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Autore: Orso Scrive    19/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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25.

 

 

«Dovrei buttarla dalla finestra, e sarebbe ancora troppo poco, per uno come lei.»

Il dottor Bernasconi, che stava fissando le braci morenti rosseggiare sul fondo del caminetto, sollevò lo sguardo su Orso.

«E lei rischierebbe di andare in galera per uno come me?» domandò, sinceramente curioso. «Crede che ne varrebbe la pena, a conti fatti?»

Orso era seduto al tavolo della sala. Fece spallucce.

«In galera, al giorno d’oggi, non ci va più nessuno. Ci sarebbe la fila di criminali in attesa, davanti a me. E poi mi basterebbe dire che lei ha cercato di fuggire, che mi ha aggredito – magari cercando di uccidermi, giusto per aumentare un po’ la suspense – e che nella lotta ha avuto la peggio, è inciampato finendo contro il vetro della finestra e ha fatto un bel capitombolo.»

«Interessante», ammise il dottore. «Però, dobbiamo prendere atto che, come trama, non è tutto questo granché. Lei ha fatto di meglio, di molto meglio. In altre occasioni, come minimo, avrebbe detto che un mostro pieno di tentacoli è sbucato dalla cappa del camino, ghermendomi e facendomi a pezzi. Oppure che io stesso, dopo essermi tramutato in mostro, avrei ingaggiato con lei una lotta all’ultimo sangue, uscendone poi sconfitto all’ultimo istante.»

Orso evitò il suo sguardo. Tirò su con il naso.

«Ora non mi venga a dire che ha letto i miei racconti», mugugnò. «Non sarà certo questo a salvarla, sa?»

«Se vuole così, non glielo dico», concesse il vecchio psichiatra. Fece un cenno con il capo. «Ma, prima che lei metta in atto i suoi propositi omicidi, lasci che le dica questo: quando ho lavorato in una clinica per malattie mentali, in gioventù, ho visto un gran numero di assassini perseguitati dai fantasmi delle loro vittime. Uno di questi era il padre di Edith. La maggior parte di loro, questi fantasmi, se li creava nella propria mente. Erano sconvolti da ciò che avevano fatto; era come se, uccidendo, strappando l’anima di un’altra persona al corpo di cui era ospite in quel momento, avessero spezzato qualcosa dentro di sé. Non riuscivano a darsi pace, e così impazzivano senza possibilità di guarigione. Per altri la faccenda era un po’ differente, e in quei casi i fantasmi, be’… lo riconosco, ho fatto molta fatica e c’è voluto del tempo, ma alla fine l’ho accettato: quei fantasmi erano reali. Non so cosa fossero davvero: ricordi, residui di anime, emozioni condensate, proiezioni, chissà. So solo che erano reali, così come siamo reali io e lei in questo momento.»

Il dottore fece una breve pausa, tornando a fissare per un istante le braci, che la cenere stava rendendo biancastre. Guardò di nuovo l’uomo seduto al suo tavolo, che fissava in silenzio la superficie del mobile.

«Lei non vuole essere perseguitato per il resto dei suoi giorni dal mio spettro, dico bene?»

«Dubito che accadrebbe», replicò Orso. Eppure, non sembrò tanto convinto delle sue parole.

«E poi», proseguì il dottore, imperturbabile, «quale sarebbe la differenza, tra il buttarmi dalla finestra e lasciarmi stare così come sono? Mi guardi. Sono inchiodato qui, con entrambi i piedi nella fossa, ormai. Non ne ho per molto, a questo punto. Sono vecchio, molto vecchio, se lei non se ne è accorto. Sono il residuo di un’epoca finita, e mi trovo a respirare in un tempo che non è più il mio, di cui non capisco nulla. Cosa ci guadagnerebbe, a farmi fuori?»

Orso fece un sorriso amaro.

«La differenza sarebbe darle la fine che merita, quella di uno scarto buttato via, anziché concederle di morirsene tranquillo nel suo letto», obiettò.

Bernasconi accolse quelle parole con la medesima ieratica imperturbabilità con cui avrebbe ascoltato un’ipotesi di laboratorio espressa da un collega.

«E dica: secondo lei, deteriorarsi poco a poco fino a morire nel proprio letto, circondati dagli affetti di persone che si disperano vedendoci andarcene e che, con le loro lacrime a stento trattenute, non fanno che renderci ancora più triste e angoscioso il momento del trapasso, è una bella morte?»

