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Autore: time_wings    22/01/2023    1 recensioni
[SakuAtsu]
I motivi del litigio tra i gemelli sono ignoti a tutti, nel giro delle corse di auto clandestine, a metà tra folklore e informazioni provenienti da fonti inaffidabili.
Con le sue modifiche, Atsumu è una leggenda, nel giro. Non c'è gara che lui e il suo gruppo non vincano.
Questo, almeno, finché un meccanico misterioso non inizia a tessere le vittorie del gruppo di Osamu dalla sua officina segreta.
Ad Atsumu non resterà che mettere l'orgoglio da parte (impossibile) e infiltrarsi nel garage del meccanico strano, spacciarsi per un incompetente, lasciarsi insegnare e, una volta conquistata la sua fiducia, scoprire tutti i suoi segreti, per impedire che Osamu lo batta ancora.
C'è solo un problema, però. Anzi due, se si tiene conto del fatto che questo meccanico sia semplicemente insopportabile.
La regola è che nessuno può entrare nell'officina di Sakusa.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Koutaro Bokuto, Osamu Miya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Atto secondo_

L’officina nell’armadio si trovava vicino a un parco dominato da un lago artificiale. Nelle mattine serene come quella, se si aguzzavano le orecchie si poteva quasi sentire il fantasma di un gorgoglio – Atsumu non capiva come il tempo meteorologico influenzasse la trasmissione dei suoni, ma forse un cielo terso significava aria più sgombra.
Gli piaceva quel contrasto così come gli piaceva quel divano abbandonato in una strada di campagna. Il rullo dei motori modificati diventava immanente, i prati incontaminati si tingevano delle luci artificiali dei fari e degli inserti estetici delle auto, in una cacofonia multisensoriale da sballo. Forse gli piaceva così tanto perché gli pareva che giustificasse i suoi, di contrasti, che il tormento del suo dualismo si quietasse.
Bussò un paio di volte con le nocche contro le grandi porte già aperte dell’officina regolare. L’uomo baffuto che l’aveva accolto la sera prima scivolò da sotto il ventre di un’auto e osservò Atsumu dal basso.
“Buongiorno!” lo salutò lui, sventolando un anpan e poggiando una mano contro la carrozzeria della macchina a cui stava dando un’occhiata.
L’uomo gli sembrò smarrito per qualche attimo.
“Le ho portato la colazione. Nel caso in cui l’abbia già fatta allora è uno spuntino.” Lasciò il sacchetto sul cofano. Il meccanico fece per alzarsi a sedere, ma Atsumu sventolò una mano. “Non si disturbi, io vado nell’armadio.”
E così fece.
In tutta onestà, tutto quell’essere gentile e portare il cibo per ingraziarsi i meccanici gli faceva venire la nausea. Non gliene poteva fregar di meno. Atsumu era il migliore in quello che faceva ed era fuori discussione che quel misantropo irritante sapesse come funzionava un’auto da corsa meglio di lui. Akaashi era corso ai ripari un po’ troppo in fretta, secondo il suo non modesto parere. Sakusa poteva aver tirato e vinto un gioco troppo ambizioso per le sue reali capacità. La famosa fortuna del principiante. Magari si era trovato per le mani un pezzo già praticamente modificato e aveva mosso un po’ a caso il resto, finendo per partorire qualunque innovazione sconcertante avesse poi consentito a suo fratello di stracciare Bokuto quella notte. Un po’ come un cubo di Rubik risolto per caso.
Tutto questo sogno fantastico di officine nascoste in armadi e giardini con sorgenti scroscianti era pittoresco, ma davvero irrealistico. L’officina di Sakusa portava sì i segni di operazioni fuori dall’ordinario, ma non di operazioni straordinarie. Atsumu era abituato a gente che entrava e usciva dal garage del suo gruppo, piloti che provavano i motori in un angolo dello stanzone sotterraneo, colori sgargianti, capi che mettevano a punto nuove strategie, finanziatori fedeli che si guardavano attorno sedotti prima da una promessa, poi dalla sua avversaria più promettente. E in mezzo a quel caos c’era lui, circondato da progetti vincenti e olio per motori, tra le mani arnesi, grasso e la certezza gustata che, dall’altra parte della città, doveva esserci Osamu con le mani nei capelli e un passo indietro a lui. Quelle erano operazioni straordinarie.
Atsumu era naturalmente competitivo perché era nato per vincere e perché sapeva come fare, perché era antipatico e lo sapevano tutti e questo lo giustificava a fare quello che gli pareva, a essere sicuro di sé al punto da sfociare nell’arroganza, a essere egoista, a dire quello che gli passava per la testa. Ed era esattamente per questo che era la persona più fragile del mondo: perché non c’è posto in classifica più snervante del primo, quando la gara non è ancora finita.
Quindi Kiyoomi Sakusa poteva aver creato l’auto più potente nella storia delle corse clandestine, ma non poteva essere migliore di lui.
