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Autore: Orso Scrive    19/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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26.

 

 

«…insieme…» ripeté Edith. Nella sua voce rifluì una nota di incredulità, che fu subito spazzata via. «…per sempre…»

«Sì, amore mio, ora nessuno potrà più dividerci…» disse Marta.

Si tennero strette l’una all’altra, dandosi calore a vicenda. La stanza, attorno a loro, era immobile in una mattina d’inverno. Una mattina d’inverno che stava proseguendo, che non le avrebbe più riviste morire.

Oltre la vetrata, il paesaggio era imbiancato. La cappa grigia dell’inverno premeva dall’alto. Ma non dava un senso di pesantezza. Al contrario, comunicava una lievità, una leggerezza che sembrava accarezzare le due giovani di nuovo unite. Ogni tanto, qualche fiocco leggero vorticava nell’aria pura.

«Siamo vive?» sussurrò Edith, guardandosi attorno. C’era qualcosa di strano e indefinito, nella stanza. Qualcosa che sfuggiva al loro sguardo. «Sembra di essere in un sogno…»

Marta le accarezzò i capelli e la strinse ancora di più. Il corpo nudo di Edith ebbe un fremito quando le dita dell’altra ragazza lo percorsero tutto in una dolce carezza.

«Non è un sogno, amore mio», le sussurrò all’orecchio. «È tutto vero. Noi siamo vere, noi siamo vive.»

Lo sguardo di Edith incontrò una figura opalescente distesa al suolo. Sembrava la forma fumosa e impalpabile di una giovane donna priva di sensi. Ebbe un sussulto, quando se ne accorse.

«E… lei… l-lei chi…»

Marta la accarezzò ancora, tranquillizzandola. Adesso, altre ombre si muovevano per la stanza. Ombre confuse, agitate, in cui gli occhi delle due ragazze scorsero immagini indistinguibili ma dalle forme vagamente umane. Due uomini e altrettante donne – senza contare quella distesa di fronte al caminetto – che sembravano parlare tra di loro, anche se le parole che dicevano non giungevano fino a loro.

«Fantasmi», disse Marta. «Ombre e sogni. Sono inconsistenti. Non dobbiamo averne paura. Non ci faranno del male… presto, se ne andranno.»

Edith chiuse per un attimo gli occhi. Qualcosa di fugace le attraversò la mente. Un’idea indefinita, il ricordo di qualcosa che non riusciva a comprendere e a mettere a fuoco.

Infine, l’afferrò.

«I-io», balbettò, «io e-ero un f-fantasma…»

Marta scosse il capo.

«Questo era ciò che voleva farti credere tuo padre. Voleva privarti della tua vita. Voleva costringerti a non essere chi sei, rendendoti del tutto asservita a lui. Ma ti ho salvata, amore mio. Ci siamo salvate. E ora siamo insieme, e non siamo fantasmi…»

Edith riaprì gli occhi. Le ombre erano ancora attorno a loro. Sembravano danzare nella stanza, intangibili come fumo.

«Non lo siamo…» disse. «Noi no…»

«Noi no…» ripeté Marta, facendole una carezza sui capelli. «Loro… loro sono i fantasmi… coloro che vivono oltre il velo concreto delle cose…»

 

* * *

 

Sempre preceduti da Sophia, Alberto, Aurora e Daniele entrarono di nuovo nella vecchia dimora abbandonata. Ancora una volta, li accolse un senso di vaga inquietudine. Adesso, però, sapevano di preciso a che cosa attribuire la paura che quel luogo generava. Non che questo rendesse più semplici le cose, comunque.

Anzi.

Se possibile, era persino peggio della prima volta che ci erano entrati, non più di un paio d’ore prima.

«Stavolta evita di arrestare i fantasmini, tenente», commentò Aurora.

Forse cercava di apparire sprezzante per dare sicurezza prima di tutto a se stessa. Non ci riuscì troppo bene. La sua voce risuonò un po’ troppo acuta e stridula.

