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Autore: Traumerin_    31/01/2023    4 recensioni
Dopo anni passati a cercare di ricucire la ferita lasciata dalla partenza di Magnus, Alec può finalmente godere del nuovo equilibrio che è riuscito a raggiungere: lavora come avvocato presso la Penhallow Fell, ha una relazione stabile con un uomo e le sue giornate sono piene dei sorrisi e dei pasticci di suo figlio.
Ancora non sa, mentre il passato avanza insidioso nelle crepe della sua felicità, che Magnus sta facendo ritorno a New York, animato dalla necessità di recuperare il tempo perso con il suo piccolo Max – e pronto a sconvolgere qualsiasi armonia.
Convinti di doversi disporre su fronti nemici, Alec e Magnus saranno costretti ad accantonare le ostilità per affrontare un ostacolo che non avrà pietà delle loro intenzioni – e se nel percorso decideranno di tenersi la mano o continuare guardarsi con disprezzo, dipenderà solo da loro.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Max Lightwood-Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tutti i nodi vengono al pettine.
 
CAPITOLO DUE
Ad un passo dalla verità
 
«Questa mi è nuova.»
Che Clary entrasse proprio nell’istante in cui Alec e Jace avevano deciso di gettarsi in un’infantile lotta mattutina, nessuno dei due avrebbe mai potuto prevederlo – di trovarli a rotolarsi mezzi nudi sul letto, non avrebbe mai potuto immaginarlo lei.
«Amore!» esclamò Jace, balzando giù dal materasso «Vedi, posso spiegarti, io e Alec…» farfugliò, portandosi una mano tra i capelli «Non posso più nascondertelo, Clarissa, noi ci amiamo!»
Alec, ancora steso sul letto, si aprì in una risata sguaiata e lanciò un cuscino sulla schiena del fratello, mentre Clary si limitava a roteare gli occhi e rivolgere uno sguardo esasperato al ragazzo.
«Ora si spiegano molte cose» concordò lei, reggendogli il gioco.
Alec ricordava che, in quel periodo adolescenziale in cui aveva creduto d’avere una cotta per Jace, Clary fosse diventata inconsapevole vittima di tutto il suo biasimo, colpevole d’aver calamitato la totale attenzione di suo fratello.
Crescendo, aveva capito d’aver fatto una grande confusione su tutti i rapporti che aveva allacciato con le persone attorno a sé, riuscendo a distinguere chiaramente l’affetto che lo legava a Jace dalla tremenda sbandata che s’era preso per quello stilista stravagante.
Dove un tempo vedeva un’acerrima nemica, adesso c’era soltanto una delle migliori amiche che avesse mai avuto. La gelosia che provava nei suoi confronti s’era trasformata in bene fraterno, avvicinandola a quanto di più simile esistesse ad una sorella per scelta.
«Sapevo che avresti capito, sei la migliore» ammiccò Jace, infilandosi una maglietta.
Gli occhi verdi di Clary si posarono sulla figura di Alec «Insomma, guardalo» disse, portandosi teatralmente una mano sul cuore «Come potrei mai competere con un tale ben di Dio?»
Il biondo perse immediatamente il sorriso «Ehi» l’ammonì, puntandole un dito contro.
La ragazza si lasciò andare da una risatina divertita «Noi stiamo uscendo, vi ho lasciato la colazione in cucina.»
«Clary, lo sai che non devi sentirti in obbligo di cucinare solo perché dormi qui.»
«Jace, da quando tu puoi dirmi cosa devo o non devo fare?»
Jace mise su una smorfia indispettita «So preparare una colazione senza mandare a fuoco la cucina.»
«Sì, come i tuoi fratelli» lo sbeffeggiò Clary «Datevi una mossa, è già mezzogiorno» li rimbrottò, lasciandoli soli.
«Ventiquattro anni e si fa preparare la colazione dalla fidanzatina» lo derise Alec, alzandosi e rubando una tuta dal suo armadio.
Il fratello gli lasciò uno scappellotto sul capo mentre uscivano dalla stanza di Jace e percorrevano la scalinata.
In soggiorno, con il corpo stretto in un abito chiaro e i capelli scuri lasciati lisci sulle spalle, sua madre era impegnata nel solito frettoloso controllo della borsa.
«Mamma» richiamò la sua attenzione «Esci anche tu?»
«Isabelle ha organizzato una giornata per sole donne» rispose, cercando di abbassargli quei capelli proprio indisciplinati «So che tuo padre ha insistito per portare Max allo spettacolo di burattini al parco. Da quando è diventato nonno non lo riconosco più» ridacchiò, divertita dal drastico cambiamento del marito.
Alec scosse la testa, consapevole che passare del tempo a casa significasse anche vedere suo figlio venire conteso tra i suoi familiari in una gara per conquistarsi il titolo di nonno o zio preferito – in un compiacimento di vizi e capricci che poi spettava a lui ridimensionare.
«Ci abbandonate, quindi?» ironizzò, sottraendosi gentilmente al suo tocco – e ringraziando mentalmente sua sorella, certo che avesse architettato tutto per lasciargli il giusto spazio.
Maryse incrociò le braccia al petto «Non eravate voi a lamentarvi di non essere trattati come adulti?»
«Tranquilla, mamma» intervenne Jace «Ce la caveremo.»
Lo sguardo di Maryse si riempì di adulazione nel posarsi su Jace, il figlio che non aveva partorito ma che aveva sempre ritenuto tale.
Quando i genitori di Jace avevano perso la vita in un incidente, i coniugi Lightwood non avevano esitato nel firmare le carte per l’adozione di quel bambino rimasto orfano, già considerato parte del loro nucleo grazie alla profonda amicizia che aveva sempre unito le due famiglie.
«Non fatemi pentire di avervi dato fiducia» sospirò Maryse, rassegnata alla complicità dei fratelli.
«Com’è che con Jace sei un tesoro e con me no?» la punzecchiò Alec, volendo evitare ulteriori domande su come avessero trascorso la serata.
«Alec» lo ammonì la donna, fulminandolo con i suoi occhi blu «Quante volte devo ripeterti che una madre non può avere preferenze?»
«Anche papà dice di non avere preferenze, ma intanto Izzy non si becca neanche la metà delle punizioni che ha dato a me e Jace.»
«Perché Izzy è l’unica femmina. E, difatti, si vede che è una gran viziata.»
