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Autore: Orso Scrive    20/01/2023    1 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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28.

 

 

Con un lampo accecante e un forte schianto che si propagò a tutta Villa Mayer, facendola ondeggiare e scricchiolare in modo sinistro fin nelle fondamenta, la rete di fuoco svanì in una nube di fumo. Le candele, che il fuoco aveva letteralmente divorato, consumandole in pochi istanti fino alla base, smisero di ardere. Ne restarono soltanto piccoli moccoli fumosi e informi.

Sophia e Valeria, con un gemito, crollarono all’indietro.

«Vale!» gridò Daniele.

Il ragazzo si divincolò, liberandosi dalla presa di Aurora, e corse dalla sua amica. Cadde in ginocchio accanto a lei, sedette sul pavimento a gambe larghe e l’afferrò con delicatezza. Le passò una mano dietro le spalle e una sulla nuca e la sostenne, sollevandola da terra. La giovane era cianotica.

«Vale…» chiamò Daniele, scrollandola. «Vale, ti prego, non…»

Valeria tossì. La sua bocca si spalancò e un fiotto di vomito le risalì dalla gola, rovesciandosi sul giubbotto di Daniele. Tossendo, scossa dai conati, aprì gli occhi velati di lacrime e li fissò in quelli dell’amico. Nonostante l’odore nauseabondo del cibo rigurgitato e dei succhi gastrici, lui la continuò a tenere stretta. La cullò piano e le accarezzò la fronte, madida di sudore. La guardò dritta negli occhi e la trovò più che bella che mai.

«Vale…» ripeté per la quarta volta, questa volta sussurrando. «Come stai?»

Lei cercò di dire qualcosa. Fu scossa di nuovo e un rutto sonoro le sfuggì dalle labbra. Un altro attacco di nausea terminò di liberarle lo stomaco. Il vomito passò dal suo naso e dalla sua bocca al giubbotto e ai pantaloni dell’amico.

«Sto da schifo, mi scoppia la testa…» mormorò, a mezza voce. «Però mi sento libera… leggera…»

Spostò lo sguardo di pochi centimetri e si accorse di come aveva conciato Daniele.

«Oh, cacchio… ecco perché!» borbottò, con aria mortificata. Nonostante il pallore, arrossì per l’imbarazzo. «Dani, mi dispiace, non volevo…»

«Ma chi se ne frega!» esclamò lui. Si chinò e le appoggiò le labbra sulla fronte, dandole un bacetto. Incapace di resistere, gliene diede un altro sulla punta del naso, e subito dopo un terzo sulla guancia. «L’importante è che tu stia bene!»

Alberto e Aurora, dopo essersi accertati che la ragazza fosse in buone condizioni, si inginocchiarono insieme accanto a Sophia, uno per lato. La donna respirava a fatica. La sua pelle aveva perso molto del suo colore naturale, al punto da apparire grigiastra, e vistose rughe le erano comparse sulla fronte e agli angoli degli occhi.

«Sembra invecchiata di colpo di dieci anni», sussurrò Alberto, incredulo.

Sophia sollevò le palpebre, fissando il suo sguardo nero e profondo negli occhi nocciola di Manfredi.

«Solo dieci anni, tenente?» sussurrò. «Mi è andata anche bene… ho visto come sarei potuta essere realmente, e be’, insomma…»

Trovò la forza per fare una risatina. Poi si abbandono sul pavimento e perse i sensi.

Aurora e Alberto si scambiarono uno sguardo interrogativo.

«Che diamine avrà voluto dire?» borbottò lui.

Lei fece spallucce.

«Non ne ho idea…» ammise. «Però credo che sia meglio portarla via da qui, prima che le si ghiacci il culo. A lei, e anche a noi: mi si stanno indurendo persino i peli della figa. Questa stanza è gelida, e quel tremolio di poco fa non mi è piaciuto per nulla.»

«Già…» borbottò Manfredi, ignorando il solito linguaggio scurrile del sottotenente. «Immagino che tocchi a me prenderla in braccio, vero?»

Aurora sorrise. Protese il braccio e con la mano gli mise di sghimbescio il basco e gli arruffò i capelli.