Era una fregatura e Atsumu l’avrebbe provato.
Entrò nel garage nascosto come se avesse avuto in mente anche di raderlo al suolo, i pensieri che ancora gli vorticavano in testa in spirali febbrili vicine all’ossessione. Sakusa alzò lo sguardo e in un primo momento parve confuso, poi disgustato.
“Ah,” disse solo, “sei tornato.”
Atsumu sorrise e fece ondeggiare le sopracciglia con fare seducente. “Ti sono mancato?”
“La chiave 6.”
Si fissarono. Sakusa non abbassò lo sguardo e sollevò una mano, il palmo rivolto verso l’alto in attesa. Alla fine Atsumu fece schioccare la lingua e affondò una mano nella tasca dei pantaloni, lasciando poi la chiave accanto al sacchetto di carta che aveva portato con sé.
Gli occhi di Sakusa scattarono su quest’ultimo, le sopracciglia che si piegavano fino a corrugare la fronte. Atsumu lo lasciò alle sue inspiegabili contemplazioni e adocchiò una poltrona che il giorno prima non aveva visto. Questo perché era ricoperta di oggetti che spaziavano da riviste a tute da lavoro, passando per bulloni per ruote e pezzi in più di motori. A dire il vero Sakusa aveva anche un divano, in un altro angolo dell’officina, ma quello sembrava persino più occupato della poltrona. Senza farsi troppi problemi, Atsumu raccolse lo stretto necessario per mettersi comodo e lo depositò ai piedi del suo nuovo trono, poi vi si lasciò cadere sgraziato e una nuvola di polvere e tanfo di stantio si levò dalla seduta.
Sakusa lo aveva ignorato e aveva ripreso a giocare con qualche marchingegno irriconoscibile, a quella distanza. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo e lo divideva diffidente tra Atsumu e il suo sacchetto di carta.
“Guarda che non è veleno,” lo avvertì Atsumu alla fine, raccogliendo le gambe sulla poltrona e continuando a osservarlo muoversi come se in qualche modo lo stesse valutando. “Hai fatto colazione?”
Sakusa gli concesse un’occhiata velocissima, un soffio di vento. “Me ne sono dimenticato.”
“Fortuna che ti ho portato dell’anpan.”
Il ragazzo annuì. “Dove l’hai preso?”
“Una pasticceria qui vicino.”
“Quindi non è confezionato?”
Atsumu a questo punto affondò nella poltrona, perché per farvi entrare sopra le gambe e inclinare il viso verso la spalla per guardare confuso Sakusa si finiva a fare inaspettate manovre. Pensò, ma è serio? e poi pensò che forse Akaashi stava perdendo colpi a vista d’occhio, forse il piano era trapelato di sussurro in sussurro ed era arrivato fino a suo fratello, che aveva deciso di mettere su un’enorme messinscena con Sakusa come protagonista per esasperare Atsumu e portarlo alla disperazione. “No,” fu l’unica risposta che la sua perplessità gli concesse e, per uno che aveva sempre la risposta pronta, quello era un altro colpo incassato. “Non va bene?”
“No.”
Ah. Be’. “Ho dei mochi, però,” disse Atsumu, ripescando dalla tasca della sua giacca a vento un paio di dolci confezionati che si era portato da casa con l’intento preciso di gustarli a pranzo, tra un furto di un’altra chiave 6 e un altro tentativo di ottenere una routine con quello scoppiato.
“Non sono i tuoi?”
Atsumu lo guardò. Quel ragazzo era un mistero perché non sembrava dispiaciuto o intimidito all’idea di appropriarsi dei suoi mochi, pareva quasi che stesse prendendo la sua offerta come un gesto molto stupido, come se Atsumu avesse raccolto mille yen da terra e fosse così ingenuo da regalarglieli senza neanche contrattare. Scosse il capo. “No, guarda, a me non frega un cazzo, mi posso pure mangiare l’anpan.”
Per qualche ragione, si aspettava che Sakusa sussultasse al sentire la parolaccia, invece lo guardò soltanto per qualche attimo, poi annuì.
Atsumu si tirò su e si avvicinò al tavolo da lavoro coi mochi. Non ottenne alcun grazie. Sakusa lo guardò. Un po’, un attimo, i suoi occhi due gocce di inchiostro pronte a rivelarsi acquerello se sposate a dell’acqua, poi con un gesto perfetto si sganciò la mascherina da un orecchio e Atsumu realizzò che non l’aveva mai visto in faccia.
Era molto meno macchia e molto più coetaneo, il labbro inferiore era rosso e sporgente, come se fosse stato abituato a morderlo mentre lavorava. Tremò appena assieme al mento quando disse, la voce un filo: “questo è un silenziatore.”
Atsumu sapeva benissimo cosa fosse un silenziatore, ma detto da lui sembrava una parola diversa, un concetto astratto. Realizzò che gli stava guardando ancora le labbra, quindi alzò in fretta lo sguardo nel suo. “Mi stai insegnando?” domandò incredulo.