Alec, che negli anni aveva avuto modo di osservare da vicino il legame conflittuale tra madre e figlia – appianatosi solo di recente – si chiedeva se sua sorella non si fosse legata al padre in reazione al rapporto turbolento con l’altro genitore o se fosse vera l’esistenza di quel fantomatico legame tra padri e figlie – di certo Izzy sapeva come sfruttarlo, perché davvero le bastava soltanto fare gli occhioni per ottenere qualsiasi cosa.
«Andiamo, Maryse?» chiese Clary, raggiungendoli «Isabelle ci aspetta giù.»
L’altra donna annuì «Ci vediamo a cena?» domandò, premurandosi di baciare le guance di entrambi «Alec, mi piacerebbe tanto passare del tempo anche con te» ribadì prima di uscire «Può venire anche Ralf, ovviamente, lo sai che io e tuo padre siamo sempre felici di vederlo.»
Tutto l’impegno di Jace per rallegrare Alec fu spazzato via da quella singola frase, a cui il diretto interessato riuscì a rispondere solo con un cenno del capo prima di trascinarsi in cucina e lasciarsi cadere sulla sedia con uno sbuffo.
Jace prese posto di fronte a lui e gli allungò un muffin, offrendogli un sorriso comprensivo e la certezza del suo totale supporto – qualsiasi cosa avesse combinato.
Alec non aveva idea di quanto Jace avesse intuito, né se avesse cercato indizi altrove, ma sapeva di non potersi più sottrarre a quel confronto. Settimane prima, suo fratello era corso da lui perché colto da una strana sensazione – dettata dal fatto Alec non gli avesse risposto al solito messaggio di buongiorno – e lo aveva trovato preda di un attacco di panico degno del suo periodo più buio. 
Alec, nel venire avvolto dall’abbraccio protettivo di Jace, aveva persino valutato l’idea di rivelargli ogni cosa, ma la condizione di smarrimento in cui riversava non gli aveva reso possibile articolare un discorso sensato. Suo fratello, d’altro canto, non lo aveva forzato ad aprirsi, certo che l’altro gli avrebbe raccontato tutta la verità appena fosse stato pronto.
Adesso Alec sentiva il bisogno di sfogarsi e lasciare che Jace si prendesse cura di lui come aveva fatto sin dall’infanzia: come guida, confidente o migliore amico, lui c’era sempre stato, condividendo i suoi momenti migliori e peggiori, accompagnandolo nella crescita con i suoi consigli e i suoi “Sono a un passo da te, Alec”, promesse di un legame che mai aveva vacillato.
«È successo un casino» ammise, versandosi una generosa quantità di latte.
«Avevo qualche sospetto» lo sbeffeggiò bonariamente il biondo.
«Penserai che sono una persona orribile» sospirò, rivelando parte delle sue paure.
Lui e Jace si erano spronati a vicenda, avevano cacciato fuori la parte migliore dell’altro: non sopportava l’idea di deluderlo, di perdere la stima di una delle persone più importanti della sua vita.
«Alec, sono io, non c’è niente che possa mai indurmi a pensare che tu sia una persona orribile» gli assicurò, scoccandogli un’occhiata sincera «Lo sai che sono pronto anche a seppellire un cadavere per te.»
Alec rispose con un sorriso grato – invaso dal calore di un affetto radicato sin dentro le ossa – ed inspirò «Ho incontrato Magnus un paio di settimane fa» espirò «E mi ha baciato.»
Quando provava a mettere a fuoco i dettagli di quella notte, Alec riusciva soltanto a visualizzare linee sfocate e contorni nebulosi. Le parole che s’erano scambiati restavano suoni indistinti nel frastuono della musica e in lui riecheggiava soltanto la memoria di una rabbia urlata a pieni polmoni e di accuse più taglienti di una lama.
Era un viluppo di confusione, risentimento, collera e attrazione – e tutte insieme, infide e ammaliatrici, avevano soggiogato la ragione e caldeggiato l’irrazionale fascino del male, esponendo Alec alla mercé dei suoi desideri più reconditi.
La sua bussola morale aveva puntato a sud e il Peccato l’aveva raggiunto ancor prima che imboccasse la strada lastricata di tentazioni. Le fauci del suo inferno l’avevano azzannato e Alec s’era arreso al gusto familiare della distruzione, abbandonandosi in un atto sadico alle labbra che gli avrebbero iniettato il più letale dei veleni.
Privo di cognizione, non avrebbe potuto prevedere gli effetti di quel morso fatale. Non poteva sapere, mentre il passato divorava ferocemente anni di sforzi, che il senso di colpa si sarebbe legato come un cappio attorno al suo collo e ogni giorno si sarebbe stretto sempre un po’ di più, sino a fargli mancare il respiro e desiderare la fine di quell’agonia. Non poteva immaginare, con il sapore di un altro a riempirgli la bocca, che avrebbe provato ribrezzo e repulsione verso se stesso, che strofinarsi i denti fino a farsi sanguinare le gengive non avrebbe cancellato le tracce del tradimento, che l’onta avrebbe marchiato il suo animo come i tatuaggi sulla sua pelle.
Era caduto nell’errore peggiore che potesse commettere: aveva danneggiato l’unica persona che fosse riuscita ad amare dopo che il suo cuore era andato in frantumi – l’unica per cui aveva deciso che valesse la pena correre il rischio di farsi male.
Sentendosi degno del migliore dei masochisti e del peggiore degli uomini, si accasciò sul tavolo e aspettò pazientemente una reazione da parte di Jace.
«Cazzo» lo sentì mormorare dopo un tempo che gli parve infinito, mentre sbatteva ripetutamente le palpebre e boccheggiava in cerca di altre parole, ma «Cazzo» finì per ripetere, ancora preda dello shock.
Alec sospirò, consapevole di dovergli dare tempo per realizzare quanto accaduto «Già, cazzo
«Ralf lo sa?» chiese Jace «Aspetta, è per questo che sei stato così male due settimane fa?» domandò, senza dargli tempo di rispondere «Ah!» esclamò poi, puntandogli un dito contro «Ecco perché ieri non hai dato di matto alla notizia del ritorno di Magnus!»
Alec annuì «Sì, è per quello e no, Ralf non lo sa, ma ha capito che c’è qualcosa che non va.»
«Se n’è accorto chiunque, Alec. Hai passato intere giornate chiuso in te stesso» sottolineò, in un tono accondiscendente «Ma cosa è successo?»
