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Autore: Orso Scrive    17/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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21.

 

 

«Amore mio…»

Marta socchiuse gli occhi. La luce del sole, caldo e sfolgorante, era abbagliante. Sentiva una strana vibrazione, tutta attorno a sé. Era una sensazione estraniante. Qualcosa di leggerissimo, quasi etereo, faceva muovere l’aria in volute leggere, che le accarezzavano il viso e le ronzavano nelle orecchie.

Dischiuse le palpebre, desiderosa di capire. Uno spettacolo meraviglioso, mai visto prima, le mandò il cuore in gola.

Era distesa in un prato screziato di fiori colorati. Nontiscordardime azzurri, bocche di leone arancioni, vedovine fucsia, fragolaria gialla… e bianche pratoline, rossi papaveri, dorati favagelli, profumate violette e altre mille essenze selvatiche che non sarebbero fiorite mai tutte insieme, nemmeno nel più curato dei giardini. Il soffio che aveva attratto la sua attenzione era quello delle ali diafane e variopinte di migliaia e migliaia di farfalle che passavano da un fiore all’altro, inseguendosi e giocando nell’aria mite di quella primavera senza tempo.

«Sono qui, tesoro mio…»

Marta si volse al dolce suono di quella voce delicata. Sulle sue labbra si disegnò un sorriso e i suoi occhi parvero emanare scintille di felicità quando incontrarono lo sguardo pieno d’amore di Edith.

Era bella, più bella di quanto la ricordasse, di come l’avesse mai vista.

Il suo viso era l’emblema stesso della bellezza. I capelli che lo incorniciavano, neri e vaporosi, cadevano leggeri sulla seta della camicetta bianca, i cui primi due bottoni erano slacciati, lasciando intravedere la pelle bianca del collo e del petto. Una pelle bianca ma viva, arrossata dal desiderio di tenerla tra le braccia.

«Edith…» sussurrò Marta, tendendo le braccia verso la giovane. «Mi sei tanto mancata…»

Anche Edith allargò le braccia. Si chinò in avanti, pronta a racchiuderla in quell’abbraccio che era stato loro negato troppo a lungo…

E poi Valeria rammentò.

Lei non si chiamava Marta. E non era lì per accogliere a quel modo Edith Mayer. Era arrivata lì per opporsi a lei, per combatterla, per dirle una volta per tutte di lasciarla in pace, di smettere di darle quel tormento che non si era affatto meritata.

Era lì per sconfiggerla, una volta per sempre.

«Allontanati!» gridò.

Si alzò a sedere, scattò all’indietro e si allontanò dalle braccia gelide del fantasma. Il prato e le farfalle scomparvero, il calore del sole divenne un gelido inferno e la luce venne risucchiata e annichilita dalla tetra oscurità della sala in rovina.

«Marta», disse Edith, immobile. «Non opporti a me… non opporti al nostro amore!»

Valeria si trascinò contro la parete, a fianco del caminetto. Adesso non piangeva più e riuscì a sostenere senza alcun timore il volto spettrale della defunta, che incombeva su di lei.

«Io sono Valeria, non Marta!» gridò.

Una sana follia si impadronì di lei. Non aveva più alcun briciolo di paura. Aveva avuto paura per troppi anni, doveva aver esaurito le pile o qualcosa di genere. Si sentiva euforica, adesso. Euforica, sprezzante e pronta a tutto, pur di mettere fine una volta per sempre a quella storia assurda.

«Mi hai capito, razza di lenzuolo slavato?! Valeria, cazzo, Valeria, Valeria! Non sono Marta… e di certo non ti amo, brutto cadavere fosforescente!»

Il volto di Edith si trasfigurò. Non prese una piega rabbiosa, ma fu contratto da un profondo dolore, dalla delusione di udire quelle parole.

«Certo che mi ami…» sussurrò. Un sussurro che sembrava provenire da altri mondi.

Si spostò un po’ in avanti, cercando di protendere le mani verso Valeria.

«No!» gridò la ragazza.

Nella rastrelliera accanto al caminetto era infilato un vecchio attizzatoio. Era ricoperto di ruggine, ma aveva ancora l’aria letale di un attrezzo acuminato. Valeria lo afferrò e, puntellando la schiena contro il muro, riuscì a rialzarsi. Brandì la sua arma improvvisata come se fosse stata una spada e la puntò contro lo spettro.