“Ti sto ringraziando. Non voglio debiti.” Indicò un grosso cilindro di latta. “È un silenziatore. I motori tradizionali espellono vari gas di scarico dopo la combustione, ma nel farlo fanno rumore. I silenziatori risolvono il problema del rumore, ma riducono il potere del veicolo. È il motivo per cui le macchine da corsa sono molto rumorose. La modifica illegale più semplice per un tuner è sottrarre il silenziatore a un motore.”
Atsumu si sporse sul tavolo per dare un’occhiata. Quando lo fece, Sakusa arretrò di un passo. Atsumu lo guardò, sembrava un gioco di intuizione e confini tra un umano e una volpe selvatica. Indietreggiò e Sakusa prese un solo, impercettibile, respiro più profondo. Atsumu pensò che dove aveva visto solo seccatura forse c’era anche disagio, che erano le due facce di una sola patina che ci si doveva allenare a interpretare. Per qualche ragione, lo investì un’ondata di euforia. C’era qualcosa che stava a metà tra lo sbarramento nei suoi occhi e l’esitazione sulle sue labbra che gli fece venir voglia di testare i suoi limiti, sapere quanto poteva avvicinarsi senza costringerlo a scappare e quanto questi confini erano trattabili.
Sakusa deglutì e Atsumu seguì il percorso del suo pomo d’Adamo.
“Hai capito?”
“Gas di scarico. Rumore. Silenziatore. Auto meno potente.”
“Sì. Impari in fretta.”
Atsumu sorrise. “Io. Sono. Velocità.”
Lui alzò gli occhi al cielo. “C’è un problema. Non si può rimuovere il silenziatore e basta. Stressando la macchina, cosa che avviene quando si compete, il rilascio di questi gas senza silenziatore provoca una fiammata. Hai detto che impari in fretta, no?”
Queste erano le scuole elementari per motori. Ovviamente Atsumu imparava in fretta. Annuì.
“Non posso starti dietro, devo modificare un’altra auto in tempi stretti e la tua ignoranza sarebbe una zavorra. Non posso spiegarti tutto quello che faccio passo per passo.”
“Delicato.”
“È la verità.” Atsumu era il paladino della verità. Era bravissimo a dirla quando questa era un insulto, era bravissimo a ometterla tutto il resto del tempo. La verità di Sakusa era una stronzata. “Visto che impari così in fretta, trova un modo in questi cinque giorni prima della gara per rimuovere il silenziatore a questo motore senza ripercussioni sulle prestazioni. Se ci riesci ti insegno, altrimenti non ti fai più vedere.”
Jackpot. Ad Atsumu scappò un sorriso. “È una sfida, Omi?”
“Io inizierei subito, se fossi in te.”
Atsumu scrollò le spalle e afferrò il suo motore tra le braccia. Arpionò con un piede un carrello lì vicino, lo avvicinò a sé e scaricò il peso sulla sua superficie, poi si scostò i capelli dalla fronte e accennò con la testa al pacchetto di mochi fermo ancora sul tavolo da lavoro di Sakusa. “Ricorda la colazione.”
 
ᆞᆞᆞ
 
La vita si incagliò di colpo su una nuova routine.
I giorni assunsero una cadenza che era scivolata troppo facilmente in abitudine. Atsumu si svegliava, passava per il garage della sua squadra solo se aveva qualche modifica urgente da fare, istigava Bokuto a fare cose stupide per un po’ e rideva dei rimproveri che riceveva in cambio quando travolgeva qualcuno nell’impresa, poi faceva un salto al conbini per raccattare dolci rigorosamente confezionati e infine guidava fino al garage di Sakusa.
Ogni volta aveva la sensazione di raggiungere i confini di un mondo diverso. Non necessariamente migliore, nella sua così invitante ma sgranata presentazione bucolica, semplicemente diverso. Ogni volta aveva anche la sensazione di poterli solo sfiorare, questi confini, con in mano un biglietto per un paese nuovo che gli era concesso di ammirare solo in bilico sulla frontiera.
Atsumu era così abituato a pensare di non avere limiti che ormai era confinato in un contorno, una sagoma, come una coccinella messa davanti a una linea di penna rossa.
Il lato positivo era che adesso i suoi rapporti col meccanico baffuto erano… amichevoli. Comunque più amichevoli di quelli che aveva con Sakusa, il che la diceva lunga su tutti e tre.
L’uomo tollerava la sua presenza e anzi la accoglieva a ogni prelibatezza regalata un po’ di più, tanto che Atsumu iniziava a convincersi che dovesse esistere un limite di dolci oltre il quale gli avrebbe direttamente dato in sposa la figlia. Figlia che, per inciso, aveva perché per l’appunto Atsumu ormai ci stava facendo amicizia e sapeva che si chiamava Yoko e lavorava in un’azienda che produceva acetone.