«Sai che sono solito andare a casa – nella casa di Brooklyn – per fare il profumo, no? Sono salito e l’ho trovato lì, credo sia stato uno shock per entrambi. Mi ha detto di essere appena tornato da Parigi e che aveva intenzione di contattarmi per parlare… e sai cosa ho scoperto? Che ha deciso di trasferirsi a New York perché ha capito che non può più vivere lontano da Max. Se n’è reso conto dopo tre anni! Normale, no?» chiese con una risata amara.
«E quindi cosa vuole? L’affidamento congiunto?»
Alec si strinse nelle spalle «Non ne ho idea, tutto il rancore che provo per lui è tornato a galla e abbiamo iniziato a litigare. Sinceramente, ero convinto ci saremmo presi a pugni, non so dirti come ci siamo ritrovati a baciarci» sospirò «Lui ha baciato me» specificò immediatamente «E io potrei essermi fatto trasportare più di quanto non dovessi» ammise in uno sbuffo «Non basta che torni per incasinare la vita di Max, deve anche incasinare la mia relazione!»
Jace annuì «Lo dirai a Ralf?»
Alec aveva avuto modo di riflettere su cosa era accaduto e su tutte le possibili conseguenze. Una parte di sé, la più egoista nonché unica detentrice di uno spirito di conservazione, avrebbe voluto semplicemente ignorare l’insignificante errore di pochi attimi di confusione, adducendo la colpa a qualche scusante poco credibile; l’altra parte, quella che soccombeva ogni volta che Ralf gli sorrideva o esprimeva il suo amore, voleva semplicemente liberarsi di quel peso che lo stava opprimendo.
Alec sapeva di poter semplicemente scaricare tutta la colpa su Magnus – dopotutto, era stato lui a baciarlo. Ma – ma Alec aveva ricambiato e non si era scansato, non subito, almeno.
In verità, seppur tentato dall’amor proprio, non aveva davvero titubato sulla decisione che avrebbe preso: era profondamente innamorato di Ralf e non avrebbe sopportato l’idea di vivere una relazione basata sulla menzogna.
«Gli dirai la verità» dedusse Jace «Siamo Lightwood, spacchiamo nasi…»
«E ne accettiamo le conseguenze» finì Alec, certo che avrebbe capito.
Il biondo gli regalò un sorriso fugace e spalmò la marmellata su un biscotto, masticandolo lentamente con aria pensosa.
Alec lo conosceva talmente bene da sapere che stesse elaborando quanto appreso, collegando tutte le informazioni che aveva in possesso per cercare la spiegazione più logica a ciò che era successo. Poteva vedere gli ingranaggi della sua mente ripercorrere la storia tra lui e Magnus, l’arrivo di Max, il periodo oscuro che aveva vissuto, il ritrovamento di un equilibrio e la speranza di un nuovo amore, l’arrivo di Ralf e l’autentica felicità – e poi ripercorrerli al contrario, analizzando quei passaggi alla ricerca di un punto che gli spiegasse l’unica domanda a cui non riusciva a trovare risposta.
«Ma perché?» sbottò infatti, innervosito più con se stesso che con Alec «Perché hai permesso che ti baciasse dopo tutto quello che ti ha fatto?» domandò, centrando il punto principale dei tormenti del fratello.
Alec scosse la testa «Non ne ho idea.»
Jace lo scrutò con aria circospetta «E Magnus?»
«Magnus cosa?»
«Dopo il bacio, pensi di… insomma tu-»
«Vuoi sapere se provo ancora qualcosa per Magnus?» chiese, corrugando la fronte.
Il biondo si trovò ad annuire, le spalle contratte da un nervosismo prevedibile.
«Solo odio, Jace» lo tranquillizzò, con un sorriso tirato.
Jace sollevò le sopracciglia «E non lo hai più sentito?»
«Ieri è stata la prima volta che l’ho rivisto.»
«E sei crollato, Alec» gli fece presente, come a metterlo in guardia dalla superficialità con cui affrontava la questione.
«Sono crollato perché vederlo mi ha ricordato di aver tradito Ralf. È Ralf che ho paura di perdere, Jace. Di Magnus non m’importerebbe niente, se non fosse il padre di mio figlio.»
Jace annuì ma l’occhiata che gli indirizzò parlava chiaramente: bugiardo, diceva, e Alec non poteva darvi torto.
 
 
 
Un vento fresco soffiò sulle coste dell’East River, raffreddando l’immensa distesa d’acqua e portando Alec a rabbrividire nella sua felpa sbracciata. Poggiato contro la ringhiera arrugginita, osservava il sole nascondersi dietro i grattacieli dell’isola di Manhattan, perso nella speranza di poter far tramontare anche il suo tormento.
Aveva passato l’intera giornata con Max, lasciandosi distrarre dalla sua iperattività, facendosi coinvolgere in qualsiasi gioco il figlio gli proponesse, grato che fosse lì a non farlo sprofondare nella sua stessa inquietudine, a ricordargli quale fosse la ragione della sua esistenza.
Max riusciva sempre a risollevare il suo umore, talvolta anche la sua sola vicinanza era sufficiente per alleviare un dolore – Alec avrebbe affrontato l’inferno per vedere quel sorriso capace di illuminargli il cuore.
Riscosso dalla brezza che gli sferzò il viso, dedicò un ultimo veloce sguardo all’incantevole panorama prima d’alzarsi il cappuccio sulla testa e riprendere la sua corsa, riflettendo sulle parole giuste da usare prima di affrontare Ralf. 
Avrebbe voluto seguire la scia più ottimista di pensieri, credere che Ralf avrebbe compreso la situazione e che non ci sarebbero state grandi ripercussioni nel loro rapporto, ma Alec non era mai stato un sostenitore del lato positivo – piuttosto, un fedele seguace della legge secondo cui se c’era la possibilità che qualcosa andasse male, allora certamente sarebbe andata male.
La sempre più vivida realizzazione che quella sera avrebbe potuto perdere tutto – il suo compagno, quella che considerava ormai una seconda casa, la stima dei suoi genitori, una figura di riferimento per Max – riuscì a farlo tremare al punto da costringerlo a fermarsi e rimettere in un’aiuola, cacciando l’ansia che da settimane continuava ad attanagliargli lo stomaco.
In quanto capo di una delle aziende più importanti di New York, Ralf avrebbe potuto interferire nella sua carriera e strappare il contratto da miliardi di dollari tra la Praetor Lupus e la Penhallow Fell, danneggiando così l’intero studio legale.
Lo sconforto fu seguito da un altro conato e poi da un altro ancora, finché dentro non rimase nulla – niente, se non disgusto per se stesso.
Ma Ralf meritava di conoscere la verità, glielo doveva.
