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Autore: Orso Scrive    18/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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23.

 

 

Il profumo del lago era come un’essenza rara. Un odore vago, di essenze arboree e piante acquatiche, di profondità inesplorate e di spiagge accarezzate dal sole, che si legava a quello colorato e silvestre delle due giovani, avvinghiate l’una all’altra, distese nella verde frescura del prato. Sui loro corpi sudati e frementi si rincorrevano profumi di legno, di aghi di pino, di resina e di oli essenziali di mille fiori diversi e variegati, come se trasudassero un elisir di giovinezza.

Gli unici suoni erano il canto degli uccelli e il ronzio delle api che volavano di fiore in fiore, di petalo in petalo, di corolla in corolla, cadenzati dai loro brevi e rochi mugolii. Paroline segrete che si sussurravano all’orecchio, mentre le loro mani si toccavano, le loro bocche si incontravano e i loro corpi caldi e vivi si cercavano.

Pelle contro pelle, carne contro carne. Le labbra di Marta avevano un sapore dolce e delicato. Quelle di Edith possedevano un gusto più marcato, quasi selvatico. Baci che non finivano mai, baci leggeri, quasi vaporosi, e baci più violenti, in cui esplodeva forte la passione che le univa.

Marta quasi gridò quando le dita di Edith, bramose di nuove scoperte, scivolarono in profondità dentro di lei. Un urlo che fu soffocato dall’ennesimo bacio.

Rotolarono sull’erba, in mezzo ai fiori. Si abbandonarono a quella lotta selvaggia e primordiale, dolce e appassionata. Furono sopra, sotto, ai lati. Non si lasciarono andare nemmeno un istante. Continuarono a stringersi, ad accarezzarsi, a scambiarsi quei baci sempre più infuocati. Le labbra esplorarono le labbra e poi scesero a lambire il collo, il petto, a scoprire ogni forma dei loro corpi, anche la più nascosta e segreta.

«Ti amo, Marta…» sussurrò Edith, accarezzando piano i capelli ramati della giovane, scompigliati da quella loro contesa destinata a finire ad armi pari.

Marta aveva affondato il viso tra le gambe di lei, i suoi occhi accesi e luccicanti stavano contemplando la leggiadra bellezza del più prezioso bocciolo di rosa che avesse mai visto. Lo annusava, perdendosi in quella fragranza divina, e si apprestava a conoscerne ancora una volta il delicato e irripetibile sapore.

Prima, però, sollevò lo sguardo. Lo fece scivolare sul ventre bianco, sull’ombelico, sul seno morbido, sul collo delicato e sul bel viso di Edith, fino a incontrare i suoi occhi neri, due pietre preziose incastonate nel più meraviglioso dei gioielli.

«Ti amo anche io, Edith…» mormorò.

«Per sempre?» chiese lei, anelante.

«Per sempre», giurò Marta.

 

* * *

 

 

«Non possiamo fare nulla per quella ragazza», sentenziò Sophia, mettendosi a sedere sopra una poltrona coperta da un telo a fiorellini. Raccolse le mani in grembo e accavallò le gambe, in una sensuale posa d’altri tempi. «Purtroppo, siamo impotenti. Ci sono energie che non possono essere combattute dalla forza mortale. Deve cavarsela da sola… ma non ha grandi speranze. Se una parte di lei è legata a Edith, allora è destino che vada con lei… e quando questo avverrà, non possiamo sapere che cosa accadrà all’altra parte, la parte che non si chiama Marta.»

Tra Alberto, Aurora e Orso corse uno sguardo pieno di apprensione. Se i due agenti si erano rivolti al padrone del B&B per chiedergli aiuto, lui li aveva a sua volta condotti dalle uniche persone che, a suo dire, avrebbero potuto risolvere la questione.

Non era certo questa la risposta che si erano aspettati di ricevere.

«Là dentro c’è una ragazza in pericolo», rammentò Manfredi, con tono secco. «Non possiamo…»

«Ripeto: non possiamo fare nulla, per lei», rimarcò Sophia, imperterrita.

Aurora stava ancora tenendo stretto Daniele, per impedirgli colpi di testa. Lo sentì tremare come se fosse in preda a un attacco di qualche tipo. Strinse più forte le sue spalle, quasi affondandovi le dita, e si appoggiò con il petto alla sua schiena, premendovi contro il seno. Si sarebbe aspettata una qualche protesta, ma il ragazzo parve non farci nemmeno caso. La sua attenzione era tutta per la strana donna che abitava insieme al dottore.

«Non so come e nemmeno perché, ma voi due vi riconoscete colpevoli per quello che sta accadendo», sbottò il giovane, con la voce malferma. «E, nonostante questo, volete restarvene qui seduti senza fare nulla, mentre la mia amica è in pericolo?!»