«L’importante è dare almeno un avvertimento, e io quello l’ho già dato», borbottò Manfredi. «Adesso non ci sarà bisogno di rispettare nessuna procedura…»

Senza fermarsi a domandare dove dovessero dirigersi, Sophia si diresse con decisione verso lo scalone che portava ai piani superiori. Cominciò a salirlo senza alcuna esitazione.

«Ehi, pare che adesso la nostra amica sia proprio decisa ad andare fino in fondo», borbottò Alberto. «Non voglio nemmeno provare a immaginare che cosa mai puoi averle detto, per metterle un simile fuoco al didietro.»

«Quando voglio, so essere persuasiva, Manfredino», tagliò corto Aurora.

Tutti e tre raggiunsero le scale. Si fermarono. L’angoscia premette contro i loro petti con la medesima intensità del buio che avvolgeva ogni cosa.

«Forse dovrei andare avanti io», mugugnò Manfredi. «Essendo che sono il più alto in grado. Non voglio fare la parte di quegli ufficialoni che mandano avanti le reclute per pararsi il culo.»

«Se è per questo, dovrei andare prima io, visto che Valeria è amica mia, e questa non mi pare una questione che richieda procedure e gradi», gli fece eco Daniele.

Entrambi però continuarono a esitare. Sembrava che ciascuno dei due attendesse che l’altro facesse qualcosa. Aurora li sorpassò e cominciò a salire alle spalle di Sophia.

«Mentre voi eroici maschietti state lì a misurare chi ce l’abbia più lungo, noi povere fanciulle dobbiamo pensare a tutto», finse di lamentarsi.

Daniele arrossì. Manfredi sospirò. Anche loro iniziarono a percorrere i vecchi gradini di pietra, uno alla volta. Salirono adagio, attenti a non scivolare sulla polvere e sugli altri detriti che avevano reso scivoloso il marmo.

Infine, furono nel corridoio. Sophia si concesse un momento di raccoglimento, poi si diresse verso la porta della grande sala. Gli altri la seguirono.

Timorosi di quello che avrebbero potuto trovare, raccolsero ogni stilla di coraggio. Si affacciarono alla soglia.

Valeria era ancora distesa vicino al caminetto freddo e vuoto. Ora però non singhiozzava più, e non tremava. Era del tutto immobile. Di Edith, della figura bianca e spaventosa che avevano visto prima, non c’era nessuna traccia.

«Oddio, non ditemi che…» fece Daniele, angosciato, avviandosi verso la giovane.

Sophia gli si parò davanti. Lo bloccò, impedendogli di passare.

«La tua amica non è morta», sussurrò. «Ma lo sarà tra poco, se non interverrò. Più lei perde le sue forze, più le acquistano Marta e Edith. Guardate là.»

Indicò un punto, poco lontano dalla giovane priva di conoscenza. Dapprima, non riuscirono a distinguere nulla.

Poi le videro.

Due figure trasparenti, appena percettibili, abbracciate. Una specie di vapore condensato, che acquistava sempre più una forma concreta. Sembrava di osservare qualcosa di lucido e fumoso che, di momento in momento, si faceva opaco e materiale.

«Evviva, non bastava un fantasma solo, ce ne volevano due», commentò Manfredi, a denti stretti.

Daniele tremò così forte che, per l’ennesima volta, Aurora fu costretta a sorreggerlo. Gli passò le braccia attorno alle spalle e appoggiò la guancia fredda alla sua, cercando di dargli conforto. Gli occhi del sottotenente non riuscirono a staccarsi da quelli delle due figure. Suo malgrado, Aurora era affascinata da tutto questo.

«Che cosa facciamo?» domandò il ragazzo, ormai sul punto di mettersi a piangere. Il suo sguardo, al contrario, aveva indugiato solo un istante sulle figure opalescenti, e poi era tornato a puntarsi sul corpo esanime dell’amica.