Varcò la soglia di casa animato dalla certezza che quella sera, dopo aver messo Max a letto, nessun malessere avrebbe potuto fermarlo dal parlare con Ralf, ma dovette bloccarsi quando, ad un passo dall’ascensore, due braccia sottili gli avvolsero il busto.
«Alec!»
La voce squillante di Isabelle lo colse di sorpresa.
«Ehi» la salutò, confuso.
«Non dare di matto» lo avvertì frettolosamente «Mamma ha invitato Ralf a cena.»
Alec sgranò gli occhi e si precipitò nel soggiorno per verificare le parole della sorella.
Ralf era seduto sul divano e, dal completo formale che indossava, Alec dedusse che fosse stato costretto a recarsi a lavoro anche quella domenica. La giacca era stata abbandonata sulla poltrona e la cravatta era stata allentata, ma mostrava una compostezza che lasciava trasparire il suo reale disagio.
Teneva un joystick tra le mani e la lingua stretta tra i denti, in quell’espressione concentrata che assumeva ogniqualvolta veniva sfidato dal piccolo Max alla playstation – non che battere un bambino di quasi quattro anni fosse un’azione poi così difficile.
Il piccolo al suo fianco, seppur mostrasse una postura più rilassata, era assorto dalla partita almeno quanto l’adulto: gli occhioni azzurri erano incollati allo schermo e le labbra sottili distese nel sorrisetto di chi sapeva già di avere la vittoria in pugno – inconsapevole di non aver ancora capito il reale funzionamento del joystick.
Alec non era abituato a vederli interagire pacificamente: per quanto Ralf tentasse d’approcciarsi a Max per instaurare un legame più profondo, il bambino continuava ad innalzare muri, dimostrandosi disinteressato a creare un rapporto che andasse oltre una mera tolleranza.
Quando s’accorse del suo arrivo, Ralf sollevò lo sguardo dalla televisione e gli rivolse il più caloroso dei sorrisi, un bentornato che era sempre capace di sciogliergli il cuore.
L’attimo dopo, per una fortunata coincidenza, il giocatore di Max segnò il punto finale e Ralf si ritrovò a sbuffare un’innocua imprecazione che fece ridere il bambino.
«Mi hai distratto» lo accusò, assottigliando gli occhi.
Alec inarcò un sopracciglio ma si trattenne dal commentare. I suoi piani erano appena andati in fumo: non avrebbe mai potuto affrontare quella conversazione in casa sua, con Max e la sua famiglia presenti.
Ralf, mal interpretando la titubanza del ragazzo, mise su un sorrisetto soddisfatto «Mi devi un bacio, adesso» dichiarò, facendogli segno d’avvicinarsi con un dito.
Il moro gettò un’occhiata a Isabelle, che era tornata ad aiutare sua madre in cucina, e a Max, impegnato a godersi la musichetta della vittoria. Baciare Ralf davanti alla sua famiglia gli creava un certo imbarazzo, ma il suo compagno aveva sempre riso di quella sua incertezza – “L’amore non prova vergogna, Alec. E io ti amo così tanto da poterti baciare ovunque e davanti a chiunque”.
Mise una mano sullo schienale del divano e si chinò per incontrare le labbra di Ralf in un bacio a stampo, sorridendo quando l’uomo gli sussurrò “Ciao, piccolo” e ritraendosi quando sentì Max sbuffare la sua disapprovazione.
Alec roteò affettuosamente gli occhi, passandogli una mano tra i riccioli scuri «Ti stai divertendo?»
Il bambino si strinse indifferentemente nelle spalle «Giochi tu con me?»
Alec sorrise «Vado a farmi una doccia e sono dei vostri» disse, sfuggendo allo sguardo innamorato di Ralf.
Raggiunta la propria camera, Alec si lasciò cadere sul letto, stremato dal peso di quel segreto che ancora era costretto a mantenere. Aveva la sensazione che più tempo passava, più le conseguenze sarebbero state dolorose.
Per questo non poté che sorprendersi quando Ralf, raggiungendolo in stanza, si affrettò a chiudere la porta e correre verso di lui, stringendolo tra le braccia.
«Tua madre mi ha incastrato» sospirò, fraintendendo il suo umore «Ho capito che c’era qualcosa che non andava.»
Alec annuì «Non è questo, sai di essere libero di venire qui quando vuoi.»
«D’accordo» acconsentì Ralf «Allora qualsiasi cosa sia, può aspettare domani.»
Alec aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo deciso dell’uomo lo fece desistere dall’insistere.
«Questa cosa può aspettare ancora un giorno, mh?» sussurrò, baciandogli la fronte «Fatti la doccia, ti aspetto di là.»
Alec rimaste stordito, incerto sulle implicazioni di quella frase: Ralf voleva un’ultima sera di normalità perché il giorno dopo si sarebbero lasciati? O, al contrario, non aveva idea di cosa lo stesse tormentando e credeva di dover affrontare l’ennesimo ostacolo che avrebbero risolto con una semplice chiacchierata?
Il dubbio non riuscì a dargli tregua, portandolo a crogiolarsi in una lenta tortura che si prolungò per tutta la serata. Non poteva fare a meno di chiedersi, mentre Isabelle gli raccontava dei suoi drammi lavorativi e Max cercava di fargli cadere il peperoncino sulla pizza, se quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe avuto la possibilità di vedere Ralf in un contesto così familiare.
Credette persino di impazzire quando, seduti sul divano a guardare un film, Ralf allungò un braccio oltre il corpicino semiaddormentato di Max e prese a carezzargli distrattamente i capelli, in un gesto che Alec aveva dichiarato d’amare.
La giornata si concluse a casa di Ralf con certezza che, pur trovandosi sullo stesso pianeta, i loro cuori girassero su orbite completamente diverse.
 
 
 
Quella mattina di fine giugno a ridestare Alec dal sonno fu un insolito dolore al braccio sinistro. Aprì lentamente gli occhi, cercando di abituarsi alla luce che inondava la stanza, e abbassò la testa per capire cosa gli stesse provocando quel fastidio.
Emise un verso a metà tra una risata ed un lamento quando notò Max, con addosso ancora il suo pigiamino di Spiderman, sostare a quattro zampe ai piedi del letto e mordergli la pelle oltre la striscia sottile del bracciale che non toglieva mai. 
«Potresti mollare la presa, Maxibau?» mormorò, voltandosi verso suo figlio.
Max scosse la testa, continuando a tenere i suoi dentini conficcati nel polso di Alec.
