovette pensare qualcosa di simile. Non degnò Mayer di uno solo sguardo e continuò a sorridere con fare bonario alla ragazza.

Edith, questa volta, riuscì a mettersi seduta. Con l’aiuto di Marta, si alzò in piedi. Le gambe vacillarono un istante, minacciando di cedere, poi la ressero. Si toccò il cranio e una smorfia dolorosa le si disegnò sul viso: le si stava allargando un grosso bernoccolo nel punto in cui aveva sbattuto. Il polso pulsò ancora, ma iniziava già ad andare meglio. Incrociò di nuovo gli occhi di Marta e le comunicò con un sorrisetto che andava tutto bene.

«Be’, caro signor Mayer, pare che siamo ai saluti», disse il cavaliere, voltandosi in modo brusco all’industriale. «Evidentemente, questo matrimonio non s’aveva da fare. Né sua figlia né mio figlio sono riusciti a intendersi, a quanto pare. Ma spero che questo non guasterà i nostri rapporti: se sua figlia lo vorrà, potrà essere ospite a casa nostra tutte le volte che lo desidererà. Non ho potuto fare a meno di notare che, tra lei e la mia Marta, è nata un’amicizia molto profonda, particolare e… intima.»

Il cavalier Bonofede disse queste ultime parole senza riuscire a celare un sorrisetto che pareva voler alludere a molto più di quanto avesse detto. Marta e Edith avvamparono, ma si scambiarono uno sguardo dolce e pieno di felice speranza per l’avvenire.

Mayer non fece caso a tutto questo. Forse non se ne accorse nemmeno. Ignorò in modo ostentato e plateale la mano che il milanese gli stava porgendo.

«Ai miei tempi non era questione di intendersi tra figli, quanto piuttosto tra padri», disse, con accento ripugnato. «Io proprio non so dove stia andando a finire questo mondo… in quanto a mandare mia figlia ospite in casa di estranei, me ne guarderò bene. Che cosa potrebbe mai pensare la gente, sapendo una cosa del genere? Lo scandalo sarebbe inimmaginabile. Probabilmente, dalle vostre parti, l’onore e la reputazione non si sa più nemmeno dove stiano di casa, ma le assicuro che, dove vivo io, sono ancora tenuti in grande considerazione.»

«Oh, be’…» fece Bonofede, un poco interdetto. Ritrovò subito la sua solita aria gioviale. «In fondo, chi siamo mai, noialtri, per decidere come debba andare il mondo o che cosa debba pensare la gente? Non abbiamo voce in capitolo, mio caro Mayer. È una faccenda molto più grossa di noi.»

Per tutta risposta, Mayer si voltò a guardare dalla finestra, rifiutandosi di rispondere qualsiasi cosa.

Il cavaliere si strinse nelle spalle e si rivolse con un sorriso paterno a Edith. Le porse la mano per una stretta che lei fu molto felice di ricambiare.

«Signorina Edith, è stato un piacere immenso fare la sua conoscenza. Le auguro di fare un buon viaggio. E mi raccomando, scriva e telegrafi tutte le volte che lo desidera.» Strizzò l’occhio con fare complice e soggiunse, sottovoce: «Questo, almeno, non dovrebbe creare scandalo tra i benpensanti, giusto?»

«Ci siamo già scambiate gli indirizzi», sottolineò Marta. La guardò con quei suoi occhi grandi in cui Edith avrebbe voluto perdersi a annegare. «E ha già promesso di scrivermi una lettera non appena sarà arrivata, vero?»

«Certo…» rispose Edith, arrossendo.

Non era mai arrossita davanti a Marta per via di qualcosa che aveva detto o fatto lei, ma con tutte quelle persone attorno era tutto molto diverso. Non era semplice come quando erano sole.

Si erano già scambiate il bacio dell’arrivederci la notte prima – era stato molto, molto più di un semplice bacio, a dire il vero, e quando avevano pianto per l’imminenza della separazione, si erano sapute consolare a vicenda – ma ora avrebbe tanto desiderato dargliene un altro, un altro ancora e di nuovo uno, e non smettere più di baciarla, mai più…

Ma era il momento di andare.

Fu il momento di ricacciare indietro le lacrime.