«Voi niente», disse Sophia. «Tocca a me…»

Si guardò attorno con frenesia. Sembrava che stesse cercando qualcosa. Alla fine, trovò ciò che cercava: accanto ai resti del vecchio pianoforte ormai marcito, erano abbandonate cinque candele. Dovevano essere vecchissime, e all’apparenza erano parecchio fragili. Un tempo dovevano essere state rosse, ma la sporcizia e l’ossidazione le avevano rese nere.

Dopo averle afferrate, Sophia le dispose in fretta attorno al corpo di Valeria, formando i vertici di un pentacolo. Gli stoppini erano quasi del tutto marciti, ma la donna scavò con le unghie quel tanto che bastò a riportare in superficie la parte che era stata preservata dalla cera.

«Mi serve qualcosa per accendere…» mormorò.

Aurora, avendo compreso le sue intenzioni, si era già frugata in tasca alla ricerca dell’accendino. Non volendo lasciare andare Daniele, lo porse a Manfredi, che si avvicinò a Sophia per consegnarglielo.

«Signora», borbottò il tenente, guardando le cinque candele, «è sicura che…»

«Non sono sicura di nulla», replicò lei. Prese l’accendino, lo accese e si abbassò verso le candele. Prima di dargli fuoco, però, si voltò di nuovo verso Alberto. Sorrise con il suo modo di fare insieme rassicurante ed enigmatico. «Ma invece lei è sicuro di qualcosa, tenente? Ora che sa che il mondo non finisce qui, che c’è un velo oltre il quale qualcosa di forte sopravvive, può davvero ancora dirsi sicuro di qualcosa?»

Manfredi ci pensò solo un istante.

Scosse la testa.

«No, infatti…»

Si ritrasse e lasciò che Sophia accendesse le candele, una dopo l’altra, girando in senso antiorario attorno al corpo di Valeria. L’ultima che accese fu quella in prossimità della sua testa, il vertice superiore della stella. Il punto corrispondente allo spirito, secondo le dottrine esoteriche. Quando lo stoppino prese fuoco, la fiamma guizzò, rossa come sangue, e un vento gelido attraversò per intero la stanza, scompigliando i loro capelli e facendo tintinnare i pochi pannelli di vetro rimasti intatti sulla finestra. Le candele si agitarono, ma le fiammelle continuarono a bruciare.

La donna gettò via l’accendino e si inginocchiò accanto ai piedi di Valeria. Si strinse le braccia al petto, serrò forte gli occhi e prese un profondissimo respiro. Poi parlò.

«C’è qualcuno, qui, che possa sentirmi?»

 

* * *

 

Le ombre parlavano. Il loro sembrava un brusio, un mormorare indistinto, come il gorgoglio dell’acqua di un torrente, incessante eppure impossibile da afferrare. Suoni che giungevano indistinti alle orecchie delle due giovani, abbracciate.

«Perché non se ne vanno?» sussurrò Edith, con il cuore che batteva in gola. «Marta, ho paura…»

«Non devi averne, amore mio.» Eppure, anche nel suo tono c’era traccia di una crescente inquietudine. Fece un profondo sospiro, prima di aggiungere: «Tranquilla. Ci sono qua io, con te… e tu sei qui con me. Non c’è niente che possa spaventarci, adesso.»

Davanti ai loro occhi sgranati, una delle ombre venne avanti con passo sicuro. Solo che non era più una semplice ombra. Più si faceva vicina e più assumeva le sembianze di una forma concreta, di una figura tangibile, che diventava sempre più riconoscibile. Ora poterono osservarla molto bene. Una vecchia signora, rugosa e magrissima, con capelli radi e candidi, vestita con un lungo abito blu, avvolta da scialli colorati e con il collo grinzoso e le braccia scheletriche impreziositi da bracciali, collanine, ninnoli.

La vecchia fissò le due giovani. Gli occhi chiari delle due ragazze fissarono quelli neri, profondi e antichi della donna. Due occhi vividi e scintillanti nel mezzo di un volto rugoso e incartapecorito, raggrinzito come quello di una mummia. I capelli erano pochi, ma bianchissimi e puliti. Aveva un naso lungo e adunco, che le conferiva il classico aspetto di una strega delle fiabe.