«Non fare finta che non ti piaccia tenertela stretta… scommetto che approfitterai di ogni oscillazione per toccarla e infilarle quelle ditina curiose dappertutto.»

«Mi rifiuto di commentare.»

Manfredi si chinò in avanti, fece passare le braccia sotto la schiena di Sophia e la sollevò. Barcollò un poco e avvertì una fitta alla schiena, sotto il peso morto della donna, ma riuscì a bilanciarsi muovendo un po’ le gambe.

Lui e Aurora si girarono verso Daniele e Valeria.

«Come ti senti?» chiese la giovane donna, chinandosi verso la ragazza.

Lei la fissò con aria smarrita, non capendo chi fosse.

«Va tutto bene», la rassicurò Daniele. «Sono amici. Sono venuti qui per aiutarti.»

«Io…» mormorò Valeria. «Io sono confusa… però credo di stare bene…» Sfiorò il giubbotto di Daniele, appiccicoso e maleodorante. «Ma mi dispiace di…»

«Finiscila, Vale, non è niente», replicò il ragazzo. Fece un sorriso tirato. «Al massimo, ti manderò il conto della lavanderia.»

Come era accaduto quando le candele si erano spente, l’intero edificio oscillò di nuovo da cima a fondo. Questa volta, alcuni calcinacci caddero dal soffitto, sollevando una nuvoletta di polvere.

«Ci mancava solo il terremoto!» esclamò Daniele, spaventato.

«Non è un terremoto», commentò Aurora, gettando un’occhiata nervosa verso l’alto. «È questa dannata casa marcescente che sta cominciando a cadere a pezzi per davvero. Meglio tagliare la corda alla svelta.»

Si chinò e, senza aggiungere una sola parola, prese Valeria dalle braccia di Daniele e la sollevò. Il ragazzo si rimise in piedi al suo fianco, protendendo le mani per provare ad aiutarla.

«Signora, ce la faccio da sola…» mormorò Valeria, imbarazzata.

«Non chiamarmi signora, no eh!» replicò Aurora, stizzita. «Avrò si e no cinque anni più di te… o stai per caso dicendo che sembro vecchia?!»

Un nuovo tremito dell’intero edificio minacciò di mandarla a gambe all’aria.

«Non mi pare il caso di pensare adesso a queste questioni!» brontolò Alberto. «Sarà meglio filare!»

«È sempre il caso di pensarci, invece!» rimarcò Aurora. Poi soggiunse, borbottando a mezza voce tra di sé: «No, perché io non sembro vecchia, no, no: io sono giovane! Che a nessuno venga in mente di dire il contrario, perché mi incazzo per davvero, e a quel punto sono cazzi amari!»

Manfredi non le badò. Fece per avviarsi verso la porta.

In quel momento, sulla soglia, si stagliò una sagoma umana, incappucciata di nero. Per un momento, tutti e quattro sussultarono, temendo che Edith fosse tornata, o che Villa Mayer stesse riservando qualche nuovo e inaspettato scherzetto di stampo metafisico. Ci mancava soltanto che, dalle profondità dell’edificio, sbucasse una bestia assassina, un diavolo infernale, un serial killer fantasma o qualcosa di simile.

Ma lo spavento passò subito. Si rilassarono non appena riconobbero la barba arruffata di Orso. Si era tirato il cappuccio della felpa sulla testa, ma parte dei suoi capelli disordinati ne sfuggivano di sotto, mischiandosi ai peli della barba in un guazzabuglio unico, che gli finiva sul naso e sulle lenti degli occhiali.

«Ehi, sono venuto a vedere se avevate bisogno di aiuto!» disse, girando lo sguardo tutto attorno. Ci fu un un altro tremito, che scosse tutta la villa. A giudicare dall’espressione di Orso, sembrava già essersi pentito di quella sua decisione avventata.

«E quel vecchio criminale?!» strepitò Manfredi. «Non lo avrai mica lasciato libero di scappare e di darsi alla latitanza, spero!»