«Indietro!» urlò. «Indietro o giuro che ti ammazzo…!»

La folle idea di star minacciando di morte una creatura già morta non la sfiorò neppure da lontano. Voleva soltanto dimostrare – a Edith come a se stessa – di essere più forte, di essere capace di reagire. Voleva mettere in chiaro che, adesso, in un modo o nell’altro, tutto quanto sarebbe finito.

Erano alla resa dei conti. Erano arrivate al duello risolutore, come in un vecchio film western. Una sola di loro ne sarebbe uscita vincitrice.

E non importava chi delle due.

Edith divenne trasparente, riacquistò forma e colore, svanì ancora, riducendosi a poco più di un’ombra. Un’ombra fumosa che, come scossa da una brezza, non riuscì a mantenere intatta la sua forma. Valeria non capì subito quello strano comportamento.

Poi comprese.

Edith stava tremando.

«Tu tocchi quell’oggetto…» mormorò la sua voce lontana. «Tu tocchi l’arnese con cui quel mostro ti ha uccisa…»

«Nessuno mi ha uccisa!» strepitò Valeria, impugnando più forte l’attizzatoio. Le sue nocche si sbiancarono attorno al ferro annerito e rugginoso. «Io sono viva! Mettitelo in quella testa vuota da ectoplasma, una volta per tutte!»

«Marta…» sussurrò Edith.

La ragazza raccolse tutto il fiato che aveva nei polmoni.

«VALERIA!» urlò.

Il fantasma si mosse improvviso verso di lei e Valeria sollevò l’attizzatoio, preparandosi a colpire.

 

* * *

 

«Ha preso una ragazza…» bofonchiò Orso, passandosi la mano nei capelli arruffati.

Aurora, Alberto e Daniele erano tornati in fretta in paese, correndo più volte il rischio di scivolare sulla strada ghiacciata. La nebbia, per quanto assurdo, sembrava essere diventata ancora più fitta di prima, al punto che ormai non si vedeva oltre una spanna dal naso. Avevano scoperto che, in quelle condizioni, era assai difficile riuscire a orientarsi in quel luogo che avevano appena cominciato a conoscere.

Nonostante questo, pur se disorientati, avevano fatto ritorno senza troppi problemi alla Tana di Orso. Senza perdere tempo a guardare dentro il B&B, erano corsi all’abitazione dall’altra parte del cortile e si erano attaccati al campanello. Erano serviti quasi cinque minuti abbondanti perché il volto di Orso, pallido, assonnato, con gli occhi arrossati e sottolineati da ombre scure, facesse capolino a una finestra del piano superiore.

Aveva impiegato un poco per riuscire a distinguerli e a riconoscerli, attraverso la nebbia. Poi, con la voce impastata dal sonno, aveva bofonchiato: «Oh, siete voi… arrivo ad aprirvi…»

Adesso erano riuniti in cucina, l’ambiente più caldo della casa.

Alberto e Daniele erano seduti al tavolo, con quest’ultimo che si contorceva le mani in preda al nervoso e alla tensione crescenti. Aurora passeggiava avanti e indietro, con la sigaretta accesa stretta tra le labbra, livide per il freddo e per la irrequietezza. Orso, che aveva cercato di svegliarsi mettendo la testa sotto il rubinetto, era ai fornelli, grondante acqua gelida dai capelli e dalla barba, e stava armeggiando con la caffettiera.

A turno, cercando di dire le cose una volta soltanto, gli avevano raccontato quello che era accaduto. Non era stato facile, perché tutti e tre si erano contraddetti più volte e si erano ingarbugliati con frasi, ricostruzioni e spiegazioni.

«Allora, cerchiamo di ricapitolare in modo chiaro…» borbottò Orso.

La caffettiera gorgogliò in modo domestico e rassicurante. Il profumo invitante del caffè si sparse per tutta la stanza. Orso versò il liquido nero e bollente in una tazza e, senza perdere tempo a zuccherarlo o a farlo almeno un poco raffreddare, se ne rovesciò una discreta quantità in gola. Sembrò non sentire per nulla il bollore sul palato o sulla gola, ma ebbe un breve sussulto quando quella specie di magma incandescente gli fece bruciare lo stomaco.