“Mochi al mango,” esordì Atsumu, entrando nell’officina nell’armadio e sventolando la busta con i dolci.
Omi alzò la testa e si tolse la mascherina. I suoi capelli seguirono quel movimento con una gentilezza tale che pareva rispondessero alle regole gravitazionali della luna. “Ma ogni giorno cambi gusto?”
Un’altra cosa che Atsumu stava imparando in quel tempo era il linguaggio ermetico del suo target fuori di testa. Esisteva a volte un sottile strato di divertimento simile a condensa, in quella distesa di seccatura che propinava a chiunque gli rivolgesse la parola. Più gli portava i mochi, più riconoscerla diventava facile. Atsumu sorrise, perché in qualche modo aveva la sensazione di batterlo ed era come sbattergli in faccia un premio appena impugnato. “Il conbini ne ha un sacco, ho deciso che li devi provare tutti.”
Sakusa tornò al lavoro e scrollò le spalle. “Come vuoi.”
“Perché, sei allergico a qualcosa?” Atsumu camminò disinvolto verso di lui, come se finirgli accanto fosse un inciarmo del destino.
“A te sicuro,” disse Sakusa, scostandosi man mano che Atsumu si avvicinava.
Lui non si lasciò intimidire. Gli si mise proprio alle spalle, allungò un braccio per poggiare la busta al lato del pezzo su cui Omi stava lavorando con disinvoltura, ma pareva quasi un abbraccio. Inclinò il viso su un lato ed evitò apposta il suo sguardo, focalizzandosi invece sulla modifica del giorno. D’altronde era multitasking: poteva flirtare e indagare allo stesso tempo. Sentì gli occhi di Sakusa su di sé, quindi ricambiò. Contro ogni aspettativa, non era arrossito, non stava timidamente esaminando la natura di quella tensione, non si stava agitando imbarazzato sulla sua sedia, ma lo studiava.
Ops, pensò Atsumu. Forse si era mostrato un po’ troppo interessato ai fatti di Sakusa.
“Che stai facendo?”
Atsumu gli guardò le labbra un attimo di troppo. “Recapitavo i mochi.”
Sakusa scosse il capo e accennò con un dito al cimitero di ferraglia sul suo tavolo. Non ruppe mai il contatto visivo. “Non quello.”
Sarebbe stato carino sentire Sakusa parlare per un numero di sillabe superiore a quello di un haiku, ma evidentemente era chiedere troppo e comunque aveva il brutto vizio di capirlo lo stesso. Atsumu scrollò le spalle. “Prendo ispirazione.”
Gli occhi di Sakusa vagarono per qualche altro secondo sul suo viso, sospettosi. Se Atsumu fosse stato una persona normale avrebbe iniziato a sudare a profusione, ma lui non era un persona normale. Quando si passava tutta la vita a mentire, omettere e mentire sul fatto che omettere non fosse mentire si finiva a volte per perdersi, essere così abituati a spararle grosse guardando gli altri in faccia che faceva poca differenza se la faccia che si guardava era quella di un poliziotto o quella riflessa nello specchio. I migliori bugiardi non mentivano neanche più, perché bisognava possederla, una verità, per poterla stravolgere. Quindi Atsumu non sudò a profusione, si rese appena più illeggibile e, per il momento, Omi sembrò gettare la spugna. “È un sollievo sapere che prendi ispirazione da questo, visto che non è neanche un motore. Tra due giorni smetterò finalmente di vederti ogni mattina.”
Ah, giusto. Quando Sua Altezza gli concedeva più di un haiku di solito era un insulto. “Non sperarci, sono a buon punto.” Atsumu gli rubò una chiave inglese con una facilità che lo fece quasi impietosire, poi si avviò alla sua postazione di fortuna e al suo motore sacrificale. “E poi so che sto iniziando a piacerti.”
Sakusa non disse niente.
“Chi tace acconsente.”
Ma Sakusa proseguì nel suo silenzio e ad Atsumu non restò altro da fare che mettersi al lavoro.
Tra i vari incarichi che gli erano stati affidati nel tempo, quello era decisamente il più impegnativo. Per quanto andasse in giro a dire di essere il migliore esemplare di essere umano mai messo al mondo – e di solito lo provava prendendo Osamu come esempio – erano veramente poche le cose che sapeva fare. Una di queste però era il tuning. Chiedergli di metterci cinque giorni a rimuovere un silenziatore era come chiedere a un pesce di annegare, a un usignolo di stonare: era difficile oltre che noioso. Al limite dell’insostenibile.
“Omi, se volessi testare il motore e la questione della fiammata…” iniziò, dopo un’oretta di falso lavoro matto e disperatissimo.
Sakusa si piegò per recuperare un cacciavite dalla base del suo sgabello. Buttando un occhio su ciò che aveva sul tavolo, Atsumu si domandò cosa avesse intenzione di smontare. Si appuntò mentalmente di seguire il percorso di quei componenti per studiarne le modifiche. “Ci sono delle macchine su cui testo le modifiche.”