Orso fu colto alla sprovvista da quella domanda. Sopratutto, perché possedeva la risposta.

«Non ho nessuna intenzione di finire decrepito come lei», grugnì. Continuò a evitare lo sguardo del medico, come se ne fosse infastidito. «E di sicuro non voglio necrologi da esporre dappertutto per mettermi al pubblico ludibrio o alla comune commiserazione di cui non saprei che farmene, né camere ardenti piene di fiori che mi farebbero solo venire il raffreddore – anche perché non ho mai sopportato quell’odore di fiori recisi che riempie i negozi dei fiorai e i cimiteri – e neppure visite di parenti che non ho mai visto in vita mia, e tantomeno gente che manipoli il mio corpo o sciocchi funerali con sacerdoti dal fiato pestilenziale che blaterano a vanvera di inutili resurrezioni, di petulanti e capricciose divinità in cui non credo affatto e di altri bla bla bla senza significato, e nemmeno la terra di un cimitero, che per alcuni è consacrata e che per me, invece, non è altro che un insieme di sostanze organiche decomposte, come in qualsiasi altro terreno del mondo… quando sentirò che sarà il momento giusto, prenderò due o tre bottiglioni di roba buona, me ne andrò nel bosco da solo e addio. Saluterò tutto e tutti respirando la natura, tra un sorso e l’altro. Poco a poco diventerò terriccio, da cui germoglieranno alberi e nuova vita. E di quello che accadrà alla mia anima, lo scoprirò in quel momento: di certo, non andrò all’Inferno solo per aver evitato da morto tutta quella robaccia in cui non ho creduto da vivo, anzi. Ma spero proprio di non andare nemmeno in Paradiso – anzi, a dirla come va detta, spero che un postaccio del genere non esista proprio – perché ci sarebbe da morire di noia per l’eternità a starsene lì con vergini e santi a cantare alleluia alleluia in onore di un idiota vanaglorioso con l’aureola in testa, e il solo pensiero che sia così mi fa venire da vomitare. Se proprio me lo domandassero, allora sì che preferirei il piano di sotto, per andare a farmi fare torture speciali da qualche bella diavolessa, magari bionda e con le tette grosse.»

Aveva parlato tutto di fila, senza tirare il fiato, barbugliando proprio come un orsetto brontolone. Ora fece una pausa per respirare. Concluse.

«Quando verrà il momento, nessuno mi troverà mai più.»

Sul volto rugoso di Bernasconi si allargò un sorriso.

«Sarà difficile andare nel bosco, se la condanneranno all’ergastolo per avermi buttato dalla finestra.»

Orso sbuffò.

«Sì, certo, figurarsi se mi danno l’ergastolo per aver fatto secco una vecchia mummia bavosa», brontolò. «Ma, in ogni caso, meglio non rischiare. Non si sa mai, visto e considerato come vanno le cose: magari lasciano in giro la merda e poi in galera ci buttano la brava gente. Crepi come le pare e nei tempi che preferisce, dottore; non sarò certo io a darle una mano a farlo.»

Si alzò.

«Addio, dottore. Io mi tolgo dai coglioni. Ne ho avuto abbastanza, di stare qui in sua compagnia, rinchiuso in questa specie di sepolcreto che puzza di muffa. Spero di non incontrarla mai più in vita mia.» Fece un cenno verso il deambulatore. «Casomai le venisse qualche proposito di fuga, mi auguro di cuore che con tutto quel suo trespolo finisca giù da un burrone. E che, dopo essersi rotto tutte le ossa, patisca una lunga e lenta agonia di dolorosa sofferenza, prima di smetterla di insozzare il mondo con il suo fiato schifoso.»

«Anche per me è stato un piacere incontrarla questa notte, signore», replicò Bernasconi, con il tono di chi si stia divertendo parecchio.

Senza più degnarlo di una sola parola o di uno sguardo, Orso imboccò la porta e se ne andò.

 

* * *

 

Edith si guardò attorno.

Il prato era scomparso. Era di nuovo in quello squallido salone. Lo stesso in cui suo padre l’aveva assassinata, e dove aveva ucciso la sua amata Marta. Quel luogo in cui lei, vendicativa, era uscita dal corpo per perseguitare quel mostro fino a strappargli il senno.

Ora la sala sembrava però una caverna tetra, un oscuro budello ghermito dal ghiaccio, che aveva cristallizzato tutte le cose. Ghiaccio che aveva avvinghiato il pavimento, che si era arrampicato lungo le pareti e che pendeva dal soffitto in aguzze stalattiti. Era il covo oscuro, il luogo abitato dal mostro.

