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Autore: Orso Scrive    17/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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22.

 

 

«Stai lontana da me, hai capito?!»

Valeria minacciò con l’attizzatoio sollevato lo spettro, che si bloccò dopo essersi mosso di pochi centimetri. Nel farlo, sollevò uno sbuffo d’aria gelida, che avvolse la ragazza in maniera quasi dolorosa, strappandole un brivido così intenso che la sua arma improvvisata rischiò di sfuggirle di mano. Serrò più forte le dita attorno al metallo e riuscì a tenerlo saldo.

«Amore mio… Marta…» sussurrò Edith. C’era un che di lamentoso, nel tono della sua voce priva di tempo. I suoi occhi neri, profondi, lontani, fissarono quelli pieni di lacrime – ma determinati – di Valeria.

«Sai dire soltanto questo?!» strepitò la giovane. La sua voce era stridula, piena di angoscia. I singhiozzi che la facevano sussultare di continuo minacciavano di strozzarla, ma non si sarebbe lasciata sopraffare. Tra i singhiozzi, le sfuggì anche una stridula risata, simile al gracchiare di un uccello rapace. «Be’, allora adesso stattene zitta e lascia che parli io, visto che di cosine da dire ne ho un po’ di più!»

Il cuore le martellava impazzito nel petto, con tale violenza che sentiva il seno fare avanti e indietro contro la stoffa ruvida della camicia di flanella che indossava sotto la felpa e il giubbotto; i polsi tremavano tanto forte da minacciare di rompersi, ma fece appello a tutto il suo coraggio per resistere.

Era il momento della verità… della resa dei conti.

Dentro di sé, Valeria riuscì persino a sorridere. Ancora una volta, immaginò se stessa come una pistolera giunta dinanzi all’avversario di sempre. Mani pronte, il sole alto nel cielo… e, al momento giusto, al dodicesimo rintocco, tutti e due avrebbero estratto e fatto fuoco. Forse non era il momento adatto per perdersi a contemplare scene di film immaginari, ma si rese conto che soltanto appellandosi a immagini conosciute e familiari sarebbe riuscita a non perdere il senno in quella situazione assurda e incredibile.

L’adrenalina le si riversò nelle vene, a fiotti incontrollabili. Sentì le gambe vibrare, al punto che dovette spostare il peso da un piede all’altro per non perdere l’equilibrio. La paura che le stava esplodendo di dentro la stava rendendo consapevole come non mai del suo corpo. Le sue dita strinsero più forte l’attizzatoio.

«Tu devi lasciarmi in pace, hai capito?!» urlò. «Sono stufa marcia di essere perseguitata da te! Io non ti ho fatto nulla di male, e non mi merito questo! Devi andartene via! Stammi lontana! Ti proibisco di continuare a tormentarmi! Non so come cazzo si usasse dire nel medioevo o in qualsiasi altro periodo schifoso tu sia vissuta, MA DEVI SMETTERLA DI ROMPERMI I COGLIONI, CAPITO?!»

Aveva la gola in fiamme. Non credeva di essere capace di poter urlare con una voce così acuta e insieme stentorea. Ora che aveva cominciato, non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Si sentiva euforica, ubriaca, come se avesse dato fondo a una bottiglia di roba molto forte. Persino la testa le girava – il mondo intero ondeggiava, a dire il vero – ma resistette. Represse la voglia e insieme l’istinto di mettersi a vomitare e gridò ancora.

«Non so che cosa vuoi da me, non so a cosa cazzo miri davvero, ma so che devi piantarla, una volta per tutte! Io voglio vivere! Vivere! VIVERE! E non sarai tu a continuare a impedirmi di farlo! Tu sei morta, la tua cazzo di Marta è morta, se mai siete esistite davvero e non siete solo un delirio schifoso… ma io sono VIVA! IO SONO VIVA, CAZZO!»

La voce di Valeria salì di intensità, sempre più. Rasentò l’isterismo, ma questo la fece sentire bene, la fece sentire meglio di quanto si fosse sentita da tantissimo – troppo – tempo.