Le loro dita si sfiorarono, un tocco segreto e misterioso; e in quel tocco delicato vibrò ancora una volta la promessa che si erano già fatte: si sarebbero amate per sempre. Quello era stato un inizio, soltanto un inizio. Nulla e nessuno avrebbe mai separato le loro anime, legate a corpi differenti ma capaci di fondersi in un’unica essenza calorosa e dolce come il più saporito dei mieli.

Ora ci sarebbe stata la vita intera, davanti a loro.

Ognuna doveva tornare alla propria casa, consapevole che la separazione sarebbe stata di breve durata.

 

* * *

 

Villa Mayer, ottobre 1903

 

 

Le lettere che scriveva Marta erano appassionate, trasudavano amore vero e totale da ogni singola parola. Nessuno, leggendole, avrebbe potuto fraintenderle. La prima volta che Edith ne aveva letta una, si era sentita rimestare tutta come se lei – lei, il suo amore, e come altro chiamarla, altrimenti? – fosse davvero stata lì con lei, a toccarla, a baciarla, ad accarezzarla e a farle conoscere tutti i segreti della passione più ardente.

All’inizio, le lettere di Edith erano state più formali, più posate. L’aveva colta il timore che qualcuno potesse intercettarle e leggerle. Aveva fatto giri di parole per dirle ciò che pensava.

Così, se da una parte Marta le scriveva senza mezzi termini o finte allusioni: “Vorrei che la mia figa si spalancasse tra le tue dita calde”, Edith rispondeva: “Quanto agognerei essere ancora con te in quel giardino incantato in cui cogliere il bocciolo di rosa più prezioso e levigato”; e se Marta non si faceva scrupoli a dire: “Avrei voglia che mi chiavassi adesso, spremendo e sfregando la tua vulva contro la mia”, Edith replicava con un più pudico: “Desidererei tanto ricominciare a studiare letteratura insieme a te. Mi manca soprattutto lo studio di Dante!”. Poi, però, anche lei aveva a poco a poco ceduto alla passione che le ardeva in petto e che si era trasmessa alla penna e alle parole. Al diavolo ogni formalità, si era detta, mentre scriveva: “Vorrei perdermi tra le tue cosce, vorrei allattarmi al tuo seno, vorrei bere alla tua bocca e infine morire per sempre tra le tue braccia”. Certo, non era riuscita a raggiungere lo stile sboccato di Marta, che in una lettera accartocciata e ancora un poco umida aveva scritto, con mano tremante: “Sono qui allo scrittoio e mi sto toccando da sola mentre immagino di far scivolare la lingua sulle tue belle poppe sode e di bere i succhi saporiti che sprigionano dalla tua figa, e intanto spremere le dita sul vello che la circonda… sei il mio tesoro più prezioso, Edith, amore mio”. Nondimeno, pur essendo incapace di adoperare certi termini molto popolareschi, aveva trovato il coraggio di rivelarle di essersi data piacere da sola, quasi con furia, mentre teneva quella lettera premuta contro il viso.

Solo che poi, all’improvviso, la corrispondenza si era interrotta. Pensando a un errore, alla possibilità che la sua ultima lettera fosse andata smarrita chissà dove, aveva scritto di nuovo. E, di nuovo, non aveva ricevuto alcuna risposta.

Marta, da un giorno all’altro, era scomparsa. Lo aveva fatto senza un solo segno, passando dall’ardore più assoluto al silenzio totale di momento in momento.

Avrebbe potuto ricorrere al telegrafo. Ma nel paesetto di poche case che sorgeva vicino alla villa non c’erano uffici telegrafici, e l’unico disponibile era all’interno della fabbrica tessile, in uno stanzino proprio accanto all’ufficio del signor Mayer. Impossibile pensare di adoperare quel mezzo per avere notizie della donna che amava.

Così, poco a poco, Edith aveva cominciato a soffrire.

All’inizio aveva continuato a sperare. Ogni volta che arrivava il postino davanti al cancello della villa, il suo cuore prendeva a battere molto forte. E la delusione raddoppiava e triplicava ogni volta che scopriva che, in mezzo a conti, fatture, lettere commerciali e altra corrispondenza lavorativa del signor Mayer, non c’era nessuna letterina da Milano per lei.