Grazie al cazzo, genio. Atsumu annuì, dubitando ancora una volta del talento di Sakusa. “Dove?”
Omi tornò dai meandri del suo sgabello e lo considerò con diffidenza. Abbandonò il cacciavite sul tavolo da lavoro e, con calma, si risistemò la mascherina sul viso. Atsumu non aveva ancora capito il criterio con cui la metteva e la toglieva. “Sono il tuner migliore in circolazione.” Ancora con i primati. Detestò l’obiettività con cui lo disse. “Come credi che escano le auto che modifico da qui? Dall’armadio?”
Quel sarcasmo se lo poteva ficcare su per il culo, onestamente. Atsumu ci aveva pensato, al fatto che la sua magica officina segreta non aveva sbocchi esterni, ma aveva immaginato che trasportasse i componenti ultimati in quella del vecchio baffuto e li assemblasse alla fine. Sakusa comunque non aspettò una sua risposta.
“C’è un garage sotto questa officina, collegato a una strada che dà sul parco qui vicino, non so se l’hai notato.”
Allora la visione bucolica era inquinata! Atsumu provò un inspiegabile moto d’orgoglio che non poté esternare, sia per la sua natura insensata che per il fatto che per qualche ragione pareva un’ammissione del suo doppiogioco. “Possiamo andarci? Così vedi anche se sto andando bene.”
“Ti ho detto che non ti aiuto.” Veramente non l’aveva mai detto. Sakusa si alzò e si diresse all’angolo sinistro dell’officina. “Io non tifo per te.”
“È un piacere avere il tuo supporto.”
“Non ce l’hai,” disse lui, spostando una serie di carrelli da vicino la parete e rivelando la doppia porta di un ascensore pittato di bianco.
“Lo so, Omi, si chiama ironia.”
L’ascensore era grande almeno il doppio di un ordinario ascensore di condominio e aveva una porta di ferro a rombi sul lato opposto a quello da cui erano entrati. C’era spazio a sufficienza per trasportare una persona e uno dei tanti carrelli che Sakusa usava come tavoli da lavoro, pieni di budella di auto di vario genere. La pavimentazione ruvida lo confermava con fantasmi di strisce lasciati dalle ruote e gocce di olio asciutte. Il viaggio si interruppe bruscamente dopo qualche secondo. Sakusa fece scorrere la porta, che sferragliò rumorosamente sui binari, poi mosse un passo nel buio denso del garage sotterraneo. Si arrestò di colpo e si voltò. “Non devi toccare niente.”
“Me lo dici almeno sei volte al minuto, Omi.”
“Dico davvero.”
Atsumu sospirò. “Me lo dici sempre davvero.”
“E tu non mi ascolti mai.”
“Allora dacci un taglio e basta.”
Sakusa sospirò e poi scivolò nel buio, lasciandosi un ‘seguimi’ attutito alle spalle.
Atsumu restò perplesso per qualche secondo, avvolto dal ronzio della lampadina dell’ascensore sopra la sua testa. Questo mi ammazza, pensò. Forse suo fratello e la sua banda erano in agguato dietro qualche macchina, armati di mazze da baseball e pali arrugginiti di ferro. Sinceramente, non sapeva se ne sarebbe stato capace.
“Che stai facendo?” Sakusa si girò. I suoi capelli si confondevano nell’oscurità, ma il tono seccato era lo stesso di sempre. In qualche modo ormai gli era diventato familiare.
Atsumu cominciò ad avvicinarsi a lui. “Che sto facendo?” la sua voce prese profondità ed eco, un vento freddo soffiava da qualche parte alla sua sinistra. “Questo posto è inquietantissimo, non ce l’hai una luce?”
Sakusa sbuffò. Se non fossero stati al buio e non avesse indossato una mascherina, Atsumu sarebbe stato certo che quella fosse una risata, invece gli rimase il dubbio. “Ovviamente.” Sakusa abbassò una leva su un pilastro che Atsumu aveva notato il giusto per non sbatterci contro, poi il garage si illuminò in successione. I led cominciarono a vibrare e ronzare.
“Wow,” riuscì solo a sussurrare Atsumu.
Quello non era un garage, era una miniera d’oro. La stanza era composta da quattro pilastri dipinti alla base di rosso, ma il centro era sgombro se non per alcuni gruppi di auto nei due angoli più vicini a loro. La varietà e l’assortimento erano da far girare la testa. Catorci che non potevano avere più di due milioni di anni erano parcheggiati di fianco ad auto da corsa dalla carrozzeria sgargiante. Gomme nuove di zecca sostavano in bilico accanto a ruote senza copertoni. Attraverso i finestrini non oscurati delle auto più nuove, Atsumu riusciva a distinguere volanti in pelle dai colori più disparati e solo il pensiero di poterne sentire l’odore gli fece venire le ginocchia molli. Registrò distrattamente lo sguardo di Sakusa su di sé.