«Mi ci voleva», brontolò. Fece un sospiro soddisfatto. «Devo smetterla, di esagerare con il vecchio Jack, la sera…»

«Allora, noi…» cominciò a ricapitolare Aurora.

Orso la interruppe con un cenno della mano sinistra, mentre con la destra continuava a reggere la tazza. Aveva adoperato quella con la scritta “Buongiornissimoooo” multicolore. Alberto la trovò più brutta e inguardabile che mai, ma si astenne dal commentarlo.

«Allora, adesso parlo io», disse Orso. «Vediamo se ho capito tutto. Voi due, incuriositi dalla mia storia e dal libro di Bernasconi, avete deciso di andare a fare una visitina notturna a Villa Mayer…»

Alberto alzò lo sguardo.

«Io, a dire il vero, non ho deciso proprio nulla», obiettò. «È stata Aurora che mi ha costretto…»

«Sì, sì, okay», tagliò corto l’altro. «Fatto sta che ci siete andati. E avete sentito le urla che venivano da dentro, e una volta entrati avete incontrato questo ragazzo, che vi ha detto che la sua amica è stata catturata dal fantasma di Edith. Allora siete corsi per provare ad aiutarla, ma Edith non l’ha presa bene e vi ha buttati fuori dalla finestra.»

Aurora sbuffò una boccata di fumo.

«È andata così», precisò.

Orso bevve un secondo sorso di caffè e lanciò un’occhiata a Daniele, che fissava il pavimento senza davvero vederlo, lo sguardo perso nel vuoto.

«E voi due eravate lassù perché la tua amica Valeria sta subendo la persecuzione di Edith Mayer da tanti anni e voleva provare a liberarsi di lei affrontandola a viso aperto, giusto?»

Daniele fece un vago cenno con la testa.

«Sì…» sbottò.

Alzò gli occhi e fissò Orso.

«…ma queste cose le sappiamo già, le abbiamo dette!» strepitò, rianimandosi all’improvviso. Balzò in piedi, sorprendendo persino Alberto e Aurora. Orso, invece, rimase impassibile.

«Ma non sarà standocene qui a bere caffè e a chiacchierare, che salveremo Vale da quel mostro!» andò avanti il ragazzo. «Quindi, se siamo venuti solo per perdere tempo, io vi saluto e torno in quella dannata villa!»

Fece per avviarsi verso la porta, ma Orso allungò una mano e lo trattenne. Nonostante l’apparenza data dalla sua esile corporatura, riuscì a bloccare il ragazzo senza nessuno sforzo.

«Non stiamo perdendo tempo», sottolineò. «Stavo solo facendo un riassunto. È così che si fa – o, almeno, che sarebbe utile fare – quando si scrive una storia: arrivato quasi alla fine, ai limiti della scena madre, l’autore rivede un po’ tutto quello che ha messo in campo fino a quel momento, per sincerarsi di non aver tralasciato e di non essersi dimenticato nulla. Così, può procedere senza intoppi verso il finale.»

Alberto lo guardò stralunato.

«Ma noi non siamo in una storia…» borbottò.

Orso fece uno dei suoi sorrisi enigmatici, che celavano chissà che cosa.

«Dipende dal punto di vista…» disse.

Vuotò la tazza di ciò che rimaneva del caffè e il suo sorriso si allargò.

«Posso aiutarvi, con questa faccenda di Edith Mayer?» chiese. Lo domandò più che altro a se stesso, non a loro.

Tutti e tre lo fissarono con un’aria vagamente esasperata, ma a cui si aggiunse una lieve speranza.

«No», soggiunse. «Non posso farlo.»

Lo sconforto discese sui volti di Alberto, Aurora e Daniele.

«Allora è come ho detto io, stiamo solo perdendo tempo…» sbottò il ragazzo, cercando di liberarsi dalla presa di Orso, che non lo aveva ancora lasciato andare.