Le notti insonni si erano sommate alle notti insonni. Il pianto aveva preso a scorrere dai suoi occhi, fino a che non aveva più avuto lacrime da versare e le erano rimasti soltanto singhiozzi e singulti silenziosi e asciutti. Era deperita a vista d’occhio.

In quelle settimane, una volta compreso che il silenzio si era ormai fatto definitivo, aveva odiato Marta. Aveva maledetto il giorno in cui l’aveva conosciuta, aveva pensato a lei come a una perfida strega arrivata per incantarla e irretirla con la sua rete magica e ingannatrice, per poi abbandonarla a morire da sola con la sua disperazione.

Solo che l’odio non era riuscito a prevalere.

L’amore – quell’amore vero, totale, colmo di passione – tornava sempre a farsi largo in lei, e allora soffriva ancora di più, soffriva sempre più forte, perché anche se l’amava così forte da essere certa di poter devastare il mondo, forse l’intero Universo, con la potenza della sua passione, Marta non tornava da lei.

Marta taceva e Edith soffriva.

Soffriva e deperiva.

Fino a quando suo padre, quel suo padre violento e dispotico, che aveva sempre a cuore il proprio interesse e il pensiero della gente e di ciò che avrebbe potuto sussurrare alle sue spalle, prese energicamente in pugno la situazione e mandò a chiamare il professor Husserl.

 

* * *

 

Villa Mayer, dicembre 1903

 

 

Ora l’umiliazione di quelle settimane era finalmente conclusa. Husserl se n’era andato per sempre, non l’avrebbe più toccata con le sue mani sporche e ripugnanti. Questo non cambiava la sostanza, comunque. Lei non c’era, lei non si faceva più viva, lei l’aveva abbandonata, e le sue sofferenze non erano diminuite. Erano soltanto aumentate. La cura era stata del tutto inutile.

Edith si era aspettata di non poterla passare liscia, e infatti così era stato.

«È tutta colpa tua!» sbraitò suo padre, entrando come una furia nella grande sala. «Ti rifiuti di guarire per farmi un dispetto, per rovinarmi l’anima e avvelenarmi il sangue! Tu vuoi la mia morte, svergognata che non sei altro!»

Edith continuò a fissare la neve vorticare oltre la vetrata, stringendo le braccia contro il petto rattrappito. Fu come se non lo avesse nemmeno udito. Ormai, quell’uomo non contava più nulla, per lei. Cercò ancora con lo sguardo la figura intabarrata che aveva notato poco prima, ma non la ritrovò. Forse se l’era soltanto immaginata.

«Girati quando ti parlo, sgualdrina!» tuonò Mayer, facendo un passo in avanti.

Stavolta Edith si girò a fronteggiarlo. Nel mezzo del suo viso pallido, i suoi occhi grigi parvero mandare bagliori spettrali.

«Non provarci un’altra volta, a chiamarmi in una maniera simile», minacciò. «Non puoi permetterti di dirmi una cosa come questa! Non ho fatto nulla di nulla, perché tu debba chiamarmi con un tale epiteto!»

Il labbro inferiore di Mayer tremò in maniera pericolosa.

«Non hai fatto nulla di nulla, dici?!» sussurrò.

I suoi occhi emanarono di nuovo la stessa luce sinistra e infernale che Edith aveva già notato in settembre, alla partenza dall’albergo, quando lui l’aveva picchiata. Un moto di spavento la attraversò tutta.

«E come dovrei chiamarti, visto le sozzerie che non stanno né in cielo né in terra che vi scrivete tu e quella puttanella della figlia di Bonofede?!» urlò l’uomo.

A Edith mancò un battito. Ebbe un giramento di testa e per poco non perse l’equilibrio. Incespicò all’indietro fino ad appoggiarsi con la schiena alla vetrata gelida.

«Tu… tu sai…?»