«C’è qualcuno, qui, che possa sentirmi?» chiese la donna, con voce flebile.

Edith e Marta, per istinto, si strinsero ancora più forte. Ciascuna delle due tremò tra le braccia dell’altra. Il tabarro nero era ormai la sola difesa che avessero contro quel prodigio inaspettato.

La vecchia dischiuse la labbra sottili in un sorriso, che mise allo scoperto una serie di denti irregolari, ingialliti e screziati di tartaro.

«Potete sentirmi… vedermi?» gracchiò. Il suo tono, nonostante l’asprezza del tempo, era gentile.

Nessuna delle due osava parlare.

«Non voglio farvi del male», le rassicurò lei, sempre con lo stesso tono di voce gracchiante ma insieme rassicurante.

Finalmente, Marta si ricordò di tutto il coraggio che aveva raccolto per scappare di casa, attraversare tutto il Nord Italia, affrontare la montagna impervia e gelida, giungere fino a quel luogo remoto nel cuore dell’inverno e poi affrontare il signor Mayer tramutato in mostro. Di quel coraggio, da qualche parte, doveva essere rimasto almeno un briciolo. Provò a raccoglierlo.

E poi, la vecchia – anche se era comparsa dal nulla – non sembrava troppo spaventosa, né pericolosa.

«C-chi… chi sei?» le riuscì di domandare, con una vocina piccola piccola.

La vecchia signora sorrise.

«Chi può dirlo?» domandò, rivolgendosi più a se stessa che a loro. «Nel corso del tempo, ho avuto tanti nomi, tante identità differenti, e anche se il mio spirito ha sempre avuto un lato femminile indiscutibile, qualche volta sono anche stata un maschio… sì, ho avuto tante realtà, dentro di me: così innumerevoli che nemmeno io sono più sicura di quale sia stato il principio e di quale sarà la fine… se mai ci sarà, una fine… e se mai ci fu per davvero, un principio…»

Edith, confortata dal coraggio di Marta, riuscì a sua volta a porre una domanda.

«Da dove vieni?»

Di nuovo, la vecchietta sorrise con fare amabile.

E, di nuovo, diede la stessa risposta di poco prima.

«Chi può dirlo?» disse. «Voi lo domandate a me, ma nemmeno io lo so. Qui, oltre il velo, la mia mente può spaziare con maggiore libertà, mi permette di vedere al di là dei confini dello spazio e del tempo, e posso vedere ciò che ero, ciò che sarò… e ciò che fu e ciò che sarà… se guardo a me stessa, vedo una lestofante matricolata, e prima ancora un contadino brontolone, e poi uno scrittore di talento e persino una sacerdotessa votata al culto del Sole Invitto… e vedo un’infinità di identità, alcune celebri, la maggior parte del tutto anonime, nomi oggi impronunciabili e forse mai nemmeno pronunciati in questo mondo, in questa lontana periferia di Universo… e vedo luoghi lontanissimi… borgate lontane e vicine, immense città e piccoli villaggi, e vedo terre il cui nome e il cui ricordo si è perduto nell’oblio del tempo e della memoria… e, se alzo gli occhi al cielo, vedo il Sole compiere la sua orbita celeste, ma vedo anche costellazioni mai vedute prima, e pianeti, e genti che li abitano, oggi, ieri, domani… perché le anime viaggiano, piccole mie, si muovono, non si fermano mai, come un vento incessante e che non si posa in nessun momento, e la mia anima è venuta da lontano, da molto lontano, e chissà se adesso ha raggiunto la sua ultima meta…»

Quel monologo della vecchia aveva scosso le due giovani, che per istinto si erano avvinghiate ulteriormente, rannicchiandosi il più possibile l’una accanto all’altra. La donna aveva parlato guardando lontano, verso le profondità imperscrutabili dell’ignoto, ma ora i suoi occhi si abbassarono su di loro.