“Ancora inquietante?” domandò lui. Atsumu lo odiava, ma in quel momento apprezzò il tempo che gli aveva lasciato per ammirare quello spettacolo.
“Sto per avere un orgasmo, Omi.”
Lui sospirò, se aveva avuto l’occasione di instaurare un legame con Sakusa l’aveva persa in quel momento. Gli mise due dita tra le scapole e lo accompagnò accanto a una delle auto-catorcio. Il 60% della carrozzeria era arrugginito, il resto era di un rosso ingiallito dal tempo e l’usura. “Puoi provare il tuo motore su questa.”
“Che mi dici di quella laggiù?” Atsumu indicò un gioiellino verniciato di un arancione metallico favoloso. Se ci avesse messo sopra le mani l’entusiasmo avrebbe fatto saltare la sua copertura senza ombra di dubbio e non gli sarebbe dispiaciuto neanche un po’, ma Sakusa era Sakusa.
“Non ci pensare neanche. Non so dove hai sentito che sono il tuner migliore della mia generazione, ma immagino tu abbia un’idea di cosa fanno queste auto.”
“Stai lavorando su quella, adesso?”
Sakusa annuì distrattamente, sistemandosi la mascherina.
“Quello per cui lavori si arrabbia se qualcuno tocca la sua auto?” Atsumu era molto sicuro di sé, ma con Sakusa iniziava sempre più ad avere la sensazione di star cadendo in qualche trappola. Tanto valeva controllare che le informazioni di Akaashi fossero corrette, giusto per scrupolo. Osamu era pur sempre suo fratello gemello: se Sakusa l’aveva visto era arrivato il momento di scappare.
“Io non lavoro per lui, gli faccio solo un piacere.”
“Perché? Siete amici?”
Sakusa scosse la testa. “Non lo conosco, non viene lui a prendere le auto per le gare, ma qualcuno del suo gruppo. Lo faccio perché è uno dei piloti migliori e voglio che le mie modifiche vengano testate al massimo delle loro potenzialità.”
Ambizione. Almeno questo lo rispettava. “Frequenti l’ambiente?”
“No, mi piacciono solo le auto, non le corse.”
Atsumu sorrise. “Troppa gente?”
Sakusa si strinse nelle spalle.
“Come sai che è il migliore, allora?”
“Tu come sai che io sono il migliore?”
Il neon sopra le loro teste gracchiò. Atsumu sorrise, come se avesse dovuto vendergli qualcosa che non gli serviva affatto, ma di cui poteva convincerlo senza sforzo. Sollevò una mano davanti alla sua faccia e solo allora si rese conto di quanto fossero vicini. “Ognuno ha i suoi segreti,” disse, poi pizzicò la mascherina all’altezza del naso e gliela tirò giù.
Sakusa indietreggiò di scatto e se la rimise a posto.
“Quindi,” Atsumu appoggiò con disinvoltura una mano sul cofano dell’auto sgangherata che Sakusa gli aveva offerto, “chi è il tuo capo?”
Non sembrava infastidito. Se l’aveva letto bene, a Omi non fregava nulla della lealtà, avrebbe implicato un senso di appartenenza che ci teneva a negare. “Osamu Miya. Prima si modificava le auto da solo, ho dei…”
Sakusa affondò le mani in un’auto mezza aperta non lontana da lui e ne cavò fuori dei pezzi su cui Atsumu poteva distinguere alcune incisioni.
“componenti che ha firmato lui, ai tuner piace lasciare firme, che siano specifici materiali o intagli. Però altri…”
Immerse ancora le mani nella stessa auto. Atsumu non ebbe bisogno di esaminare il nuovo pezzo per più di un secondo.
“Mi hanno detto che sono del fratello. Non so chi sia, però il suo stile mi piace di più, anche se è sempre a un passo dal creare componenti geniali. Il fatto è che si ferma prima.”
Atsumu sollevò un sopracciglio. “Hai modificato i suoi pezzi?”
“Sì, ho aggiunto quello che mancava.”
Al diavolo la presunzione, Atsumu provò un istinto irrefrenabile di strappargli quel pezzo dalle mani e vedere che ci aveva fatto, qual era la parte geniale che non aveva visto. “Osamu Miya corre coi pezzi del fratello che hai modificato tu?”
Sakusa sembrò pensarci su. Si guardò attorno come a prendere ispirazione per le sue prossime parole. La conversazione lo stava stancando, Atsumu non sapeva come lo sapeva, ma lo sapeva. “Diciamo che riciclo quello che posso. Nelle auto con cui vince ci sono pezzi miei, suoi e del fratello.”