C’era una sfumatura di rabbia e di disprezzo, nel suo tono. Aurora, dentro di sé, non poté fare a meno di condividerla. Lo strinse un po’ di più, sperando che quel contatto tra i loro corpi bastasse a tenerlo quieto.

Comunque, quell’accento non sfuggì nemmeno a Bernasconi e a Sophia.

«Siamo stati disumani», riconobbe il dottore. «Abbiamo accolto la richiesta di aiuto di Edith e non ci siamo fatti scrupoli, per fare quello che ci domandava. Sapevamo quali sarebbero potute essere le conseguenze, ma non ce ne siamo curati. Abbiamo svolto le ricerche, abbiamo scritto il libro e lo abbiamo pubblicato, certi che, prima o dopo, la reincarnazione di Marta lo avrebbe trovato. Ci importava soltanto di questo. Che la nuova Marta potesse avere un’identità, dei sentimenti, dei ricordi e delle emozioni differenti da quella che fu in passato non ci interessò per niente. Siamo venuti qui, in attesa. Il tempo è passato… tanto, tanto tempo. Alla fine credevamo che non sarebbe venuto più nessuno… e, forse, era un sollievo, perché più gli anni si trascinavano lenti, e più comprendevamo il nostro errore…»

«Già», sussurrò Sophia. «Nel silenzio e nell’attesa, logorati dall’attendere qualcosa che non accadeva mai, abbiamo compreso che legare la vita di un essere umano a quella di un fantasma era stato uno sbaglio… uno sbaglio imperdonabile. Ce ne siamo resi conto troppo tardi, quando noi stessi, in un certo modo, siamo diventati fantasmi: due fantasmi dimenticati dal resto del mondo, rinchiusi in questo luogo sperduto e lontano…» Si strinse più forte le mani in grembo e sospirò. «Eravamo consci di aver fatto del male, senza sapere a chi lo avessimo fatto… e senza sapere nemmeno quando quel male si sarebbe verificato.»

Manfredi dardeggiò lo sguardo dall’uno all’altra, ascoltando quella confessione. Una delle peggiori confessioni che gli fosse mai capitato di raccogliere in tutta la sua carriera di sbirro.

«E però, non avete fatto nulla per rimediare!» esclamò, disgustato.

«Che cosa avremmo potuto fare?!» esclamò Sophia, alzando la testa di scatto per fissarlo negli occhi.

«Ormai il libro era stato stampato ed era circolato…» bofonchiò Bernasconi, che invece preferì tenere lo sguardo rivolto al pavimento. «Non potevamo più sperare di ritirarne tutte le copie. Potevamo solo pregare che nessuno lo leggesse più…»

Daniele si agitò tanto forte che Aurora fu costretta a lasciarlo andare.

«Calma…» cercò di mormorargli nell’orecchio. Lui la ignorò.

«Scuse! Vi state aggrappando a delle inutili scuse del cazzo!» ruggì il ragazzo, inferocito. «La verità è che volevate vedere che cosa minchia sarebbe successo, e avete pensato solo a questo, senza fottervene nemmeno un momento di trovare un rimedio per quello che stavate facendo!»

Bernasconi fece un cenno d’assenso, sempre interessato soltanto alle piastrelle del pavimento.

«Sì», mormorò. «Sì, è così. Ho agito da scienziato, da medico… perché questo sono sempre stato e questo rimango. Un uomo di scienza. E questo… questo è stato il mio grande esperimento. Speravo di scoprire qualcosa di nuovo… qualcosa di incredibile e di rivoluzionario, che avrebbe iscritto il mio nome nel pantheon dei grandi scienziati. Dopo Einstein e la relatività, dopo Heisenberg e la quantistica, dopo Freud e la psicanalisi, la gente si sarebbe ricordata anche di me, di Bernasconi e dell’ipervelo. Avrei tracciato una nuova pagina, avrei aperto un nuovo paradigma.»

Questa volta alzò la testa e accennò un sorriso. Il sorriso amaro della sconfitta.

«Sì, l’ipervelo. Avevo già pronto il nome per la mia grande scoperta, per quando avrei scritto la pubblicazione in cui avrei rivelato l’esistenza di un mondo altro, di ciò che va oltre i sensi fisici… avrei reso normale il paranormale, avrei riportato tra le braccia sicure della scienza tutto quell’insieme di strani fenomeni fino a oggi rimasti inspiegabili.» Sospirò profondamente. «È stato un esperimento di laboratorio. Ho cercato di applicare il metodo empirico a ciò che, per sua stessa natura, è sempre stato l’antitesi stessa dell’empirismo. Volevo rendere razionale l’irrazionale…»

«Sulla pelle di una ragazza innocente», sbottò Aurora. Sul viso le si disegnò una smorfia stomacata, come se fosse sul punto di mettersi a vomitare. «Distruggendo la vita di una creatura che non c’entrava nulla, che non sapeva nulla di voi e di ciò che stavate facendo…»