La fece sentire viva.

Lei viva a fronteggiare una morta.

Edith rimase immobile. A tratti appariva solida e concreta, subito dopo tendeva a sbiadire fino a diventare una sagoma informe, un’ombra tra le ombre, prima di riacquistare quella solidità stonata.

«Ti prego, Marta…»

«IO SONO VALERIA!» urlò la ragazza. Più che urlare, si scoprì a ruggire come una tigre inferocita. E, proprio come una tigre, si sentì pronta a estrarre gli artigli e a battersi per la sua stessa esistenza. «VALERIA!»

Qualcosa di simile a un sorriso si allargò sul volto smunto e magro di Edith.

«Forse è così che ti chiamano adesso…» sussurrò. «Ma ciò che conta è quello che tu sei dentro di te… la persona che eri… la persona che non se ne è andata perché sapeva che un giorno saremmo state di nuovo insieme, unite dal nostro amore… Marta, tesoro mio… ricordati chi sei…»

Valeria aveva la bocca spalancata. Fissò lo spettro, cercando di scrutare oltre il terrore che l’avvolgeva a ondate terribili, che toglievano il fiato. Per un breve istante, le parve davvero di vedere qualcosa… di rammentare… un lampo, una rapida esplosione di immagini, sensazioni e suoni confusi…

«NO!» gridò, ritraendosi da tutto questo. «Non è vero niente! NIENTE! Io sono Valeria, ho la mia vita, anche se tu la stai distruggendo… ma è la mia vita! Schifosa finché vuoi, ma è mia! MIA NON TUA! Ho la mia macchina, ho tutte quelle pastiglie schifose che non servono a nulla, ho i miei fumetti!»

Ormai, dentro la sua mente, era tutto un vorticare di immagini confuse, un susseguirsi di lampi della sua quotidianità, che apparivano e fuggivano rapidissimi. Ogni tanto, riusciva ad afferrarne uno e a urlarlo, quasi lo stesse sputando contro quello spettro che non avrebbe mai dovuto frapporsi tra lei e la vita.

«Mi piacciono i film d’amore e quelli horror, specie quelli con le scene sanguinose e raccapriccianti!» strepitò, ormai incapace di controllarsi.

Senza rendersene conto, aveva cominciato a piangere senza nessun ritegno. Urlava e piangeva, gettando la sua intera esistenza addosso a quello spettro.

«Ho un orsacchiotto marroncino che si chiama Gigi, lo tengo sulla scrivania e mi fa compagnia quando sono più depressa che mai…!» Singhiozzò forte, ormai stremata. «Mi faccio fuori non so quanti pacchetti di sigarette ogni giorno…! a volte prendo un libro e leggo pagine e pagine per ore e ore, notti intere, fino a farmi uscire gli occhi dalle orbite, pur di non addormentarmi…! oppure guardo serie televisive a non finire, un episodio dopo l’altro, fino a non capirci più nulla…! mi riempio la pancia di cioccolata e tortilla fino a quando mi sento scoppiare…! e ho trovato il coraggio di andare al discount e comprarmi un vibratore, anche se quella troia della cassiera mi ha guardata malissimo, ma non me ne è fregato nulla e ho preso quello con cinque velocità differenti e ora lo uso quando tutto è davvero troppo, fino a quando il piacere mi fa male e brucia tutto, perché non voglio fermarmi e vado avanti ancora e ancora…!»

Ormai si sentiva sul punto di crollare. Stava rivelando i suoi segreti più intimi a una cosa che non sarebbe nemmeno dovuta esistere, forse a qualcosa che vedeva soltanto lei… forse era la sua mente che, ormai, stava cedendo completamente – o, forse, aveva già ceduto. Forse era tutto finito, e quello era il delirio estremo…

E poi rivide Daniele. Daniele, che si era offerto di aiutarla, senza pretendere nulla in cambio… Daniele, così dolce e sincero, che le aveva dimostrato che anche a una come lei – una che aveva perduto la mente chissà dove e chissà quando – si poteva volere bene… Daniele che l’aveva abbracciata, il primo abbraccio pieno d’affetto che ricordasse di aver ricevuto da moltissimi anni…