Il ragazzo sospirò, allungando l’altro braccio per solleticare il fianco del bambino e fuggire dalla sua morsa. Consapevole dell’attacco che sarebbe arrivato, rotolò dall’altro lato del letto, guadagnando un piccolo vantaggio su Max ed inchiodandolo con una sola mano al materasso.
«Fregato» lo sbeffeggiò, attento ad evitare i suoi calci.
Max continuò a ribellarsi finché non sbuffò e si arrese «Ralf ha detto sveglia papà.»
«Sai, non c’era bisogno di entrare in modalità canina per farlo» lo canzonò, senza nascondere il proprio divertimento.
Il bambino si lasciò andare ad una risata allegra prima di saltargli al collo e farsi stringere nell’immancabile abbraccio del buongiorno, un rituale di cui Alec non avrebbe mai potuto privarsi.
«Ultimo che arriva in cucina è pollo!» urlò poi Max, sgusciando fuori dalla sua presa e correndo lungo il corridoio.
Alec lo inseguì all’istante, ma, quando raggiunse la cucina, si pentì amaramente d’aver lasciato il letto senza prima controllare in che condizioni fosse.
Compostamente seduta su uno sgabello, in un aderente tailleur lilla, Camille Belcourt sorseggiava lentamente il suo caffè. Il caschetto biondo le ricadeva sulle spalle esili e gli occhi verdi percorrevano senza esitazione ogni centimetro del corpo di Alec, in quel momento coperto da un paio di boxer.
Le labbra sottili s’alzarono in un sorrisetto compiaciuto «Buongiorno a te, bocconcino.»
Alec roteò gli occhi «Camille» ricambiò, privo di qualsiasi entusiasmo «Che ci fai qui?»
«Sono venuta a portare dei documenti a Ralf» rispose, stringendosi nelle spalle.
Alec lanciò un’occhiata a Max, in bilico su una sedia mentre tentava di raggiungere i biscotti sulla mensola più alta. Scattò in sua direzione, afferrandolo per i fianchi l’attimo prima che cadesse all’indietro.
«Biscotti!» ordinò, indicandoli.
«Come si dice?» domandò Alec, mentre Ralf entrava in cucina già vestito per andare al lavoro.
«Che noia!» esclamò il bambino, suscitando l’ilarità della donna «Papà, pe’ favore, mi dai i biscotti?»
Il moro lo accontentò, rimettendolo a terra e lasciando che scappasse fuori dalla cucina con il pacco stretto tra le braccia, diretto verso la tv del soggiorno dove Ralf gli aveva già preparato la solita tazza di latte al cioccolato.
«Camille, smettila di ridere» la rimproverò Ralf, avvicinandosi ad Alec ed afferrandogli il braccio «E già che ci sei, sforzati di mostrarti un po’ meno interessata al mio compagno» sbuffò, sfiorando con le dita i segni attorno al polso di Alec.
«Un regalo di Max» spiegò il ragazzo, sottraendosi alla presa quando Ralf provò a scostare il bracciale.
Ralf annuì, allungandosi per lasciargli un bacio sulle labbra «Vado a finire di prepararmi» disse, prima di allontanarsi «Camille, non lo molestare.»
«Non posso promettertelo» rispose la bionda, con un ghigno malizioso.
Alec ignorò la provocazione della donna e si spostò verso la macchinetta del caffè, cacciando il necessario per prepararsi la colazione.
«Ma guardati, tutto a tuo agio nella casa di mio marito.»
«Ex-marito» la corresse Alec, senza voltarsi a guardarla.
«Ex, certo» lo accontentò «Non posso biasimarlo, dopotutto. Quale pazzo non vorrebbe sfoggiare un ragazzino attraente al proprio fianco? Sei il suo trofeo più importante, il più invidiato, lo sai?»
«Non sono un trofeo.»
Camille ridacchiò «E cosa pensi di essere?»
Alec si trattenne dal riversarle addosso la sua frustrazione, consapevole che farlo crollare fosse l’unico obiettivo di Camille. Non aveva capito perché traesse così tanta soddisfazione dal provocarlo, né se sotto quelli attacchi si nascondesse un odio profondo o una risentita gelosia. Qualsiasi fosse la motivazione, la trovava insensata: Camille aveva già rotto con Magnus quando loro s’erano conosciuti e, allo stesso modo, aveva già divorziato da Ralf quando si erano incontrati. Alec era sempre arrivato dopo, non vedeva quale ragione avesse la donna per essere così infastidita dalla sua presenza – a rigor di logica, avrebbe dovuto essere il contrario.
Non poteva neppure trattarsi di una questione lavorativa, tantomeno di prestigio: Camille aveva un ruolo importante nella Praetor Lupus, una funzione che le permetteva d’essere invitata a tutti gli eventi di spessore e mantenere i rapporti con i personaggi più celebri del mondo della moda.
«Sei proprio ingenuo, bocconcino» sospirò, scuotendo la testa «Quando capirai come stanno davvero le cose, sarà troppo tardi.»
Alec era pronto a ribattere che non gliele importava nulla di quel suo mondo, che lui e Ralf non sottostavano alla finzione dell’universo dell’apparire da cui tutti sembravano ossessionati, ma accolse la suoneria del suo telefono come un segno del destino – lascia perdere, Alec, non ne vale neanche la pena.
Corrugò la fronte quando vide il nome della Penhallow Fell sullo schermo, certo di non doversi presentare in studio prima di un paio d’ore. Pensò persino di non rispondere, ma sapeva di non avere alternative: lavorare nello studio legale più prestigioso di New York implicava fare dei sacrifici, soprattutto quando si era gli ultimi arrivati e si voleva dimostrare di non essere stati in alcun modo raccomandati.
«Pronto?» rispose, recandosi in soggiorno per allontanarsi dalle orecchie indiscrete di Camille e passando distrattamente una mano tra i ricci di Max, intento a consumare la sua colazione dinnanzi ad un cartone – e sparpagliando le briciole dei biscotti su tutto il tappeto.
«Alec! Oh, Alec, menomale che hai risposto! So che stamattina non devi lavorare, ma c’è assolutamente bisogno di te qui.»
La voce di Vivienne, la giovane segretaria che gestiva i casi affidati allo studio, era marcata da un evidente dispiacere – e dal solito caotico fervore.
«Quanto è urgente?» domandò Alec, lasciandosi cadere sul divano.
«Molto, molto urgente! Urgentissimo, direi.»
