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Autore: Orso Scrive    11/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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9.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Mi sento come quei tizi su YouTube che vanno in giro per vecchie case e cimiteri abbandonati, con le telecamere e tutti quegli aggeggi assurdi pieni di microfoni e led, a cercare se ci sono fantasmi», commentò Daniele, con un sorriso.

Anche Valeria trovò la forza per dischiudere le labbra in un piccolo sorriso.

«Gli HUL, gli Hunters of Unusual, li seguo sempre», disse. «Magari è tutto finto, però… chissà. A volte mi fanno fare qualche balzo sulla sedia, lo ammetto. Fanno sempre vedere di quei luoghi assurdi, con le loro esplorazioni. Alcuni sono molto affascinanti e mi piacerebbe visitarli di persona, prima o poi. Però loro ci trovano sempre dentro di tutto: demoni, strane presenze, fantasmi… io ne ho visti tanti, di cimiteri abbandonati, ma non ci ho mai trovato nulla al di fuori di un senso di pace. E, in fondo, perché mai un’anima dovrebbe restare legata a un cimitero che non ha mai avuto alcun significato per la sua esistenza? Lì ci sono i resti di un corpo, ossa e poco altro, ma nessuno di noi si interessa di quale fine facciano i suoi vestiti vecchi e logori e sciupati, dopo essersene disfatto, no?»

Erano immobili sotto il portico d’ingresso a Villa Mayer.

Dopo aver risalito adagio il poggio che un tempo aveva accolto il parco della dimora, e che ora si era tramutato in un intrico di vegetazione non dissimile dal resto del bosco circostante – non fosse stato per la presenza di palme, allori e oleandri ormai inselvatichiti, piante che difficilmente sarebbero potute crescere da sole a simili latitudini – avevano superato i tre gradini che immettevano nel portico. Il cemento sbriciolato aveva scricchiolato sinistro sotto le suole delle loro scarpe. Cric-cric.

Superare il sentiero nel bosco, per quanto breve, era stato complicato.

Dal buio sotto gli alberi, dalle spire della nebbia, sembrava di essere osservati da creature misteriose e silenziose, pronte a balzargli addosso. Oltrepassare il parco, poi, era stato difficilissimo: non avevano fatto altro che guardarsi attorno, cercando di sondare le insidie celate nelle ombre fitte. Gli alberi – le palme, soprattutto: Daniele aveva scoperto che le palme gli mettevano addosso un’ansia tremenda, forse perché in quel luogo erano del tutto fuori posto, qualcosa di estraneo e sbagliato, così dritte in un mondo dove le altre piante tendevano a crescere storte e contorte per assecondare il vento e gli altri elementi – sembravano sagome immobili, forme oscure grondanti umidità, i cui scricchiolii erano mormorii indistinti in una lingua sconosciuta.

Peggio del parco e del bosco messi insieme, però, si era rivelato essere il porticato. Molto peggio. Vi si respirava l’atmosfera della villa. Vi si sentiva aleggiare sopra quella sensazione che tutto fosse… ancora una volta, che tutto fosse sbagliato. Se le palme nel parco erano fuori posto, l’intera struttura di Villa Mayer era dannatamente fuori posto. Era un brivido lungo la spina dorsale, una mano gelida che si chiudeva a tenaglia sui loro cuori, un pugno nello stomaco che smorzava il respiro e stringeva come una morsa.

Lì si erano fermati.

Tesero le orecchie. Non udirono altro suono all’infuori dei loro respiri. Non si udiva più null’altro, neppure i sussurri degli alberi, come se salendo quei tre gradini avessero varcato la soglia di un’altra dimensione. Il mondo dei vivi dietro di loro e il regno della morte davanti, oltre la soglia, come la porta della perduta gente. E loro nel mezzo, in un limbo di irrealtà.

Gli occhi di Daniele sfiorarono l’immagine di Valeria. Cercò in lei un poco di conforto. Senza di lei, non si sarebbe mai neppure avvicinato. Ma la presenza della giovane donna gli diede una delicata parvenza di sicurezza. Magari soltanto una parvenza, appunto; ma meglio di niente.

Accanto alla porta di legno, un tempo, doveva esserci stata una grande vetrata. Ora però era stata sigillata con delle assi inchiodate. Non si poteva vedere alcunché dell’interno di Villa Mayer. La tettoia sopra il porticato era sfondata, e tegole e calcinacci avevano ricoperto l’impiantito. Il resto della dimora era celato dall’oscurità, dalla vegetazione che vi si protendeva addosso quasi a volerla ricoprire per intero e dalla nebbia. Quella assurda nebbia, quel mare di latte che non faceva che aumentare e che penetrava sotto i cappotti e gli abiti, gelando i corpi e strappando brividi quasi dolorosi.

Daniele distolse con parecchia fatica gli occhi da Valeria e fissò la porta chiusa.