«La mia vita è mia!» strillò, cercando di mettere a fuoco qualcosa attraverso il velo di lacrime. «Farà anche schifo, va bene, ma è la mia! Non devo ricordarmi di null’altro, perché io non sono qualcun altro! Sei tu che devi andartene! Sparisci, schifosa!» Di nuovo, la voce di Valeria esplose, graffiandole la gola. «VATTENE! LASCIAMI IN PACE PER SEMPRE! LURIDA PUTTANA CHE NON SEI ALTRO, TORNATENE ALL’INFERNO O IN QUALSIASI ALTRO POSTO DA CUI SEI STATA CAGATA FUORI!»

Qualcosa di simile a un sospiro triste provenne dallo spirito di Edith.

«Se tu non vuoi ricordare, amore mio, sarò io a far riaffiorare tutte le tue memorie», disse. La sua voce, al contrario, era bassissima, appena accennata, ma la ragazza la percepiva fin troppo chiaramente, come se le stesse parlando direttamente dentro il cervello. «Ho atteso troppo a lungo… non puoi essere così ostinata ed egoista da impedire che il nostro amore, finalmente, torni a vivere…»

Di nuovo, lo spettro scattò in avanti. Questa volta non si fermò. Le sua mani bianche, dalle dita lunga e traslucide, simili a ossa spolpate, si protesero verso i fianchi di Valeria, pronti a ghermirli in un abbraccio.

La ragazza urlò.

Urlò per lo spavento, per la rabbia e per darsi coraggio.

Abbassò con furia l’attizzatoio, mirando alla testa di Edith. Il ferro sibilò rompendo l’aria… ma non arrivò a destinazione. O ci arrivò, e ci passò attraverso. Invece di provocare danni, l’arnese arrugginito trovò il vuoto e continuò la sua discesa ad arco verso il pavimento. Lo colpì con un clangore pesante e, a causa della ruggine che lo aveva corroso e indebolito, si spezzò in due parti. Valeria, sorpresa e disorientata, si sbilanciò in avanti e cadde sulle ginocchia. Abbassò le mani per sostenersi e si scorticò i palmi. Il dolore, simile a una scossa elettrica, le risalì lungo l’avambraccio, fino alle spalle.

Non ebbe nemmeno il tempo per rendersi conto di ciò che fosse successo.

Edith le fu subito addosso, adesso più concreta che mai. L’afferrò per le spalle e la spinse in terra, schiacciandola contro il pavimento. Valeria sentì, distinta e solida, una mano che le serrava il seno con impeto furioso, mentre un braccio fortissimo la teneva inchiodata dove si trovava.

«Lasciami!» gridò.

Diede uno strattone e si sentì liberare dalla presa. Subito sollevò il busto, pronta a scattare in piedi.

Si guardò attorno, cercando di capire dove fosse rotolata Edith. Con lo spintone che le aveva dato, doveva averla allontanata da sé.

Invece, lo spettro incombeva su di lei.

Adesso era spaventoso.

Non era tanto l’aspetto cadaverico. Non era nemmeno il fatto che fosse diventato tanto grande da sfiorare con la testa l’altissimo soffitto della sala. Non era neppure il fatto che fosse trasparente al punto da vederci attraverso.

Era la sua espressione.

Un’espressione rabbiosa… piena d’odio.

«Non puoi rifiutarmi, Marta!» urlò. «Non puoi essere tanto egoista!» La sua voce era rintronante, rimbombava con la prepotente furia di mille valanghe. «Ti aspetto da sempre, sono rimasta per te, e tu ora devi amarmi!»

Valeria si rannicchiò su se stessa, tremando. Cominciò a piangere, incapace di trattenersi oltre. Tuttavia, tra i singhiozzi e i singulti, riuscì a farsi sfuggire qualche parola farfugliata.

«L’a-amore… n-non è… un dovere…»

Edith Mayer non attese oltre.