Alec sospirò, portandosi due dita a stringere la radice del naso «Va bene» acconsentì – come se potesse fare diversamente «Dammi una mezz’ora e arrivo.»
«Grazie, grazie, grazie!»
Senza lasciarsi abbattere dallo sconforto di non poter passare più tempo con Max, Alec saltò in piedi e corse verso il bagno della camera da letto per una doccia veloce. Dopodiché si recò nella cabina in cui Ralf gli aveva fatto un po’ di spazio per mettere i suoi vestiti, afferrando il primo completo su cui le sue mani si andarono a posare.
Il vantaggio d’essere il compagno del direttore della Praetor Lupus era certamente il non doversi preoccupare del suo abbigliamento: Ralf, consapevole della sua avversione alla moda e stufo di vedergli addosso camicie bianche, aveva insistito per fargli confezionare una serie di completi che Alec doveva solo compiere lo sforzo di indossare.
«Pensavo non dovessi lavorare prima delle dieci» disse Ralf, entrando in camera e raggiungendolo dinnanzi allo specchio, facendo combaciare il suo petto con la schiena di Alec.
«Lo pensavo anch’io» sospirò il minore, aggiustandosi la cravatta «L’arpia se n’è andata?»
«Non ancora, mi sta aspettando» ridacchiò «Ti ha dato fastidio?»
Alec accennò un sorriso «Non più del solito.»
Ralf gli lasciò un bacio tra i capelli «Stasera ordiniamo cinese e parliamo?»
Alec s’irrigidì «Sì» rispose con un filo di voce.
«Non c’è niente che non si possa risolvere, capito?» domandò, stringendolo un po’ più forte.
Il ragazzo si voltò, abbracciandolo e sprofondando la testa nell’incavo del suo collo.
«Ti amo» sussurrò Ralf, baciandogli una spalla.
Alec deglutì a fatica «Ti amo anch’io.»
 
 
 
La sede dello studio legale si trovava agli ultimi piani di un grattacielo tra la Sesta e la Cinquantaseiesima, a Midtown Manhattan. Vi si accedeva da una porta girevole – la stessa in cui Max passava ore a giocare – che dava su un enorme openspace riservato al centro informazioni circa le diverse aziende presenti nell’edificio.
Alec non perse tempo a salutare gli impiegati al di là del bancone e s’avviò verso la guardia di turno che, controllato il suo tesserino, gli permise di prendere l’ascensore e raggiungere i piani della Penhallow Fell.
Quando vi arrivò, venne accolto dalla solita melodia rilassante che riecheggiava nella maggior parte degli ambienti, un invito alla calma sia dei clienti che aspettavano il loro appuntamento nella sala d’attesa, sia degli avvocati che tendevano a farsi prendere dalla frenesia giornaliera.
Rivolse un saluto educato a Hetty – la receptionist che occupava uno sgabello oltre l’imponente scrivania di legno noce posta nell’atrio – ed un sorriso di circostanza ai clienti seduti sui divanetti in pelle bianca, incamminandosi poi lungo il corridoio che lo avrebbe condotto alla zona riservata agli uffici. Questa era preceduta da un androne in cui spiccava una massiccia scrivania oltre cui sedeva Vivienne, la neoassunta segretaria a cui spettava il compito di svolgere determinate pratiche amministrative ed incastrare in una scaletta ben oleata gli appuntamenti giratole dai soci per la gestione degli ambienti comuni.
Alec si avvicinò alla giovane donna dai capelli biondo fragola e grandi occhioni castani, capaci di esprimere una dolcezza tale da evitarle i rimproveri che tutti gli avvocati avrebbero voluto indirizzarle per il perenne disordine che regnava attorno alla sua figura e che si proiettava di riflesso su tutti loro – gli occhioni, e l’essere la nipote di due soci della Penhallow Fell.
«Per te» disse, poggiando sul bancone un bicchiere di camomilla preso al chioschetto all’angolo della strada «Ti ho sentita molto agitata al telefono, devi aver avuto una mattinata terribile.»
Nonostante la mancanza di un’adeguata formazione per il ruolo che ricopriva e il costante ritardo con cui arrivavano le sue e-mail, Alec pensava che stesse svolgendo un lavoro discretamente buono: non era facile restare a galla in quel tipo d’ambiente, dove tutto era scandito in tempi rigidi e non era ammesso margine d’errore. Persino lui, che in mezzo a quel trambusto organizzato ci era cresciuto, aveva avuto qualche difficoltà ad abituarsi alla vita d’ufficio e ai suoi ritmi deliranti.
Gli occhi della giovane donna lasciarono il computer per sollevarsi su Alec e indirizzargli uno sguardo incredulo «Ma sei reale?» domandò, prendendo immediatamente un sorso «Mi dispiace così tanto di averti disturbato, ma Fell mi ha praticamente costretto a chiamarti.»
Alec s’irrigidì «Ha detto per cosa?»
«No, mi dispiace» rispose «Fell ti aspetta nel suo ufficio.»
Alec le rivolse un sorriso di cortesia e s’incamminò verso l’ufficio di uno dei due fondatori dello studio. Decise di passare prima dalla propria postazione – ovvero uno dei cinquanta cubicoli che si trovavano nell’openspace a pochi passi dalla scrivania di Vivienne – e lasciò cadere distrattamente la propria borsa sulla sedia in pelle bianca. Sistemò già il proprio portatile sulla scrivania in vetro laccato e regolò il colore delle ampie vetrate alle sue spalle per evitare d’essere infastidito dall’accecante luminosità proveniente dall’esterno.
Alec adorava la sua postazione: le linee eleganti e le tinte tenui erano le stesse che si riproponevano per tutto lo studio, ma si era assicurato di rendere quello spazio meno freddo degli altri, disponendo fotografie su ogni superficie disponibile e sistemando nella piccola libreria sulla destra la sua collezione di classici preferita. Inoltre, Isabelle vi faceva spesso irruzione, sistemando una pianta d’arredo in un angolo o lasciandovi oggettini decorativi per dargli un tocco di vivacità – senza escludere i giocattoli di Max che, di tanto in tanto, sbucavano da dentro i cassetti. 
Gli uffici dei soci erano di tutt’altro spessore, ma tutti accomunati da grandi vetrate – a Jia e Ragnor era sempre piaciuta la politica della trasparenza – per cui Alec riuscì a scorgere il vero motivo di quell’incontro anche prima di entrare nell’ufficio di Fell.