Lo stesso mostro, deforme e spaventoso, che ora incombeva su di lei.

«Sei una vergogna, Edith!» ruggì l’essere. «Tu non sei mia figlia! Sei solo uno scherzo della natura!»

Il mostro mosse un passo verso di lei. Stringeva tra le mani l’attizzatoio acuminato, grondante sangue. Edith serrò gli occhi. Non voleva vedere. Perché lei lo sapeva… quello era il sangue di Marta. Il mostro l’aveva uccisa. Aveva distrutto il suo amore.

Il loro amore.

«Ma io porrò rimedio a tutto questo!» sbraitò il mostro. «Porrò su di te il marchio della vergogna e della lussuria, perché tutti sappiano in quale modo crudele e doloroso vengono puniti gli abomini!»

Sollevò la sua arma, pronto ad affondarla nel corpo indifeso di Edith. Piangendo, la giovane si schiacciò sul pavimento. Era consapevole che la sua schiena nuda stesse offrendo un facilissimo bersaglio all’essere ripugnante che la sovrastava. Ma fuggire era impensabile. Non riusciva a muoversi.

Aveva atteso per tanto tempo… aveva atteso oltre la vita e oltre la morte, al di là dell’esistenza. Aveva aspettato con lenta e inesauribile pazienza che Marta tornasse finalmente da lei, perché il loro amore potesse vivere… perché, ne era sempre stata certa, il loro era un legame destinato ad andare oltre i vincoli del mondo fisico. Lo aveva sempre saputo. Non c’erano stati dubbi riguardo a questo, nella sua mente.

Ma il mostro era tornato. Era riuscito a liberarsi dalla catene infernali e le aveva trovate. Le aveva divise ancora una volta, strappandole al loro Paradiso, quel Paradiso perduto che avevano con fatica e calma ritrovato. Ma era stato solo un flebile barlume, un’illusione di speranza, una piccola e indifesa goccia luminosa nell’oceano della disperazione. Il calore era stato ghermito e vinto dai lacci del gelo. Il male di cui l’essere umano sapeva essere capace era sorto di nuovo, per impedire che l’amore vivesse…

«Edith, te l’ho promesso…» sussurrò la voce di Marta, vicina al suo orecchio. «Sarà per sempre…»

La giovane riaprì di scatto gli occhi. Ebbe un fremito e il cuore le balzò in gola.

Marta era al suo fianco. Non era nuda come lei. Era avvolta nel pesante tabarro nero con cui aveva sfidato e vinto la neve e la tormenta per venire da lei. E i suoi occhi erano accesi di determinazione. La determinazione di un guerriero venuto a sfidare e a vincere contro il mostro.

L’essere mostruoso abbassò l’attizzatoio. Le braccia di Marta si tesero in avanti, le sue dita si strinsero con sicurezza sul metallo e lo bloccarono a mezz’aria. Il mostro ruggì ed emise versi disumani, cercando di opporsi, di liberarsi da quella presa.

Marta non glielo permise.

Con uno strattone, strappò l’attizzatoio dalle mani del mostro. Lo impugnò stretto, come una spada.

I due si fronteggiarono per un istante. Gli occhi nocciola di Marta sfidarono senza alcun timore quelli rossi e bestiali dell’essere indescrivibile. Il respiro di lei, tranquillo e rassicurante, si sovrappose agli sbuffi mefitici e puzzolenti di zolfo di quella specie di orco.

Una smorfia si diffuse sulle labbra di Marta. Una smorfia di rabbia, di dolore… ma anche di soddisfazione. La soddisfazione di star finalmente mettendo la parola fine a quella storia che durava da fin troppo tempo.

«Caina attende chi a vita ci spense!» gridò, scattando in avanti.

Con tutta la potenza e la rabbia che aveva in corpo, Marta spinse l’attizzatoio nel ventre del mostro. Lo squarciò, passandolo da parte a parte. La bestia gridò, cercando di sottrarsi, di mettersi al riparo. Il suo respiro divenne un gorgoglio crescente. Ma la giovane non ebbe alcuna pietà delle sue urla e della sua sofferenza. Ritrasse l’arma e colpì ancora e ancora, lacerando, strappando, squartando.