Si avventò su di lei, la coprì interamente con il suo corpo e Valeria, avvinghiata dal freddo più intenso e terribile che avesse mai provato, scivolò nell’oblio.

 

* * *

 

E questo sarebbe l’uomo che dovrebbe aiutarci a tirar fuori da guai quella poverina?

Alberto fissò il dottor Joseph Bernasconi.

Vecchio, curvo, decrepito. Il suo volto era una maschera di rughe, appena nascosta dai folti baffi, dai fili bianchi e sottili, così come erano bianchi e sottili i radi – e rari – capelli che ancora gli sopravvivevano sulla nuca, quasi del tutto pelata e coperta di macchie scure. I suoi occhi, però, si mantenevano giovanili, astuti.

Ma non sarà certo con uno sguardo, che potremo salvare quella ragazza, si disse ancora Manfredi.

Per spostarsi – a una lentezza esasperante, come se si muovesse al rallentatore – il vecchio psichiatra si appoggiava a un deambulatore, perché le gambe non dovevano più avere la forza per sorreggere il suo corpo, che pure era smunto e magrissimo, avvolto in un pigiama di seta che doveva essere passato di moda da una quarantina d’anni.

Il tenente cercò di mascherare la smorfia di disappunto che minacciò di affiorargli sulle labbra nel trovarsi davanti a quel vecchio rottame umano.

È già tanto se arriva vivo a domani mattina, altro che venire con noi fino a Villa Mayer per liberare la ragazzina…

Bernasconi lo fissò. I suoi occhi acuti e intelligenti furono attraversati da una scintilla scaltra e densa di ironia.

«È inutile fare quella faccia, tenente Manfredi», gracchiò, con la sua voce simile al verso di una vecchia cornacchia stanca e sfiatata. «Non sono rimbambito. Conosco i miei estremi di nascita. So perfettamente di avere novantanove anni compiuti da troppi mesi, al punto da essere ormai più vicino ai cento che altro. Mi piacerebbe vedere come sarà ridotto lei, quando avrà la mia età… sempre se ci arriverà, beninteso.»

Alberto arrossì violentemente e cercò di dire qualcosa per discolparsi. Riuscì soltanto a farfugliare qualche parola insensata.

Dopo un’attesa che era parsa interminabile, Bernasconi era venuto ad aprire la porta e li aveva fatti accomodare in un salotto il cui arredamento era rimasto fermo alla moda degli anni Sessanta. Mobiletti laccati, tappezzeria dai disegni sgargianti e variopinti, lampade a stelo, tendine rossicce alla finestre. Anche la maggioranza dei libri impilati negli scaffali, a giudicare dai risvolti, doveva risalire a quel periodo. Tutto rovinato e reso fragile e polveroso dal tempo. Nell’aria aleggiava un odore stantio di chiuso e di vecchiume.

Orso aveva fatto rapidamente le presentazioni e aveva spiegato quello che era accaduto. Bernasconi li aveva ascoltati in silenzio, con il fiato corto, fino a quando si era voltato verso Alberto e aveva detto quelle poche parole.

Aurora, ferma al fianco di Daniele, sentì il ragazzo vibrare di impazienza. Evidentemente, anche lui non doveva essere troppo persuaso dall’aiuto che gli sarebbe arrivato da quel vecchio uomo. Cercò di calmarlo sfiorandogli la mano con la sua e pizzicandoli con leggerezza il polso.

«Lei si è interessato al caso di Edith Mayer», disse, cercando di tenere un tono di voce basso. «Ha scritto un libro, al riguardo. Può aiutarci?»

Il vecchio la fissò con una certa intensità, studiando con attenzione i suoi capelli rossi e gli occhi verdi come smeraldi. Un sorrisetto compiaciuto gli si allargò sotto i baffi. A quanto pareva, non gli dispiaceva trovarsi a tu per tu con una donna simile.

Il sorriso, però, disparve quasi subito, lasciando il posto a un’espressione triste e depressa.