Qualcosa, dentro di lui, sperava che fosse serrata a chiave, sbarrata, inviolabile. Avrebbe tanto voluto che non si potesse aprirla, e neppure abbatterla, nemmeno se fossero tornati con un ariete come soldati all’assalto di una fortezza. Quell’immagine gli richiamò alla mente alcuni giocattoli che aveva da bambino: soldatini di plastica che, con una torre d’assedio, dovevano abbattere il muro di un castelletto. Quanto giocare che aveva fatto, nei lunghi pomeriggi d’inverno: era un continuo inventare storie, avventure. Ogni personaggio aveva un nome, delle sue proprie caratteristiche. Non riuscì nemmeno a spiegarsi perché quei ricordi fossero affiorati proprio adesso: forse, la sua mente stava cercando di appellarsi alla realtà della sua esistenza, di ancorarsi ai ricordi concreti per sottrarsi al terrore che fuoriusciva a lente spire da ogni più minuto intaglio in quella porta, da ogni microscopico buco di tarlo, da ogni fessura appena accennata.

Voleva andarsene. Voleva fuggire il più lontano possibile. Sentiva di non doversi trovare lì. Avrebbe preso Valeria per la mano e l’avrebbe trascinata via, portandola dove non avrebbero più avuto paura. Avrebbe pensato lui, per il resto della sua vita, a proteggerla dal mondo intero. L’avrebbe tenuta al sicuro da tutto e da tutti, compresa quella dannata Edith che la tormentava. Ma il più lontano possibile da quel luogo. Eppure, sapeva che non era possibile: non avrebbe potuto fare nulla, per Valeria, se lei prima non avesse messo piede in quella vecchia casa, scoprendone i segreti.

Dalle labbra gli sfuggì una risatina nervosa, che si tramutò nell’immediato in un indistinto suono gutturale. Aveva una fifa tremenda in corpo e, per quanto si appellasse al proprio autocontrollo, non si sentì molto capace di poterla scacciare.

Era quel luogo. La villa, il parco, la nebbia. Il silenzio. Quel silenzio assurdo e irreale, quel silenzio sospeso tra due piani dell’esistenza di solito separati.

Era tutto questo e altro ancora, altro che non sarebbe riuscito a definire.

Era tutto così… così sbagliato.

Potevano esserci mille parole differenti, si sarebbe potuto sfogliare il più grosso vocabolario mai compilato, ma quella sarebbe l’unica definizione possibile, la sola corretta per tutto questo: sbagliato.

Sbagliato.

«Gli HUL, però, in questo posto non ci sono mai venuti», disse, cercando di apparire calmo. Non ci riuscì. La voce gli tremò forte.

«Credo che si cagherebbero addosso dalla paura», fece eco Valeria.

«Di sicuro, io mi sto cagando addosso dalla paura», borbottò Daniele. «Se senti qualche strano odore, sono io.»

Il braccio di Valeria gli scivolò attorno alla vita. Tenersi stretti aiutò entrambi a superare lo sgomento che li stava invadendo, come se dalle fessure nelle pareti di Villa Mayer stesse strisciando fuori una paura sottile capace di solidificarsi attorno a loro.

«Allora temo che ottureremo il cesso, perché mi sto cagando addosso pure io», confessò la ragazza. «E mi sa che, in questo posto, nessuno si sarà preso la briga di pulire il bagno da un bel mucchio di anni. E mi sa che il bidet non funziona.»

Daniele ebbe un altro guizzo di ricordi del passato. Stavolta, fu un tuffo nella musica demenziale che ascoltava da adolescente.

«Se sarà così, ci toccherà tenerci le croste di merda nel culo», borbottò.

Valeria si girò di scatto verso di lui.

«Anche tu conoscevi gli Zio Ematitos?!»

«Non puoi dire di aver vissuto davvero gli anni Duemila, se non hai mai conosciuto Ezio Stimato», rimarcò lui, sogghignando.

Guardò di nuovo verso la porta di Villa Mayer. Il sogghigno gli si affievolì fino a scomparire del tutto.

«Siamo ancora in tempo a darcela a gambe, andare a cercare un bel posto caldo e passare il resto della notte a bere cioccolata e guardare i cartoni animati», mormorò, con un filo di speranza nella voce. «Lascio scegliere a te se preferisci i Digimon, o Paperino, o Dragon Ball, o qualsiasi altra cosa, basta che sia tutta colorata e faccia sorridere… o, al massimo, facciamo partire una playlist con tutta la discografia degli Zio Ematitos…»

Valeria annuì.

Lo guardò negli occhi e parlò con tono sereno.

«Tu sei ancora in tempo e io non ti tratterrò dall’andartene, se lo vorrai. Hai fatto anche troppo, per me. Non dovresti essere qui. Ma io non posso… io non posso più fuggire. Voglio capire, sapere. E se la risposta è oltre questa porta, allora intendo trovarla.»

Non c’era risentimento, nella sua voce, e nemmeno delusione. Soltanto dolcezza e risoluzione.

Stavolta fu il turno di Daniele di tenerla stretta. Cercò la sua mano e la prese nella sua.