L’attizzatoio vibrò, come se cercasse di opporsi all’uccisione del suo padrone. Gridando, la ragazza tenne duro. Continuò a sferrare colpi, fino a quando l’arma rimase conficcata nel cuore del mostro e lei, vinta dallo sforzo, dovette lasciarlo andare.

Pallida e tremante, Marta crollò in ginocchio, accanto a Edith. Lei si sollevò e le due amanti si strinsero in un abbraccio, stretto e avvolgente. Il tabarro le coprì entrambe, tenendole al riparo come una soffice e calda coperta.

Con un ultimo ruggito, agitando inutilmente le braccia nel tentativo di liberarsi dal ferro che lo aveva trapassato, l’essere ripugnante barcollò all’indietro. Incespicò nei propri piedi, cominciò a cadere…

«Caina attende chi a vita ci spense!» gridarono Marta e Edith, insieme, con una sola voce.

Il pavimento si aprì sotto i piedi di Mayer. Spire di ghiaccio e braccia di gelida pietra sorsero dal nulla, afferrandolo stretto. Il mostro tentò di divincolarsi, di sottrarsi a quella tortura, ma la presa sul suo corpo era troppo salda perché potesse opporsi. Il freddo dell’Inferno lo ghermì, lo avvolse completamente e lo trascinò con sé nel baratro dell’eterna ghiacciaia della Caina. Le sue urla terrorizzate, cariche di indicibile dolore, echeggiarono nell’oscurità crescente in cui sarebbe rimasto rinchiuso per sempre.

Fu un istante che si dilungò per un tempo che parve infinito, poi il pavimento si richiuse. Il ghiaccio che aveva congestionato la sala si dissolse, la luce del tardo mattino invernale tornò a incunearsi attraverso la vetrata. Nel caminetto, il fuoco riprese a scoppiettare, spargendo un morbido profumo resinato per tutta la stanza.

Le due giovani restarono strette l’una all’altra. Mille sensazioni le attraversarono. Ma furono tutte sensazioni positive. La felicità esplose nei loro petti, scaldandole come un fuoco buono e dolce. I loro cuori, appoggiati l’uno all’altro, batterono all’unisono, vivi come non erano più stati da tantissimo tempo.

Si lasciarono andare per quel poco che servì a guardarsi negli occhi.

«Marta…» sussurrò Edith, sorridendo.

«Edith», mormorò lei. «Grazie per avermi aspettata… ora è il momento per stare insieme… per sempre…»

 

* * *

 

Camminando a passo sostenuto, Alberto, Aurora e Sophia percorsero il sentiero in mezzo al bosco. Presto, la cancellata di Villa Mayer comparve davanti ai loro occhi, aguzza nella nebbia.

Daniele era lì, appoggiato al cancello. Ansimava forte e tremava.

«Ehi…» lo chiamò Aurora, raggiungendolo.

Lui si volse a guardarli. Era pallido, molto più di quanto non fosse normalmente. I suoi occhi erano pieni di lacrime amare.

«I-io non ce la f-faccio…» balbettò. La sua voce era impastata di paura. «M-ma non p-posso a-abbandonare Valeria…»

Cercò di muovere un passo, staccandosi dal cancello. Barcollò e rischiò di cadere. I due carabinieri si affrettarono ad affiancarlo e lo sorressero.

«Non l’abbandoniamo», promise Aurora, parlando con voce piena di calore. «Anche noi abbiamo paura, eh… ma tutti e quattro insieme possiamo farcela.»

«Tireremo fuori dai guai la tua amica», soggiunse Alberto. «Non preoccuparti per lei. Presto sarà con te e sarete entrambi al sicuro, e sistemeremo quel brutto fantasmaccio come merita.» Si girò a cercare lo sguardo di Sophia. «Giusto?»

La donna non disse nulla. Aveva gli occhi puntati in direzione della grande villa, che si intuiva a malapena nel grigiore della nebbia. Sul suo volto si stava susseguendo una serie indescrivibile di emozioni differenti e contrastanti.

«Giusto?» disse ancora Manfredi, a voce un poco più alta, tentando di richiamare la sua attenzione.

Gli occhi nerissimi di Sophia restarono puntati ancora per un lungo istante verso Villa Mayer. Poi, li piantò sui tre che aveva davanti e che aspettavano qualcosa – qualsiasi cosa – da parte sua.

«Il mostro è morto», sussurrò. «Caina se l’è preso. Edith e Marta sono libere.» Un sussurro roco, che si perse nel silenzio ovattato della nebbia. «Il loro amore adesso può vivere…»

Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo irrequieto. In mezzo a loro, Daniele vibrò con violenza.