«Edith ci domandò aiuto, e noi accettammo di darglielo», mormorò. «Abbiamo pensato a lei, e non abbiamo pensato nemmeno per una volta alla disgraziata che l’avrebbe riconosciuta. Forse… non è un modo per sminuire le mie colpe, per carità… forse, però, avevo finito col convincermi che non sarebbe mai successo. Forse quell’ultimo barlume di razionalità scientifica che ancora resisteva dentro di me cercava di dirmi che, tanto, una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere…»

All’improvviso, parve ancora più vecchio e stanco di come fosse apparso fino a quel momento.

«Ma dopo tutti questi anni… ormai ero davvero certo che Marta non sarebbe mai tornata da Edith… che realmente fosse stata tutta un’illusione.»

Orso, Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo allucinato, senza davvero comprendere il significato di quelle parole. Daniele, invece, fece un passo in avanti e sospirò profondamente, raccogliendo il coraggio.

«Signore», disse, con la voce che tremava in modo leggero, «la mia amica Valeria ha letto il suo libro, una decina d’anni fa.»

Bernasconi fissò lo sguardo su di lui, ascoltandolo in silenzio.

«Da quel momento, da come mi ha raccontato, non è più stata lei. Quella Edith ha cominciato a perseguitarla nel sonno, facendola precipitare in un incubo… alla fine, non ce l’ha più fatta, ed è venuta fin qui. Ora quella cosa l’ha presa e io voglio salvarla prima che sia troppo tardi… e lei sapeva che tutto questo sarebbe successo? Lei ha scritto quel libro pur sapendo che Valeria, o una qualsiasi altra ragazza, avrebbe potuto patire a quel modo?!»

La voce di Daniele era cresciuta di intensità. Una vena gli si era gonfiata sulla fronte, pulsando forte, in modo pericoloso. Il giovane divenne rosso di rabbia.

«Bastardo!» gridò.

Si gettò verso il vecchio, pronto a colpirlo. Protese le mani, come se volesse stringergliele al collo e spezzarglielo. Bernasconi non reagì e non batté ciglio.

Aurora scattò. Afferrò il ragazzo per la cintola e lo trascinò all’indietro, sbattendolo contro il muro. Lui tentò di divincolarsi, me la braccia del sottotenente lo trattennero con forza, impedendogli di muoversi.

«Buono adesso, eh…» gli soffiò nell’orecchio.

«Dottore, tutto a posto?» domandò Orso, forse sentendosi colpevole per aver portato lì Daniele.

«Senti, amico, va bene essere sconvolti, ma questo è…» cominciò a dire Manfredi.

Una voce flautata lo interruppe. Una voce femminile priva di tempo.

«Sì, hai detto bene: bastardo. Bastardo lui e bastarda io. Siamo stati due bastardi, due ipocriti che hanno preferito aiutare una morta, un’anima che avrebbe dovuto volare oltre il limite del mondo materiale, piuttosto che pensare alle conseguenze per i vivi…»

Tutti si volsero verso l’ingresso della sala.

Una donna era ferma sull’uscio. Una donna dalla pelle molto scura e dai lineamenti esotici. Indossava un lungo abito blu, che le scendeva fino alla caviglie snelle, e aveva un velo bianco e ricamato con arabeschi avvolto attorno alla testa. I suoi lunghi capelli, neri e ricci, sfuggivano da sotto il foulard e ricadevano sul petto, mischiandosi ai numerosi ninnoli che lo ornavano. Bracciali e catenine le impreziosivano anche i polsi esili e tintinnavano a ogni suo respiro. I suoi occhi erano neri, profondi, imperscrutabili. Un vago sorriso, leggermente triste, le arricciava le labbra.

«Vi presento Sophia», borbottò il dottor Bernasconi, guardando prima lei e poi il pavimento. «E lei sì, che è vecchia davvero.»

«Tu sei vecchio», lo corresse lei, senza scomporsi. «Io sono antica. È diverso.»

Il dottore abbozzò un sorrisetto.

«Già… mi confondo sempre…»

 
   
 
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