«Ma che se ne vada a crepare come preferisce, quel decrepito rottame», borbottò Orso. «Non ne potevo più di rimanere chiuso in quella specie di tomba che ha per casa…»

L’ultima parola venne soffocata da un boato crescente. Ancora una volta, la casa venne scossa da un tremolio violento. Questa volta, ebbero l’impressione che l’intero edificio si fosse abbassato, come se stesse in qualche maniera sprofondando nel terreno.

«Discutiamone quando saremo fuori di qui», sbottò Aurora, nervosa.

Aiutata da Daniele, corse fuori dalla sala, trasportando Valeria. Orso seguì quello strano terzetto con lo sguardo, poi si avvicinò a Manfredi.

«Serve una mano a trasportare questa cariatide?» domandò.

«Se non vogliamo cedere alla tentazione di lasciarla qui…» bofonchiò Alberto, barcollando per il peso della donna e per il pavimento che, ormai, oscillava senza più nessuna pausa tra una scossa e la successiva.

«Sarebbe certamente una bella trovata», borbottò l’altro.

Afferrata la donna per i piedi, cominciò a muoversi verso l’uscita della stanza. Manfredi, adesso libero da metà del peso, la sostenne per le spalle e si incamminò insieme a lui.

Uscirono nel corridoio, che ondeggiava sempre più forte. Il pavimento sussultava, tanto che si faceva fatica a mantenere l’equilibrio e a reggersi in piedi. Tra scricchiolii crescenti, sordi boati che salivano dalle profondità e il fragore dei pezzi di mattoni e di malta che cadevano dalle pareti e dal soffitto, riuscirono in qualche modo a guadagnare lo scalone.

Guardarono in giù. Aurora e Daniele, senza smettere di trasportare Valeria, erano già a metà discesa. Si mossero per seguirli alla svelta.

Avevano disceso solo un paio di gradini, quando all’improvviso ci fu un sussulto più forte e secco dei precedenti. Orso e Alberto si trovarono a cercare di calpestare l’aria, mentre i gradini sprofondavano di mezzo metro verso il basso. Privi di appoggio caddero, lasciando andare Sophia. La donna sbatté duramente e rotolò per un buon tratto giù dalle scale.

Figa, fu il solo pensiero di una certa coerenza che il tenente riuscì a mettere insieme, mentre un dolore lancinante gli si propagava dalle ginocchia, che avevano picchiato sul marmo e gli si dovevano essere sbucciate sotto la tela dei jeans.

Spostò lo sguardo, cercando di mettere a fuoco qualcosa nel buio e nella confusione della polvere che ormai aveva invaso tutto l’ambiente. Anche se avesse avuto modo di vedere qualcosa, gliene mancò il tempo. Dal soffitto franò una grande massa di pietrisco e di mattoni, mista ai vetri taglienti del lucernario che era andato in frantumi. Calcinacci, pietrame di vario genere e vetri rotti riempirono per intero il grande vestibolo e coprirono quasi del tutto la scalinata, sommergendola. Se si fosse trovato pochi centimetri più in basso, Manfredi sarebbe rimasto sepolto vivo sotto il crollo.

Il fracasso fu assordante, e la nuvola di polvere che si sollevò coprì tutte le cose e rese irrespirabile l’aria.

Tossendo, bianco di calcina, tremante per il dolore e per lo spavento, Manfredi cercò di mettersi in ginocchio.

«Aurora!» urlò. «Aurora!»

La sua voce si perse nel rumore crescente dei crolli e delle vibrazioni. Agli strepiti, si univa anche il rombo misterioso e incessante che continuava a salire dal sottosuolo.

«AURORA!» chiamò ancora, sgolandosi. Sentì le corde vocali sussultare e infiammarsi. Era in preda al panico. L’ultima immagine che gli era rimasta impressa negli occhi, era quella della sua amica e di Daniele che trasportavano la ragazza nel punto che, subito dopo, era stato colpito dal cedimento.

Provò ad alzarsi. Aveva un piede bloccato dalla massa di macerie. Sassi e mattoni gli formavano di fronte una parete dall’aspetto inespugnabile.

Orso uscì dalla polvere, sbucando al suo fianco. Era bianco come un fantasma, sia per lo spavento sia per il pulviscolo della calcina che lo aveva ricoperto tutto.