«Ho intercettato tutte le lettere piene di lerciume che quella puttana ti ha scritto in questi ultimi mesi!» ruggì Mayer. «Mi sono reso conto troppo tardi di che cosa correva tra voi due bestie innaturali, ma ho comunque cercato di rimediare! Ho dovuto dare ordine all’ufficio postale di consegnare a me di persona tutte le lettere indirizzate a te e quelle che tu imbucavi! Le ho prese e le ho bruciate tutte quante, e continuerò a farlo finché questa storia assurda non avrà fine! Io non posso credere che mia figlia… mia figlia sia… sia… sia… ahhhh!» Si portò le mani sulla testa e si strappò interi ciuffi di capelli. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Ah, che vergogna indegna! Speravo che il dottor Husserl ti guarisse, ti riportasse alla normalità…! Nulla, tutto vano! Quanto vorrei che fossi morta tu, invece di tua madre! Cosa diranno, in paese, quando si saprà quale vergogna mi sono messo in casa?! Ormai sei inguaribile! Nemmeno se io stesso ti rovesciassi in terra e ti penetrassi con furia equina, insegnandoti quale sia il solo scopo di una femmina, potrei farti rinsavire dalla tua insania!»

Durante quel delirante discorso, Mayer aveva preso a muoversi avanti e indietro per la stanza, come un ubriaco. Edith, invece, paralizzata dall’orrore, era rimasta inchiodata dove si trovava. Non riusciva a capacitarsi del fatto che tutta la sofferenza che aveva patito per tutta l’autunno, tutto ciò che aveva subito, tutti i patimenti che aveva sentito nel cuore e nello spirito, fossero dovuti all’opera maligna di suo padre. Quel padre che adesso delirava, dicendo cose che mai e poi mai una figlia dovrebbe ascoltare.

«Vergogna della famiglia!» ululò Mayer. Ormai, più che un uomo, pareva un essere mostruoso. Si agitava, in preda a un crescente e insano farneticamento. «Mia colpa! Mia! Avrei dovuto sopprimerti appena nata, sudicia e abominevole bestia! Ah, la rovina è caduta sulla mia casa! Vergogna! Onta! Depravazione tra queste mura! Hai infettato il mio sangue, essere schifoso, lurido e innaturale!»

Di colpo, il furore esplose dentro di lei. Una rabbia cieca. La consapevolezza che le fosse vietato di essere se stessa… che le fosse vietato di vivere. Il pensiero che chi avrebbe dovuto amarla, proteggerla e sostenerla in tutto fosse in realtà il suo più spietato e mortale nemico.

Troppo, per Edith.

Troppo.

Troppo da sopportare ancora.

«Bastardo!» gridò.

Si scagliò in avanti, i pugni protesi. Non avrebbe saputo dire nemmeno lei che cosa volesse. Voleva colpire, voleva fare male. Voleva annientare. Uccidere. Sentiva un odio antico, primordiale, sentiva dentro di sé la forza irresistibile di milioni di altre donne come lei che chiedevano solo di essere considerate, trattate come creature umane e non come oggetti. Sentì dentro di lei il sapore rabbioso e turbolento di una vendetta che bruciava attraverso le pieghe del tempo.

Fece per colpire, ma era troppo debole.

Suo padre la spintonò bruscamente e, come già mesi prima, la gettò in terra. Solo che questa volta Mayer non si fermò a quello. Si avventò di lei e cominciò a prenderla a calci, colpendola ovunque riuscisse ad arrivare. La sollevò di peso con entrambe le mani e la sbatté di nuovo al suolo, facendola urtare con la testa contro la mensola del caminetto. Il colpo si riverberò dentro di lei, frastornandola e paralizzandola.

«Ti uccido, sconcezza!» gridò Mayer.

Ma ormai i suoi urli erano i ruggiti, i versi di una bestia, di un mostro indescrivibile. Non c’era più nulla di umano, in lui. Sempre che qualcosa di umano fosse mai esistito, dentro l’essenza mostruosa del signor Mayer.

Il dolore che Edith provò fu dapprima lancinante, poi scomparve. Ancora una volta, provò la sensazione di star scivolando in una dimensione di tenebra e di vertigine, dove non c’era fisicità, ma soltanto vuoto, un vuoto pieno di altri come lei, di milioni e miliardi di individui che chiedevano vendetta, che imploravano che qualcuno riscattasse il loro nome.

Eppure, a Edith non sembrò di crollare del tutto in quell’altro mondo.