Un impulso prepotente si insidiò tra i suoi pensieri e gli suggerì di assecondare la necessità di picchiare Magnus per tutti i problemi che gli aveva provocato sino a quel momento, ma la sua mente gli ripropose in fretta il risultato dell’ultima volta che aveva ascoltato la sua parte più emotiva e lo scoraggiò dal farlo.
Alec strinse i pugni e serrò la mascella mentre avanzava all’interno dell’ufficio. Magnus era seduto al posto di Fell, indossava completo eccentrico sui toni del verde e aveva sistemato i capelli in una cresta cosparsa di glitter.     
Quando furono uno di fronte all’altro, Alec ebbe l’opportunità di osservare il verde-dorato dei suoi occhi, macchiati da un turbamento talmente profondo che persino uno sconosciuto avrebbe potuto riconoscere – e occhiaie così evidenti che neppure il trucco era capace di coprire.
«Te ne devi andare» disse, cercando di mantenersi calmo «Qualsiasi cosa tu voglia dirmi, non mi interessa.»
Magnus sospirò, passandosi una mano sul volto prima di poggiare i gomiti sul tavolo «Dobbiamo parlare e non me ne andrò finché non l’avremo fatto.»
Se c’era una cosa che Alec aveva sempre apprezzato di Magnus, era l’incapacità di perdersi in giri di parole. In quel momento, però, realizzò che avrebbe desiderato un avvertimento prima di venir scaraventato nella prospettiva di dover affrontare una conversazione a cui aveva anche solo evitato di pensare per settimane.
Una parte di sé, inoltre, non poteva che irritarsi per il modo in cui Magnus s’era espresso, quella supponenza che aveva mostrato nell’andare lì a impartire ordini come se avesse ancora qualche diritto su di lui.
«Io non ho alcuna intenzione di parlare con te» chiarì, irrigidendosi «Hai coinvolto Ragnor in questa faccenda? Mi hai fatto chiamare con urgenza! Ho dovuto lasciare Max da Isabelle di corsa!» e stavolta non si preoccupò di tenere il tono basso.
Il maggiore roteò gli occhi «Ma è proprio di Max che voglio parlare! Sapevo che questo era l’unico modo per beccarti da solo» rispose, incrociando le braccia al petto «Ti ho dato tempo per elaborare la notizia del mio ritorno, non ti ho messo pressioni, ma sono qui e voglio vedere mio figlio.»
Alec si aprì in una risata sarcastica «Ah, ora vuoi parlare di tuo figlio?» domandò sprezzante «Bene, parliamo di come te ne sei fottuto della sua esistenza e hai preferito il tuo lavoro volandotene a Parigi!»
Il dolore macchiò repentinamente lo sguardo di Magnus, ma venne subito scacciato da un’emozione più forte: la rabbia «Abbiamo già affrontato questo discorso, Alec! Non puoi accusarmi di avervi abbandonato quando ti avevo supplicato di venire con me. In quel momento dovevo fare quella scelta, lo sai.»
«La scelta di preferire il tuo lavoro alla tua famiglia» ribadì l’altro, serrando la mascella.
Magnus scosse la testa «Va bene, incolpami, non mi interessa.»
«Ti sto incolpando perché è colpa tua! Sei tu che sei andato via invece di cercare un compromesso!» sbottò, incredulo.
«L’unico compromesso che eri disposto ad accettare era la mia infelicità!» controbatté «E tanto per la cronaca, io ci ho provato molto più di te a farla funzionare, tu hai deciso che fosse finita nel momento in cui ho preso il primo aereo.»
«Sì, si è visto come ci hai provato, smettendo di tornare a casa scusa dopo scusa» ironizzò Alec «Sinceramente, Magnus, potresti almeno essere sincero con te stesso.»
«E tu potresti ammettere di essere stato un cazzo di egoista.»
«Egoista?!» proruppe, sbattendo le mani sulla scrivania «Le ho provate tutte per farti restare, ho accontentato tutti i tuoi capricci! Ma ad un certo punto ho dovuto pensare al bene di nostro figlio!»
«Sei un fottuto ipocrita» sibilò tra i denti «È per il bene di Max che hai deciso di farlo crescere a più di cinquemila chilometri da suo padre?»
«Nessuno ti ha costretto ad andartene, Magnus!» esclamò, infuriandosi «Tu hai deciso di far crescere tuo figlio senza un padre!» sbraitò, alzandosi dalla sedia con uno scatto nervoso.
Magnus lo seguì repentino «Vuoi prendetela con me perché me ne sono andato? Va bene, fai pure, ma sappiamo entrambi che se tra di noi non ha funzionato è stata per colpa tua.»
«Per colpa mia?» domandò con un filo di voce «Sai che ti dico? Non ha più importanza di chi sia la colpa. I fatti, però, parlano chiaro: tu sei andato via e io ho dovuto crescere Max da solo. Possiamo dimenticare il passato e andare avanti con le nostre vite?»
«Sì, come se potessimo» commentò, roteando gli occhi.
Alec prese un respiro profondo e cercò di regolare il proprio tono «Che cosa vuoi?»
Magnus deglutì a fatica «Voglio Max.»
«No.»
«Mi spieghi qual è il tuo fottuto problema?» domandò, avvicinandosi a grandi passi per spintonarlo «Se me ne vado non va bene, se torno non va bene lo stesso. Cosa vuoi che faccia?!»
«Il mio problema è che sei inaffidabile, Magnus!» urlò, colpendolo a sua volta sulle spalle «Non me ne frega un cazzo che adesso sei tornato, non posso permettere che Max soffra di nuovo per colpa tua! Sei qui da due settimane e già hai rovinato tutto!» lo accusò, rendendo chiaro il riferimento a quel bacio che mai avrebbero dovuto scambiarsi.
«Smettila di addossarmi tutta la colpa! Non ti ho puntato un coltello alla gola, non ti ho costretto a fare niente. Anzi, hai iniziato tu!»
«Tu mi hai baciato per primo!» scoppiò Alec, avvicinandosi minaccioso, spintonandolo fino a farlo trovare con le spalle al muro.
Magnus emise un respiro strozzato, sia per il colpo improvviso, sia per il volto di Alec incredibilmente vicino al proprio «Oh, certo, tu non ti sei affatto avvicinato fino a respirarmi sulla bocca, vero?» domandò in un bisbiglio.
Alec, con le mani premute sul muro ai lati del volto di Magnus per impedirsi d’alzarle su di lui, si trovò ad osservare le sfumature più impercettibili di quelle iridi verdi-dorate. Lì, sotto il velo della rabbia, s’agitava la scintilla che già una volta era riuscita a destabilizzarlo, a scuotere un’attrazione che pensava estinta e invece stava solo aspettando, sopita, d’essere risvegliata.