«Che significa?!» esplose il ragazzo. «Chi cazzo se ne frega, di Edith e Marta! A me importa di Vale!»

Uno strano sorriso si dipinse sulle labbra della donna.

«Ma non riesci a capire?» chiese. «Non ti rendi conto che la tua amica Valeria è Marta e allo stesso tempo è Edith? E ora loro sono insieme e…»

Daniele fece per dire qualcosa. Manfredi la precedette.

«Basta con queste cazzate!» quasi gridò il tenente. «Siamo venuti qui per aiutare quella ragazza, non per altro! Quindi ora sbrighiamoci ad andare a toglierla dai guai, senza perdere altro tempo in chiacchiere!»

Avrebbe voluto aggiungere “prima che sia troppo tardi”, ma si trattenne appena in tempo. Sentiva Daniele già abbastanza agitato e preoccupato, non gli sembrò affatto il caso di mettergli addosso ulteriori motivi d’ansia. Come al solito, fu come se Aurora gli avesse letto nel pensiero. Lo guardò e fece un lieve cenno d’assenso.

Sophia esitò.

«Io non so se avrò la forza di…» si interruppe, incapace di dare una vera forma ai pensieri che le stavano attraversando la testa.

«Scusate un attimo», sibilò Aurora.

Si staccò dai due giovani uomini e, a passo lento e ancheggiante, si avvicinò alla donna. Lo fece con movimenti sinuosi, come quelli di una serpe che cerchi di irretire la preda prima di attaccarla con un morso velenoso.

Ahia, pensò Manfredi.

Non si sarebbe voluto trovare nei panni di Sophia, in quel momento.

La mano di Aurora scattò e si richiuse con precisione sulla sommità della testa di Sophia. Tenendola stretta, la costrinse a piegarsi verso di sé. La donna cercò di sottrarsi, gemendo con dolore, ma il sottotenente strinse più forte, tenendola salda. Avvicinò il viso al suo, in modo da poterle parlare nell’orecchio.

«Stammi a sentire», soffiò. «Stammi bene a sentire. Là dentro c’è una ragazzina in pericolo a causa di quello che avete fatto tu e quel rottame di uno psichiatra da due soldi. Non hai il diritto di chiederti se avrai o meno la forza di fare qualcosa, dal momento che non te lo sei domandata quando avresti dovuto farlo per davvero. Ora devi sistemare le cose, in un modo o nell’altro. Altrimenti, sarò implacabile, te lo assicuro. E non ti immagini nemmeno che cosa potrei farti, quali patimenti sarei capace di affliggerti… e non pensare che il fatto che tu sia una donna, o che sia vecchia, o qualsiasi altra scusante che ti salti in mente, possa in qualche modo salvarti da me.»

C’era qualcosa di davvero minaccioso, nel tono sottile della giovane. Qualcosa che non sfuggì alle orecchie di Sophia. Per la prima volta nel corso della sua vita innaturalmente lunga, quella medium che era stata capace di parlare con i fantasmi e di guardare oltre il velo, provò un moto di paura.

Di paura profonda, che la ghermì fin nelle interiora.

«Mi hai capito?» sussurrò Aurora, tagliente.

Sophia rabbrividì. Tentò di articolare qualche parola, ma dalle labbra le uscì solo un suono indistinto.

Il sottotenente tirò più forte i capelli della donna, costringendola a piegarsi ancora di più. Con l’altra mano, le trovò il polso e glielo torse, stando attenta a farle davvero male.

«Mi hai capito?» ripeté.

«Io ho capito», gemette Sophia, che stava cominciando a essere attraversata da tremiti dolorosi.

Aurora la lasciò andare all’improvviso.

«Era solo questione di intenderci», trillò, ilare. «Nessun risentimento, vero?»

Sophia ansimò e si massaggiò il polso dolorante. Poi passò al collo, che doveva pulsarle parecchio. Tuttavia, fu capace di sorridere.

«Nessun risentimento», rispose. La sua voce era leggermente più roca di prima.

Guardò di nuovo Villa Mayer.

«Andiamo?»

Senza attendere risposta, si avviò, a passo veloce e deciso. Oltrepassò il cancello e cominciò a risalire il lieve pendio dell’antico parco, spettrale nella nebbia.

Gli altri tre la seguirono subito.

 
   
 
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