Era un Orso Bruno, si trovò a pensare Alberto, forse nel tentativo di non perdere il senno in mezzo a quel delirio, e ora è un Orso Polare. Che storia!

«Non può sentirti!» si spolmonò Orso, cercando di sovrastare il frastuono. «Vediamo di toglierci da qui!»

Si chinò e, con uno strattone, gli liberò il piede. Manfredi digrignò i denti. Aveva preso qualche botta di troppo per i suoi gusti, ma non sembrava avere nulla di rotto. Poteva muovere tutte le articolazioni, perlomeno. Senza perdere tempo in accertamenti medici troppo approfonditi, Orso lo aiutò a rialzarsi. A fatica, barcollando e sostenendosi a vicenda, si trovarono fianco a fianco.

Si guardarono attorno.

A dire il vero, era impossibile vedere qualcosa. Le macerie avevano riempito per intero la sala. La polvere creava una foschia impalpabile e impenetrabile. Il buio faceva il resto. Non potevano andare avanti.

«Non possiamo scendere dalle scale!» bramì Orso. «Dobbiamo vedere se c’è un’altra via per uscire!»

Risalirono in fretta le poche scale che avevano disceso. Fecero per gettarsi di corsa lungo il corridoio, quando con la coda dell’occhio ormai abituato all’oscurità, Alberto scorse un guizzo. Un movimento che non aveva nulla a che fare con la casa che continuava a franare su se stessa.

«Guarda!» urlò, indicando da quella parte.

Sophia, anche lei coperta di polvere e con gli abiti stracciati, si stava trascinando a fatica su per i gradini. Perdeva sangue da una ferita alla tempia, ma per il resto sembrava illesa.

«Presto!» gridò ancora il tenente, precipitandosi verso di lei.

«Guarda cosa mi tocca fare, lo sapevo che non avrei mai dovuto aprire quel dannato affittacamere, poi arrivano clienti pazzi che non si accontentano mai di una semplice passeggiata nel bosco…» si lamentò Orso, parlottando tra sé e sé.

Aiutandosi a vicenda per non cadere, i due uomini discesero di nuovo i pochi gradini rimasti liberi dai calcinacci e afferrarono Sophia per la vita e per le braccia. Si scambiarono un cenno d’intesa e la tirarono su.

«Niente di rotto?» chiese Manfredi, dandole una veloce occhiata.

«Non saprei…» mormorò la donna, scossa.

«Lo scopriremo quando saremo fuori, ora non è il momento delle formalità», brontolò Orso.

Senza aggiungere altro, digrignando i denti per lo sforzo, la sollevò di peso e se la caricò in spalla.

«Ehi, posso camminare!» gracchiò Sophia, scalciando inutilmente nell’aria.

«Zitta, vecchia cariatide!» borbottò Orso. Sbuffò. «Pesi come un macigno, poi! Hai mai considerato l’idea di mangiare un po’ di meno?! Un po’ di dieta non guasterebbe!»

«Adagio con le offese, razza di plantigrade miope!»

Barcollando, tornarono un’altra volta in alto, nel corridoio. Alberto aprì la strada. Orso e il suo carico scalciante e lamentoso lo seguirono. A fatica, cercando di tenersi in piedi e riparandosi la testa dai mattoni e da altri pezzi di calcinacci che volavano da tutte le parti, seguirono per alcuni metri il passaggio che immetteva negli altri ambienti della casa.

«Ci sarà bene un’altra scala per scendere di sotto!» grugnì Manfredi.

L’alternativa, lo sapeva fin troppo bene, era buttarsi un’altra volta dalla finestra. E farsi un volo del genere, per la seconda volta in poche ore, non gli andava troppo a genio.

Ma certo è meglio che restarsene qui schiacciati sotto le macerie, pensò.

Per il resto, cercava di concentrarsi solo sul momento. Non voleva pensare a quello che poteva essere capitato alla sua amica. Eppure, l’immagine di lei che correva nell’ingresso un istante prima che franasse tutto quanto continuava a riaffacciarglisi nella mente. Dovette sforzarsi di scacciarla, per non cedere e cadere in preda al panico. Le lacrime minacciarono di sgorgargli dagli occhi.