Il profumo di Magnus gli invase le narici, richiamando alla memoria ricordi lontani e spingendolo a compiere quel piccolo, quasi impercettibile movimento con la testa per captare meglio la fragranza.
Quando Magnus se n’era andato, Alec aveva continuato a produrlo da solo, ma non era mai riuscito a replicarlo alla perfezione. Adesso – come due settimane prima – era quel profumo ad invitarlo a farsi più vicino, ad inspirare l’odore che per mesi aveva rincorso su vestiti e cuscini e che alla fine aveva semplicemente smesso di cercare, accontentandosi della sua replica sbiadita.
Fu il respiro di Magnus a catturare poi la sua attenzione, a portare i suoi occhi alla fonte di quegli sbuffi d’aria calda. Si ritrovò ad osservare le labbra schiuse di Magnus, lucide per il trucco o per il morso a cui le aveva costrette fino a poco prima.
«Porca miseria» sbottò, posando la testa sul pugno chiuso, continuando a tenere il corpo di Magnus intrappolato sotto il proprio, cercando di combattere il prepotente magnetismo che gli impediva d’allontanarsi.
Il maggiore sospirò e il soffio del suo respiro andò a scontrarsi sul collo di Alec, facendolo tremare «Alexander» lo richiamò, spronandolo a guardarlo.
Obbediente a un’educazione inculcata nel tempo, il corpo di Alec reagì d’istinto e la sua testa scattò verso l’alto.
«Mi dispiace» sussurrò Magnus «Mi dispiace per tutto, ma non hai il diritto di togliermi Max.»
Il moro chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e fece un passo indietro, staccandosi con decisione dal polo che lo calamitava nel verso opposto.
«Vattene via, Magnus.»
L’uomo esitò qualche secondo prima di avviarsi verso l’uscita, bloccandosi di nuovo ad un passo dalla porta.
«Non lo ripeterò, Magnus: vattene
Rimasto solo, Alec calciò la poltroncina e la fece ribaltare. Non era pronto ad accogliere Magnus nella sua vita, non era pronto a perdonarlo e, certamente, non era pronto a vedere Max legarsi ad un padre che, già una volta, lo aveva messo al secondo posto. Non poteva permettergli di rovinare l’equilibrio che aveva costruito così faticosamente negli ultimi tre anni – non poteva credere di essersi fatto baciare.
Si sentì nuovamente abbattuto da un’ondata di vergogna per il suo comportamento sconsiderato e per non aver ancora affrontato la questione con Ralf.
Doveva assolutamente risolvere quella faccenda il prima possibile – possibilmente smettendo di pensare alla tonalità del lucidalabbra di Magnus.
«Lightwood!»
Perso nei suoi pensieri, Alec non si era accorto dell’arrivo di Lily: con i lunghi capelli corvini legati in due codini bassi ed un paio di scarpette sotto il tailleur, dava l’impressione di un’eterna bambina pronta a vedere il lato più gioioso di qualsiasi situazione.
Forse era quella sua sproporzionata positività il motivo per cui Alec adorava lavorare con lei: riusciva ad equilibrare la propria rigida obiettività con il suo inesauribile entusiasmo, a fargli osservare le cose da una prospettiva più luminosa, evitandogli così di cadere in quegli scenari catastrofici che la sua mente era in grado di riproporgli.
«Oh-oh, qualcuno ti ha fatto arrabbiare?» domandò, affinando lo sguardo e rendendo i suoi occhi a mandorla quasi invisibili «Forse quell’adone contro cui stavi sbraitando qualche minuto fa? Che poi, a proposito, potevi evitare di renderlo così nervoso: volevo chiedergli una foto ma è corso via prima che potessi avvicinarmi. Lo so che tu sei abituato alla sua presenza, ma avresti potuto chiamarmi prima di litigarci! Insomma, è Magnus Bane!»
Alec si maledisse per quel pomeriggio in cui aveva raccontato la verità a Lily: la sua nuova amica, senza neppure l’intenzione di strappargli quell’informazione, era riuscita a guadagnarsi quello che aveva definito “lo scoop più succulento del secolo”.
Si era trattato di un momento di pausa tra una pratica e l’altra: Lily stava scorrendo i post su Instagram e dinnanzi ad una foto in cui Magnus sponsorizzava un paio di box firmati Louis Vuitton aveva mormorato un “Secondo me uno così deve essere proprio bravo a letto” e Alec, sovrappensiero, aveva mugugnato un “Infatti è così” che lo aveva portato a subire un interrogatorio alla fine del quale aveva dovuto ammettere, sconfitto, di aver avuto una storia con lui – un figlio, con lui.
«Mi puoi accompagnare in un posto senza fare domande?» domandò, controllando l’orologio sul polso.
«Di che si tratta?» chiese d’istinto, saltellando dalla curiosità «Ah, giusto niente domande. Posso dirlo a Maia?»
«Fallo e ti licenzio.»
«Non hai questo potere.»
«Fallo e ti costringo a fare le fotocopie da sola» rilanciò, consapevole dell’assurda fobia della sua amica di restare sola nella stanza delle fotocopiatrici.
Lily s’imbronciò «Cattivissimo» lo ammonì «Va bene, andiamo, cercherò di non fare domande. Quelle retoriche valgono?»
«Sì.»
«Le supposizioni ad alta voce?»
«Sì.»
«E se le canticchiassi?»
Alec roteò gli occhi, ma il suo sorriso rendeva impossibile fraintendere la gratitudine che provava nell’avere Lily al suo fianco: la sua perenne allegria era l’unica fonte di energia di cui aveva bisogno per arrivare alla fine di quella giornata.
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
 
Rieccomi!
Ho trovato del tempo per revisionare il capitolo ed ho aggiornato prima di quanto pensassi!
Il primo incontro tra Magnus e Alec (beh, il primo dopo quel bacio) non poteva che essere turbolento e ancora carico della rabbia che da anni continuano a provare. La loro discussione mostra solo sprazzi di ciò che è successo nel passato, ma le intenzioni di Magnus sono chiare: vuole passare del tempo con suo figlio e farà di tutto pur di riuscirci – non è detto che Alec glielo permetta, però.
Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la storia nelle seguite e nelle preferite e anche tutte coloro che hanno deciso di leggere queste pagine a cui tengo veramente molto!
A presto,
Traumerin
   
 
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