Quella questione alla Frankenstein gli mise i brividi. Atsumu non avrebbe mai voluto che alcun pezzo di sé fosse chiuso assieme a suo fratello e Sakusa, ma tant’era, queste erano le conseguenze del loro litigio. Indicò una strada appena inclinata in salita che dal garage si perdeva di nuovo nel buio. “Quella porta all’uscita nel bosco?”
“Mh-mmh” Sakusa si torse le mani e si toccò la mascherina, come se avesse quasi desiderato non averla solo per rimetterla. “La macchina è quella. Spostala, prima di accenderla, altrimenti mi bruci le altre. Io torno sopra,” disse avviandosi all’ascensore, improvvisamente sbrigativo.
Atsumu gli corse dietro, raggiungendolo facilmente. Rispose allo sguardo interrogativo di Sakusa con una scrollata di spalle. “Devo prima prendere il motore.”
“Giusto,” osservò Sakusa, guardando Atsumu chiudere la porta di ferro.
Davvero, non capiva perché di colpo fosse così a disagio.
 
ᆞᆞᆞ
 
Due giorni dopo, Atsumu rubò un mochi dal pacchetto di Sakusa mentre era distratto e lanciò un’occhiata diffidente al motore che aveva quasi finito di modificare. Contrariamente alla sicurezza che ostentava, sapeva essere un tipo paranoico. Forse perché pensava troppo, forse proprio perché essere i migliori comportava una serie di attenzioni collaterali in più.
“Vado di sotto a testare il motore un’ultima volta,” avvertì Atsumu, già trascinando il suo tavolino da lavoro verso l’ascensore.
Sakusa giocherellò con la punta piatta di un cacciavite a taglio e si morse il labbro inferiore, poi alzò gli occhi su di lui. “È l’ultimo controllo, poi devi andartene, la gara è stasera.” Se avesse mostrato anche un accenno di piacere nell’essere antipatico, Atsumu l’avrebbe apprezzato di più, l’avrebbe capito, ci si sarebbe rivisto, addirittura. Invece parlava come se camminasse a un metro da terra, pratico nella monotonia di un tono che non ammetteva repliche.
“E quando lo valuti?”
“Torna domani, se ti fa piacere essere cacciato.”
Atsumu rise e spinse il carrello con il suo motore nell’ascensore. “Oh, Omi, puoi dirlo, che speri di vedermi anche domani.” Quando le porte dell’ascensore si richiusero e questo cominciò a scendere con uno scossone, il sorriso sornione di poco prima gli scivolò dalla faccia come una maschera. Fece scorrere la porta di ferro che portava al garage e si diresse marciando verso la colonna con l’interruttore, come aveva fatto nonstop il giorno prima e quella mattina. “Brutto bastardo,” mormorò tra sé, tirando in basso la leva e ammirando ormai distrattamente quel cimitero di auto quiescenti. Si avviò al suo catorcio in automatico, inserendo il motore che aveva modificato per l’ennesima volta e trascinando a mano la macchina al centro del garage. Si piegò nell’abitacolo e l’accese. Fiamme.
Il fatto era questo: Kiyoomi Sakusa era uno stronzo, un incubo con troppe mascherine.
Atsumu aveva quasi finito di completare il suo lavoro mediocre la sera in cui aveva visto il garage sotterraneo di Sakusa e aveva messo in conto di concludere la mattina successiva e consegnare il lavoro in anticipo come un bravo studente volenteroso, se non fosse stato per l’imprevisto che l’aveva investito il giorno prima, proprio quando aveva iniziato a ultimare quell’opera scarsa.
Il motore era truccato.
Un problema che un professionista come lui sarebbe stato in grado di aggirare in cinque nanosecondi, ma che un novellino non sarebbe stato capace di riconoscere neanche se gli fosse stato fatto notare con tanto di cerchi colorati e diapositive.
Era una dannata tragedia. Se avesse messo a posto comunque il motore, il suo lavoro avrebbe smesso all’istante di essere considerabile mediocre e sarebbe passato direttamente per brillante. Se invece si fosse limitato a consegnare l’opera così com’era, la rimozione del silenziatore avrebbe portato a una fiammata inevitabile e Atsumu non avrebbe superato il test. Aveva passato l’ultimo giorno e mezzo a cercare una soluzione che fosse un compromesso tra competenze straordinarie e fortuna del principiante, ma non c’era verso.
La parte peggiore era che non riusciva a capire se Sakusa l’avesse fatto per levarselo dai piedi o se invece sapesse tutto e avesse intenzione di smascherarlo. Procurarsi un nuovo motore non era un’opzione: Omi sapeva che c’era un trucco.
“Davvero un bastardo,” mormorò.
Alla fine Sakusa era un genio.
 
ᆞᆞᆞ
 
“I pezzi principali sono miei, non di ‘Samu.”
Akaashi aveva la faccia di uno che aveva troppi grilli per la testa, ma Atsumu pensava che se ne meritasse uno in più, un po’ perché ce l’aveva ancora con lui per averlo punito per non aver assistito alla fatidica gara che avevano perso, un po’ perché Atsumu comunque amava peggiorare i danni altrui, quando possibile. “Sei stato lì quasi una settimana e questo è tutto ciò che hai scoperto?” Akaashi tenne gli occhi fissi sulla pista in preparazione.
