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Autore: Puffardella    03/02/2023    0 recensioni
Eilish è una principessa caledone dal temperamento selvatico e ribelle, con la spiccata capacità di ascoltare l’ancestrale voce della foresta della sua amata terra.
Chrigel è un guerriero forte e indomito. Unico figlio del re dei Germani, ha due sole aspirazioni: la caccia e la guerra.
Lucio è un giovane e ambizioso legionario in istanza nella Britannia del nord, al confine con la Caledonia. Ama il potere sopra ogni altra cosa ed è intenzionato a tutto pur di raggiungerlo.
I loro destini si incroceranno in un crescendo di situazioni che li spingerà verso l’inevitabile, cambiandoli per sempre.
E non solo loro...
Genere: Guerra, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Capitoli:
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EILISH

Radi pennacchi di fumo continuavano a salire al cielo dalle braci di ciò che restava dei villaggi caledoni.
Eilish si era rifiutata di dormire nella grotta insieme agli altri. Si era sdraiata sul terreno roccioso proprio dinanzi all’apertura della caverna, a pochi passi dallo strapiombo. Il rumore dello sciabordio del mare che si infrangeva sulle pareti della scogliera la distraeva dal suo dolore, in qualche modo.
Se ne stava sdraiata dentro un cerchio di pietre di fiume ben levigate e bianche, come Morhag le aveva insegnato. Era stata scrupolosa nello sceglierle, non tanto nel disporle. Aveva infatti lasciato uno spazio aperto per non rendersi totalmente invisibile nel caso in cui lo spirito di Morhag si fosse recato da lei quella notte.
A quel pensiero, le lacrime tornarono a rigarle le guance. Per qualche ragione le tornò in mente il giorno in cui Chrigel le aveva messo una mano sul viso per asciugargliele col pollice. Sembrava essere passata un’eternità, invece erano trascorsi solo pochi giorni.
Sollevò gli occhi al cielo e fissò intensamente la luna. Era piena, ma brillava di una luce malata. Spenta. Sanguigna. Eilish si chiese se anche Chrigel la stesse osservando. E poi pensò con fastidio che anche i nemici avrebbero potuto farlo, in quel momento. Del resto, non si trovavano tutti sotto lo stesso cielo?
Quella considerazione le fece accapponare la pelle. All’improvviso, il cuore le si allargò fino a farle male. Iniziò a battere furioso ed Eilish prese a sudare freddo. Avvertì un peso comprimerle forte il torace e si sentì soffocare. Provò a sedersi, a urlare, ma nessuna parte del suo corpo sembrava più rispondere agli impulsi del cervello. Poi, però, percepì distintamente la rassicurante presenza di Morhag. Udì chiara la sua voce nella mente che le diceva di non spaventarsi e le suggeriva di non combattere la visione, ma di lasciarsi attraversare da essa. Eilish fece quanto le era stato consigliato e cercò di regolare i battiti del cuore respirando piano.
A mano a mano che riacquistava il controllo delle sue emozioni, le immagini le apparivano sempre più nitide nella testa. Non era una visione spaventosa, non c’era nulla di efferato, né di angoscioso, in essa. In realtà non conteneva alcun messaggio preciso. Tutto ciò che comprese, da ciò che le fu concesso di vedere, fu che i destini dei due uomini, che avevano sollevato i rispettivi sguardi verso la luna nello stesso preciso istante in cui lo aveva fatto lei, erano in qualche modo intrecciati al suo.
Fu come se entrambi avessero udito i suoi sospiri e avessero sentito il bisogno di comunicare con lei, anche se in modi diversi e per ragioni diverse, attraverso la luna.
Poi, lentamente, così come era arrivata, la visione l’abbandonò, ed Eilish fu pervasa da un senso di pace rassicurante. L’angoscia che aveva provato solo un attimo prima a causa della morte di Morhag si era dissolta. Averla sentita intorno e dentro di sé le aveva infuso forza e fiducia. Si lasciò quindi sedurre dal sonno con un sospiro.
Prima di addormentarsi, udì la voce di Morhag sussurrarle piano: “Tranquilla, piccola Eilish. Andrà tutto bene… Andrà tutto bene...”