«Non ti lascio sola», disse, secco. «Non valgo niente, non sono un granché in nulla, al massimo sono un nerd da quattro soldi che bazzica forum in internet come se fosse rimasto fermo a dieci o quindici anni fa e si fa sciogliere il cuore quando si imbatte in una signorina in difficoltà…»

Lei sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. Aveva la mano gelida, ma Daniele percepì un delicato calore che lo scaldò nel profondo.

«…e ti posso assicurare che, se là dentro c’è davvero un fantasma, o un lupo mannaro, o un mostro affamato di carne umana, o un che cazzo ne so… be’, te lo dico, sarà assai poco quello che potrò fare», riprese. «Probabilmente durerò tre secondi, prima di finire steso al tappeto o quello che sarà. Ma non mi importa. Non ti lascio sola. Te l’ho promesso… e non è solo perché te l’ho promesso.»

Valeria, che si era girata di nuovo verso la villa, come se sentisse una voce chiamarla da dentro, distolse gli occhi dalla porta e li fissò in quelli di Daniele. In quelli dell’amico lesse la paura, ma anche la determinazione. La stessa profonda paura e la stessa terribile determinazione che doveva animare il suo sguardo.

«Voglio stare con te, Vale», sussurrò il ragazzo. «Qualunque cosa succeda, io voglio stare con te. Magari siamo due pazzi visionari che credono ai fantasmi, forse siamo due idioti che invece di vivere la realtà si aggrappano ai sogni… non mi interessa. Io voglio restare con te, e questo è quello che ho nel cuore. Sono felice di averti conosciuta, sono felice di essere qui con te… e non ti lascio. Né ora né mai.»

Valeria sentì gli occhi pungere. Era abituata al pianto. Non aveva fatto altro che piangere, in quegli ultimi dieci e disperati anni in cui la sua vita era stata del tutto stravolta. Ma per una volta, le lacrime non minacciarono di fare capolino per la frustrazione o per la rabbia di non avere più il controllo della propria esistenza.

«Dani…» sussurrò.

Non seppe che cosa dire. Non ebbe bisogno di dirlo. Si avvinghiarono in un abbraccio, più stretti che poterono. I loro corpi, addossati l’uno all’altro, si confortarono a vicenda, si diedero forza e coraggio. Sentirono la vita scorrere in loro, in mezzo a loro. Fu come se le loro anime si stessero scambiando di posto, facendoli diventare una cosa sola.

Non seppero dire per quanto restarono abbracciati. Forse pochi secondi. Minuti, magari. Per quello che ne avrebbero saputo dire, forse anche una vita intera. Persero la cognizione del tempo.

Fu un rumore improvviso a riscuoterli. Uno schiocco, forse un ramo secco che cadeva nel parco, probabilmente un calcinaccio, magari qualcosa d’altro. Qualcosa di indefinito.

Sussultarono e si sciolsero dall’abbraccio, ma restarono vicinissimi.

La porta di Villa Mayer incombeva davanti a loro. Sbarrata, una palpebra chiusa, la pupilla cieca di un mostro addormentato.

Non dissero nulla.

Valeria appoggiò la mano destra alla maniglia, coperta di polvere e di ragnatele. Il metallo era talmente freddo che si sentì le dita rattrappire, congelare. Provò ad abbassarla. Era dura, non rispondeva. Si rifiutava di aprirsi, quasi stesse suggerendo a quei due sciagurati di tagliare la corda e andarsene al sicuro, prima che fosse troppo tardi.

Ma era già troppo tardi, Valeria lo sapeva bene.

Aveva cominciato a essere troppo tardi dieci anni prima, quando quel bibliotecario burbero le aveva sbattuto tra le mani quel vecchio libro e lei aveva posato i suoi occhi inconsapevoli su quella fotografia, sull’unico ritratto esistente di Edith Mayer e Marta Bonofede. L’immagine stessa della felicità. Quella felicità che avrebbero perso di lì a poco e che, oltre un secolo dopo, avrebbero strappato anche a lei.

Tante volte se l’era domandato. Tante volte si era chiesta come mai anche lei fosse dovuta diventare la vittima di quel dolore perpetrato quando ancora non esisteva ombra di Valeria, né dei suoi genitori, o dei suoi nonni. Perché anche lei? Che cosa c’entrava lei, in tutto questo?

«Perché?» domandò.

La porta restò muta. Non era lì la risposta. Quello era solo un varco. Ciò che cercava era oltre quell’ingresso, tra quelle mura fredde in cui si era consumata la tragedia. E Valeria era lì, adesso.

Era lì e presto avrebbe saputo.

Spinse più a fondo la maniglia. Serrò gli occhi, facendo forza con tutto il suo corpo. Quella si oppose, cercò di tenerla fuori da lì.

Ma il tocco caldo della mano di Daniele si sovrappose al suo. Insieme, i due amici spinsero, fecero leva. Appoggiarono le spalle al legno e vi concentrarono tutte le loro energie.

Il legno cedette. I cardini emisero un gemito di protesta, la polvere soffiò dai pertugi.

L’ingresso di Villa Mayer si spalancò di fronte a loro.

 
   
 
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