Figurati se quella non se la cava, si costrinse a pensare.

«Ce la facciamo a uscire, prima che crolli tutto?!» si lagnò Orso.

Da sopra la sua spalla, giunse la voce flautata di Sophia.

«Non sta crollando! Mayer è stato spedito all’Inferno, ma il Signore delle Tenebre è incontentabile e pretende di averne persino la dimora! Sta trascinando nel regno infernale l’intera Villa! E, se non ci sbrighiamo ad andare via, noi saremo trascinati di sotto con essa!»

«Magnifico!» commentò a mezza voce Alberto, sarcastico.

Un sussulto più forte degli altri li rovesciò di lato. Si trovarono a rotolare dentro una porta aperta. Erano di nuovo dentro il grande salone con il caminetto, quello in cui si era consumata la tragica fine di Edith Mayer.

«Ma non ce n’eravamo appena andati, da questo postaccio schifoso?» borbottò Orso.

Sophia, finita poco più in là, si mise a quattro zampe, scrollando la testa per riordinare le idee. Manfredi la imitò. I suoi occhi corsero al soffitto, che si stava letteralmente aprendo a metà. Ogni centimetro della sua superficie era percorso da una ragnatela di crepe che si andava allargando a dismisura. Non c’era la necessità di essere ingegneri per comprendere che, di lì a pochi secondi, anche quella stanza sarebbe stata riempita per intero dai calcinacci crollati.

E loro ci sarebbero rimasti sotto.

Brutta prospettiva.

Bruttissima.

Pessima, anzi.

«Okay!» strillò, fino a sgolarsi. «È destino che ci sia un solo modo per uscire da questo posto!»

Tentò di alzarsi in piedi. Impossibile. Il pavimento ondeggiava troppo per mantenersi in equilibrio sui solo piedi. Fu costretto ad avanzare gattoni, come un neonato. Gli altri si affrettarono a seguirlo, speranzosi che sapesse quello che faceva.

Raggiunsero la vetrata infranta. Dall’esterno penetravano aria fresca e l’umido odore della nebbia. Un qualcosa di rassicurante e familiare, ma che sembrava ancora troppo lontano e irraggiungibile, come un miraggio nel deserto.

«Dobbiamo saltare!» urlò.

«Cosa?!» strepitò Sophia.

«Io soffro di vertigini!» gridò Orso, con voce ancora più acuta della donna.

Manfredi si girò a guardarli. Passò lo sguardo in fretta dall’una all’altro.

«Poche storie e giù!» ordinò.

Reggendosi al davanzale, tutti e tre riuscirono ad alzarsi in piedi. Guardarono in basso, verso l’antico giardino ormai inselvatichito. Sembrava parecchio alto.

Quando quel demonietto mi ha fatto volare fuori pareva più basso, rifletté Alberto.

Alle loro spalle echeggiò uno schianto sonoro e assordante. Il soffitto della stanza aveva cominciato a collassare, dando inizio a una vera e propria pioggia di travi, mattoni, pezzi di cemento, mattonelle e tegole.

«Forza, prima voi!» li sollecitò.

«No, no e no!» si impuntò Orso. «Ho una paura fottuta! Forse c’è un’altra uscita!»

Sophia si voltò a guardare il crollo. Era come osservare una cascata solida di pietra e di polvere che andava cancellando per sempre la sala che aveva visto estinguersi le giovani vite di Edith e di Marta, ma non il loro amore destinato a sopravvivere per sempre. Era l’epilogo definitivo di quella storia durata troppo a lungo.

«Non c’è altra uscita, testone!» strillò.

Detto questo, la donna si allacciò alla vita di Orso e, dimostrando di possedere una forza impensabile per un fisico tanto minuto, saltò fuori dalla finestra, trascinandolo con sé. Lui non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quello che era successo, che già stavano atterrando dentro un cespuglio di oleandro che andò letteralmente in pezzi sotto il loro urto.

Alberto Manfredi li guardò saltare, poi anche lui scavalcò il davanzale e, senza pensare più a nulla e ignorando il battito impazzito del cuore che gli pulsava a livello della gola, si lanciò nel vuoto.

 
   
 
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