«È andata esattamente così», confermò ancora il dottor Bernasconi, annuendo di nuovo. «Volevo portare a termine il mio esperimento. Mi credevo onnipotente, in grado di poter fare tutto, di poter disporre di tutto e di tutti a mio piacimento. Come ogni scienziato, mi reputavo alla pari… anzi, no: persino superiore, a dio. Avevo visto delle cose, e ora volevo che quelle cose avessero una spiegazione logica, perché la mia mente scientifica non poteva accettare che qualcosa sfuggisse a una teoria, a un meccanismo certo… insomma, che qualcosa andasse oltre il metodo galileiano su cui avevo improntato il mio unico credo. Ma per raggiungere i miei scopi mi serviva una cavia, e non mi sono curato di dove l’avrei trovata, né di preciso quando…»

Daniele, nel sentire la parola “cavia”, fu scosso da un brivido. Aurora lo agguantò di nuovo e lo tenne stretto a sé, per impedire che saltasse addosso al vecchio e lo facesse a pezzi. Gli si strinse addosso e lo accarezzò, cercando di calmarlo. Lei stessa dovette ricorrere a tutte le sue capacità di autocontrollo per non mettersi a fare qualche cosa di insano.

Il dottore ignorò quel siparietto e proseguì imperterrito con il suo monologo.

«Ho cercato di illudermi di star facendo tutto questo solo per aiutare Edith Mayer, per salvarla dalle sue sofferenze…» Il vecchio ridacchiò, schifato da se stesso. «La verità, pura e semplice, era che stavo cercando di capire, di comprendere ciò che avevo visto con questi stessi occhi e ascoltato con queste orecchie… e qualsiasi cosa sarebbe andata bene pur di prolungare per più tempo possibile il fenomeno, per osservarlo di nuovo, per raccogliere i dati necessari a studiarlo e a spiegarlo…»

Lo psichiatra deglutì a fatica e il suo petto sussultò.

«Avevo bisogno di Marta Bonofede o, meglio, della sua reincarnazione», riconobbe. «Non per Edith… non per aiutare quello spirito che, in un giorno lontanissimo, aveva chiesto il mio aiuto. No. Non poteva importarmene di meno… avevo necessità di ritrovare Marta solo perché così avrei potuto incontrare ancora Edith, e comprendere ciò che si trova oltre il velo… nell’ipervelo. Ho agito in nome della scienza. Dovevo dimostrare al mondo intero che il dottor Joseph Bernasconi era riuscito a giungere là dove uomini dai nomi ben più altisonanti del suo non avevano mai nemmeno voluto guardare per sbaglio.» Alzò la mano ischeletrita e contorta dall’artrite e indicò Sophia. «E questa creatura, pur sapendo a che cosa mirassi, pur conscia di che razza di individuo fossi realmente, ha accettato di aiutarmi, e non ha smesso di farlo per tutti questi anni, rendendosi mia complice nella follia…» Fece una breve risata. «E dire che, mentre mi ostinavo a cercare di studiare Edith, avrei potuto fare un mucchio di esperimenti su di lei, che è al di fuori del tempo e di qualsiasi comprensione umana…»

«Avresti scoperto più di quanto la tua mente sarebbe stata in grado di accettare, lo sai», gli rammentò Sophia, con tono dolce.

Daniele cercò di dire qualcosa. Non riusciva a credere a ciò che stava ascoltando. Aprì la bocca un paio di volte, prima di riuscire ad articolare qualche parola.

«Vale… la mia amica…» balbettò. «Sono dieci anni che soffre… che non vive più… e ora è chiusa in quella casa con un fantasma che vuole farle chissà cosa… tutto per il vostro dannato esperimento!»

Bernasconi fece un ghigno in cui rilucé qualcosa di satanico.

«Si dice, a torto, che il sonno della ragione generi mostri», sibilò. «Per come la vedo oggi, è soprattutto la troppa ragione a farlo… i mostri non nascono nel sonno… i mostri nascono quando ci scordiamo di dormire… e, soprattutto, di sognare… noi, piccoli uomini convinti di essere gli unici portatori di una verità universale, siamo noi i veri mostri, scatenati contro noi stessi… ora lo so. Anche se è tardissimo, lo so.»

Sophia lasciò andare una risatina. Una risata del tutto priva di felicità. Era colma di scherno, invece. Scherno per se stessa e per l’uomo che le era stato accanto per oltre settant’anni.

«Quella povera ragazza ha sofferto per il nostro esperimento, sì», mormorò. «E la cosa ridicola è che noi lo stiamo scoprendo solo adesso, alla fine… il dottore, qui, voleva scoprire la verità, e io con lui, perché il mio dono è anche una dannazione, quella di non comprendere fino in fondo. Ma non ci siamo riusciti. L’esperimento è continuato senza che noi lo osservassimo. E non potremo conoscerne i risultati, perché ormai è alla sua fine…»

«Non è la fine!» urlò Daniele.