«E quindi, per davvero… chi può dirlo? Chi può dire chi sono io e da dove vengo? E chi siete voi e da dove provenite? Chi è ogni essere vivente, e da dove viene? E quanta strada ha compiuto un’anima, e quanta ancora dovrà compierne, prima di giungere all’ultima destinazione?»

Il suo sorriso si allargò, amabile e confortante.

«Ma non ho squarciato il velo che separa le realtà per parlare di questo…»

Edith trattenne a stento un singulto. Marta singhiozzò. Le loro mani si strinsero spasmodiche.

«Q-quindi…» domandò la giovane dai capelli ramati, con la voce che tremava senza più alcuna parvenza di coraggio, «…quindi t-tu… v-vieni…» deglutì a fatica, «…vieni dal mondo dei m-morti?»

La vecchia scosse piano il capo. C’era un che di sottilmente malinconico, adesso, nel suo sguardo.

«No, piccola mia», mormorò. La sua voce si velò di tristezza. «No. Non c’è un mondo dei vivi e uno dei morti. Cosa sono la vita e la morte, se non due facce della stessa medaglia, se non due semplici ingressi distinti per uno stesso mondo? Ma se dovessimo appellarci a simili definizioni per poter dare una parvenza di spiegazione a tutto quanto, allora questo…»

Non terminò la frase. Non ne ebbe necessità.

Ciò di cui erano già consapevoli, piombò addosso alle due ragazze come un macigno. Un peso insopportabile che le gettò nello sconforto. Entrambe si abbandonarono alle lacrime.

«C-ci… ci siamo… ci siamo appena ritrovate…» singhiozzò Edith, cullando Marta e tenendola stretta.

«Dopo tanto tempo», mormorò Marta, tra le lacrime che, dai suoi occhi, scivolavano sulle guance e finivano tra i capelli di Edith.

La vecchia fece un profondo sospiro.

«E nessuno vi separerà, mai più», promise. La sua voce, sempre simile al gracchio di un corvo nero, riusciva comunque a risuonare dolce come miele, in quel momento. «Ma dovete andare oltre. Dovete accettare quello che è accaduto. Non potete rimanere ancorate per sempre a una realtà che non è più la vostra. Dovete lasciare che il tramite per cui vi siete ritrovate possa vivere la sua vita, secondo i ritmi della natura…»

Edith sussultò.

«No…» mormorò. «Non posso…»

Alzò gli occhi verso la vecchia. Ora fiammeggiavano.

«Non posso perdere il mio amore!» urlò. «Non ora che è tornata da me!»

La vecchia tentò di calmarla.

«Non la perderai, ma devi accettare che…»

«NO! BUGIARDA!»

Edith balzò in piedi. Il tabarro che l’aveva avvolta scivolò via, rivelando la bellezza incorrotta del suo corpo che non aveva avuto – e mai avrebbe avuto – il tempo di invecchiare. Era sudata, tremava. I suoi occhi parvero emanare scintille di rabbia.

«NON ME LA PORTERAI VIA ANCHE TU!» strepitò.

Marta sussultò e finì di lato. Cercò di rialzarsi, ma incespicò nel tabarro che le si era arrotolato attorno ai piedi. Cadde in ginocchio. La vecchia fece un passo in avanti e sollevò uno scheletrico braccio tremebondo, ma Edith le si scagliò contro e la spintonò, buttandola sul pavimento.

Fragile e debole com’era, la vecchia scricchiolò tutta. Proprio come una vecchia mummia. Si sollevò una nuvoletta di polvere, quando colpì l’impiantito. Forse, fu parte del suo corpo rinsecchito che si sbriciolava.

«Edith…» mormorò.

«NO!» gridò la ragazza. «Se hai oltrepassato il velo, ebbene io ti ricaccerò a calci in quel sedere secco nel luogo da cui sei venuta…!»

Si avvicinò, minacciosa.

La vecchia la fissò con i suoi occhi neri e antichi, impotente.



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La vecchia che dice "Chi può dirlo" l'ho rubata, perché sono un brutto Orsetto che ruba ruba ruba.
Scusami Topino <3 <3 <3

 
   
 
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