Da qualche parte si sentivano chiaramente le urla eccitate di Bokuto, il che era notevole visto che era molto più lontano di quanto la sua voce lasciasse intendere.
“Guarda che non è scontato. Comunque è un tipo strano. E intendo davvero strano.”
“Da che pulpito,” disse una voce. L’anima di Atsumu per poco non schizzò nella stratosfera dallo spavento. Kenma aveva questo orribile vizio di apparire alle spalle degli altri. Sospettava che un po’ si divertisse a far così.
“Da che pulpito arriva il ‘da che pulpito’.”
“Atsumu.” La voce di Akaashi era calma e controllata, le braccia conserte e gli occhi sempre fissi sulla pista, se non per un leggero fremito di irritazione nelle sopracciglia. “Una settimana e tutto ciò che sai è che questo meccanico riutilizza pezzi tuoi e che è un tipo strano?”
Un ragazzo di cui non ricordava il nome lo salutò con un’alzata di sopracciglia, gli lasciò una pacca su una spalla e andò via. Atsumu diede adito a quella abitudinaria sequenza di gesti ma nel frattempo mormorò nell’orecchio di Akaashi: “Ti ricordo che non fa entrare nessuno nella sua officina, ho dovuto sostenere un test per guadagnare la sua fiducia e domani verrò a sapere se l’ho superato.”
Akaashi e Kenma si scambiarono un’occhiata. “Ma tu non fai il meccanico?” domandò Kenma.
“Non è così semplice, mi ha messo i bastoni fra le ruote.”
I ragazzi si scambiarono un’altra occhiata, sembravano essere giunti alla conclusione che la sua sanità mentale fosse irrimediabilmente compromessa, il che non era poi troppo distante dalla realtà.
“Però stasera sono riuscito a dare un’occhiata alla sua ultima modifica, mentre lavorava,” Atsumu sorrise, proprio mentre Osamu e Bokuto entravano negli abitacoli delle rispettive auto, guardandosi in cagnesco. Un bagliore rosso lasciò il posto alla luce verde che segnava l’inizio della corsa. “Questa volta perdiamo.”
Akaashi lo guardò di sottecchi, attese che il rombo delle auto in partenza si affievolisse. La gara cominciò. “Dobbiamo perdere per forza?”
Per lunghi minuti, nessuno parlò.
Alla fine Atsumu si strinse nelle spalle. “Con quello che ha Osamu nel cofano può vincere anche un bambino. Questo non è uno scontro tra piloti.”
La macchina arancione di Osamu gli sfrecciò davanti, alzando un vento freddo. Urla di festa esplosero nel gruppo che lo aspettava all’arrivo.
“È uno scontro tra tuner.”
Suo fratello uscì dalla macchina travolto da scuderia e spettatori, ma trovò il tempo di voltarsi verso Atsumu. Sollevò due dita e un angolo della bocca. Due vittorie.
Atsumu si chiese se avesse scelto la modifica giusta, per il motore. Quasi riusciva a immaginare Sakusa avvolto nella luce soffusa della sua lampada da scrivania, lontano da tutto quel mondo di velocità e scommesse. Osamu pensava che stesse prestando attenzione a lui, ma la verità era che non riusciva a smettere di guardare la macchina. Forse Omi stava dando un’occhiata al risultato del suo test, forse lo stava valutando in quel preciso istante. Atsumu di solito le persone le amava o le odiava, per quanto gli venisse facile averci a che fare. Quando erano stimolanti, però, la curiosità superava amore e odio e quasi lo divorava. “Quanto cazzo è strano, quel tipo.”
“Tsum Tsummm.” Bokuto gli saltò addosso dal nulla e si appese al braccio, avvilito. “Io ho spinto come mi hai detto.”
“Lo so, Bokkun,” Atsumu diede due pacche alla mano con cui Bokuto si era aggrappato. “Lo so. Questa è l’ultima volta che ti faccio perdere.”
A quanto pareva Kiyoomi Sakusa aveva iniziato ad accendere la sua curiosità.
 
 




 
NotEl: salveee, arieccoci. Qui per dire che questa storia nasce come una cosa unica, una mega one-shot, per intenderci, quindi la lunghezza dei capitoli ne risente e ne risentirà (questo conta tipo una cosa come duemila parole in più allo scorso). In realtà è già un miracolo che ci siano vari punti tattici per spezzare, in modo da ottenere capitoli accettabili. Mi dispiace anche che sembri metterci un po' a carburare (;)) ma OH, io l'avevo detto che era un esperimento E POI c'è bisogno c'è bisogno, si deve.
Graaazie per aver letto fin qui, ci si vede presto addio addio!

 
   
 
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