Continuò a vedere la stanza, in un certo senso. La vedeva da lontano, distorta, come se la stesse guardando attraverso una lente sfocata, o un vetro appannato, ma la vedeva sempre. E vedeva il mostro – suo padre – continuare a colpirla con calci in faccia, in testa, nel petto, sullo stomaco, contro la schiena ormai spezzata. Colpi che rompevano, spappolavano, sfiguravano quel suo povero corpo da cui l’anima era stata costretta a fuggire.

E poi con i suoi occhi, anche se ormai ciechi, vide la porta spalancarsi alle spalle di suo padre e la figura col tabarro nero che poco prima – una vita prima – aveva visto arrancare nella neve.

 

* * *

 

«Nooo, Edith!» gridò Marta.

Mayer, tutto intento alla sua opera devastatrice, quasi non si accorse di lei. Impazzito, continuò a colpire il cadavere della figlia, come se desiderasse distruggerla, annientarla fino a farla scomparire.

Marta scostò il lungo manto nero che le rendeva difficili i movimenti e si buttò in avanti. Con una spallata nella schiena, allontanò Mayer da Edith e lo mandò a ruzzolare in terra. Era forte, Marta, anche se in apparenza sembrava uno scricciolo. Era tanto forte da essere fuggita di casa per salire fino a quel luogo lontanissimo per scoprire come mai la sua amata Edith non avesse più risposto alle sue numerosissime lettere. Sospinto dalla sua furia, Mayer si accasciò e restò immobile.

Marta crollò sulle ginocchia e si protese ad abbracciare il corpo caldo e insanguinato di Edith.

«Edith… Edith, amore… non lasciarmi… torna qui…» implorò.

Calde lacrime le scivolarono dagli occhi e bagnarono il volto esanime della sua giovane innamorata. Marta avvicinò le labbra a quelle martoriate di Edith e vi cercò un alito di vita, ma quelle restarono inerti. Stavano diventando cianotiche. Le sue dita tremanti le cercarono le mani, sperando di riceverne in cambio una stretta.

Invano.

«EDITH!» urlò a pieni polmoni la ragazza. Un urlo isterico, disperato. «EDITH, TORNA QUI!»

Per un istante, Marta ebbe l’impressione che Edith avesse sollevato una palpebra. Troppo tardi si rese conto che era stato solo un gioco di ombre alle sue spalle, un cambio di luce dovuto a qualcosa che si era mosso.

Si voltò, ma non fu abbastanza veloce.

Attraverso il velo di lacrime, vide che Mayer si era alzato in piedi e aveva brandito l’attizzatoio del caminetto. Con un movimento secco, la punta aguzza e incandescente dell’attrezzo calò verso di lei e le forò la parte bassa della schiena, uscendo dalla parte del ventre.

Marta, senza emettere un solo gemito, si accasciò contro il corpo di Edith. Cercò di respirare, ma le costò troppa fatica. Il sangue le gorgogliò nei polmoni, soffocandola. Non riuscì a compiere nessun movimento, né poté impedire a Mayer di sollevarla di peso e di scaraventarla con la testa dentro il camino acceso, sopra il ciocco ardente. Le fiamme le attecchirono ai capelli, avvolsero il viso e consumarono pelle e carne. La ragazza tremò, si irrigidì e infine il suo corpo si rilassò per sempre.

«Sgualdrine, puttane, abomini della natura!» abbaiò Mayer. «Per fortuna ho preso energicamente in pugno la situazione contro di voi, mostri schifosi!»

Per un momento, Mayer parve sul punto di cadere ancora, come se lo avesse colto un mancamento. Si riprese quasi subito e si chinò ad afferrare il corpo di sua figlia. Le mani gli si macchiarono di sangue.

«Vi porterò nel bosco, carogne, e lascerò che gli animali selvaggi pasteggino con le vostre carcasse putride, e poi io…»

Le parole gli morirono in bocca.

Perché Edith – il cadavere di Edith – era stretto tra le sue mani.

Ma Edith era anche lì, in piedi di fronte a lui, accanto al camino.

Era lì, in piedi, e lo guardava con due occhi che erano pozzi neri attraverso cui scorreva tutta l’eternità, pozzi neri oltre i quali gridavano voci che non avevano corpo, volti che non avevano identità.

Il signor Mayer urlò.

 

 
   
 
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