«La mia funzione è un’altra», proseguì Orso, imperterrito. «Continuiamo a fingere di essere in un racconto. Voi tre siete i protagonisti, che si sono incontrati verso la metà della storia. Io, dal canto mio, sono una specie di deus ex machina. Sono qui, in apparenza del tutto inutile, un personaggio secondario, un comprimario di supporto, ma ho lo scopo di sbloccare la trama e di risolvere la situazione. Senza di me, non si andrebbe da nessuna parte. “Come?”, vi starete chiedendo. Ebbene, venite con me a fare una passeggiatina nella nebbia e lo scoprirete. È il momento di farvi conoscere gli altri protagonisti di questa storia.»

 

* * *

 

Ancora una volta, fu il morso del gelo ad accompagnarli lungo il tragitto. Il gelo e, ovviamente, la nebbia. Sempre più fitta, densa come una schiuma. Una foschia che sembrava premere addosso con forza prepotente, che rendeva ovattate tutte le cose e che si dilungava contro la luce dei lampioni arancioni, come se cercasse di impossessarsi anche di quella.

Sembra di essere in The Fog, quel film di John Carpenter, rifletté Alberto.

Quanto gli sarebbe piaciuto, in quel momento, essere a letto, sotto le coperte, a gustarsi un bel film senza nessun altro pensiero al mondo.

Invece mi tocca starmene qui, al freddo, col rischio di andare a sbattere il naso da qualche parte, dato che non si vede un accidente di niente.

Che vita grama.

Orso, comunque, conosceva troppo bene quei paraggi per correre il rischio di perdersi. Li condusse a passo sicuro lungo la strada principale – poco più larga di una mulattiera, comunque – per poi infilarsi senza perdere tempo dentro uno dei vicoletti che, dalla minuscola piazza, serpeggiavano tra gli antichi edifici, costituendo di fatto tutto l’insieme del piccolo borgo.

Camminarono forse per una manciata di minuti, sebbene il freddo e la nebbia contribuissero a rendere strana persino la percezione del tempo. Pochi o molti che furono i minuti trascorsi in mezzo alla bruma, quando si fermarono dinanzi a un vecchio portone di legno annerito dal fumo e dall’umidità avevano i capelli e gli abiti grondanti di acqua, come se avessero fatto un bagno in una vasca.

«Ecco…» disse Orso. «È qui che…»

Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo veloce. Daniele, dal canto suo, era sempre più nervoso, perché aveva l’impressione di star abbandonando la sua amica.

«Orso, chi è che abita qui?» domandò Aurora.

Lei e Manfredi provarono a leggere il nome sul campanello, ma non c’era alcuna targhetta.

«Le uniche persone che possono aiutare quella poveretta», replicò Orso.

«Sì, ma…» bofonchiò Alberto, a disagio. «A quest’ora staranno dormendo…»

L’altro fece un vago cenno con il capo.

«Sono loro che hanno dato avvio a tutto questo, in un certo senso», replicò. «Venire buttati giù dal letto a un’ora assurda è il minimo che potrebbero aspettarsi. E poi, se voi lo avete fatto con me, non vedo perché io non possa farlo con loro…»

Quindi, senza perdere tempo, premette il dito sul campanello. Suonò una volta, due… la terza, tenne premuto il pulsante fino a quando, al piano superiore, si accese una luce.

Una finestra sbatté e una voce maschile – una voce anziana, impastata di stanchezza e di stupore, oltre che di un qualche briciolo di spavento – gridò nella notte: «Chi accidenti è, si può sapere?!»

Tutti alzarono la testa. Nella foschia, non era facile distinguere i tratti dell’uomo che li stava guardando. Orso fece un passo all’indietro per farsi riconoscere.

«Sono il suo vicino di casa, il proprietario dell’affittacamere, e questi sono alcuni miei ospiti», disse. «Temo che abbiamo un problema…»

«Se ha troppi clienti e non sa dove metterli, io non posso farci nulla!» gracchiò l’uomo, con fare scorbutico. «Non ho stanze vuote da prestarle. Non posso risolvere i vostri problemi! E ora, fuori dai piedi! Buona…»

«Abbiamo un problema, e anche bello grosso, con Edith Mayer!» si affrettò a dire Orso. «Temo proprio che lei sia il solo in grado di risolverlo, dottor Bernasconi!»

 
   
 
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