Si divincolò dalla presa del sottotenente Bresciani, liberandosi. Mosse un passo verso la donna, che lo guardò imperturbabile. Aurora, questa volta, non provò nemmeno a trattenerlo. Manfredi e Orso lo fissarono con crescente nervosismo, certi che sarebbe capitato qualcosa di irreparabile da un momento all’altro. Nemmeno loro, però, fecero alcunché per bloccarlo.

«Non è la fine, mi hai capito, zoccola che non sei altro?!» urlò ancora il ragazzo. Tremava dalla testa ai piedi. «Se tu ti ostini a non voler aiutare la mia amica, lo farò io, da solo!»

Senza attendere una risposta, si lanciò come un razzo verso la porta del salotto e corse fuori dalla stanza.

Alberto e Aurora si scambiarono un rapidissimo cenno d’intesa. Lei si affrettò a seguire Daniele. Il tenente, invece, si volse di nuovo a Sophia.

«Davvero volete restarvene qui, senza muovere un dito, mentre una povera ragazza è vittima di qualcosa che non ha chiesto e che non dipende da lei?» domandò.

La donna fece un altro sospiro.

«Non so che cosa potrei fare», sussurrò. «Io ho sempre comunicato con il mondo oltre il velo, ho sempre tentato di comprenderlo e interpretarlo… ma, interferire con esso, non è nelle mie capacità. Io vengo da esso, ne sono certa, ma non ho potere di fare alcunché. Va oltre i miei limiti.»

Orso la guardò con ostilità.

«Stronzate!» rugliò. «Se quel mondo può interferire con il nostro fino al punto da sbattere qualcuno fuori dalla finestra, deve essere possibile anche il contrario! O, almeno, ci si può provare, invece che restarsene qui seduti a fare la muffa! Oppure, sul serio volete soltanto aspettare il risultato del vostro esperimento, lasciando che succeda quel che deve succedere e disinteressandovi dell’esistenza di una ragazza che non ha vissuto quasi nulla, al contrario di voi due, che state insudiciando l’aria che respirate da fin troppo tempo?!»

Bernasconi alzò lo sguardo e incontrò quello di Sophia. Negli occhi di entrambi c’era la consapevole vergogna di ciò che avevano fatto.

«Sentitemi bene», disse Manfredi. «Quello che avete commesso è un crimine. Un vero e proprio crimine. Uno dei peggiori in cui mi sia mai imbattuto. È meglio uccidere qualcuno, a questo punto, piuttosto che farlo vivere sospeso in un limbo da cui non può fuggire. Dubito che sia perseguibile, perché non c’è una legge che vieti di evocare fantasmi o altre cose del genere, ma…» Si morse il labbro per reprimere la rabbia che si stava impadronendo di lui. «…ma io vi giuro che, se esiste anche solo un modo per sbattervi tutti e due in galera e buttare via la chiave, allora lo farò. Metterò a soqquadro le vostre vite schifose fino a trovare il più piccolo pretesto per sbattervi dentro, lo giuro.»

Madame Sophia si alzò. Lo fece con mosse eleganti, che misero in evidenza tutta la bellezza del suo corpo privo di tempo. Il suo sguardo nero divenne penetrante come una lama sottile e affilata. Una consapevolezza nuova passò sul suo volto.

«Potrà fare tutto quello che desidera, tenente Manfredi», disse, con voce profonda. «Se vorrà arrestarci, se deciderà di giustiziarci… quello che vorrà. Ma a suo tempo. Prima verrò con voi a Villa Mayer e, se potrò, salverò quella povera giovane da ciò di cui io e Joseph siamo gli unici responsabili.»

Detto questo, si avvicinò a una credenza e recuperò uno scialle. Se lo drappeggiò per bene attorno alle spalle e, con passo lievemente ancheggiante, uscì dalla porta. Prima di seguirla, Alberto si girò a guardare Bernasconi.

«Lei, dottore, non creda di cavarsela tanto facilmente», disse. «Quando saremo di ritorno, ci saranno dei provvedimenti molto seri, per quello che ha fatto.»

Il vecchio psichiatra fece un cenno stanco.

«Sono pronto a pagare tutte le conseguenze delle mie azioni», garantì.

«Sarà…» borbottò Alberto. Guardò Orso. «Tu resta qui con lui. Assicurati che non provi a fuggire.»

Orso annuì, mentre Bernasconi si lasciò sfuggire una risata roca. Diede una manata al suo deambulatore. Le sue vecchie giunture scricchiolarono in modo lugubre.

«Tranquilli, signori, dubito che vi obbligherò a un folle inseguimento nella notte», brontolò.

 
   
 
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