CHRIGEL
Quando Chrigel aveva visto il fumo innalzarsi al cielo, nero e compatto, aveva provato un immenso sconforto. Sapeva che tutti gli abitanti dei villaggi erano al sicuro nelle foreste. Lo sapeva perché aveva lasciato una parte degli uomini appostata nei boschi a sud della valle e, prima di raggiungere le alture che si estendevano a nord, aveva visto i Caledoni dirigersi verso la costa. Ciononostante, non riusciva a smettere di preoccuparsi per Eilish. Impulsiva com’era avrebbe potuto commettere qualche imprudenza, correre dei rischi inutili. Ne era convinto perché era quello che avrebbe fatto lui se si fosse trovato nella sua situazione, costretto a guardare il suo villaggio bruciare senza poter reagire.
Da un po’ gli sembrava di averla nella testa e la cosa lo irritava e lo atterriva allo stesso tempo. Lo irritava perché non gli permetteva di ragionare con lucidità, lo atterriva perché era come se riuscisse a percepire il suo stato d’animo. La sensazione che provava era così singolare che era arrivato al punto di credere di trovarsi sotto un sortilegio. Era come un fuoco che divampava forte e che lo consumava un po’ per volta, senza che potesse farci niente.
I villaggi avevano continuato a bruciare tutto il giorno. Chrigel si era recato spesso al margine del bosco per guardare quello spettacolo devastante. Si era fatto buio, tuttavia le braci continuavano a fumare, qua e là.
Chrigel amava la notte eppure, quella in particolare, non l’avrebbe certo ricordata con piacere. Oltre allo spettacolo deprimente cui era costretto ad assistere suo malgrado, si sentiva debilitato a causa dell’insolita inquietudine che era andata rafforzandosi col passare delle ore e che sapeva non essere dovuta esclusivamente alla battaglia imminente cui stava per prendere parte.
Era convinto che il dolore che gli attanagliava lo stomaco e il cuore fosse lo stesso che sentiva Eilish.
A quel pensiero sollevò mestamente gli occhi al cielo e scorse la luna. Rifletteva una luce inquietante, purpurea, e questo lo allarmò ulteriormente. Si chiese cosa stesse facendo la principessa in quel momento. Se la immaginò riversa sul terreno, in preda alla disperazione più cupa, ed ebbe voglia di cedere alle lacrime insieme a lei. Represse il forte impulso di urlare e si passò stancamente una mano sul volto.
«Luna rossa annuncia bagno di sangue…» udì Willigis mormorare alla sue spalle. Era così preso dalla strana sensazione che stava vivendo da non averlo sentito arrivare. Si voltò verso di lui e non si sorprese di vedere la sofferenza impressa anche sui tratti perfetti del suo volto.
Da quando aveva scoperto che Caitriona aspettava un figlio suo, si era fatto più sofferente e taciturno che mai. Era solo ovvio che, ad un passo dall’attaccare i Romani, si preoccupasse per quel piccolo non ancora nato. Chrigel provò un’infinita pena per lui.
«La luna sa bene, cugino, che presto ne scorrerà molto. Da lassù può vedere tutto quello che succede sulla terra. Ma nemmeno lei è in grado di stabilire cosa accadrà nel futuro, e quindi non può sapere quale sarà il sangue maggiormente versato.»
Willigis assunse un’aria infinitamente triste. «Vorrei solo che fosse già finita» dichiarò. Chrigel deglutì, per tentare di mandare giù il mucchio che gli si era fermato in gola e che gli procurava dolore.
«Anch’io» sospirò.
Willigis scosse la testa e gli si affiancò. «Non credo che sia la stessa cosa. Io intendevo dire che ho paura.»
«Lo so…» ammise con umiltà Chrigel, riconoscendo così di nutrire i suoi stessi sentimenti.
Willigis sorrise amaramente. «Tu, cugino? Mi riesce difficile credere che tu possa avere paura di qualcosa.»
«E perché mai? Sono di carne e sangue, proprio come te. Il fatto che io non mi ritiri dinanzi alle avversità non significa che non le temi.»
Willigis rifletté a lungo sulle sue parole. C’era qualcos’altro che lo affliggeva, era fin troppo evidente. Tuttavia, Chrigel non era sicuro di voler conoscere la ragione del suo turbamento e pregò in cuor suo che il cugino tacesse in proposito.
«Non sapevo che la donna caledone fosse incinta quando l’ho rimandata dal padre» iniziò invece col dire quello. Si concesse una breve pausa, poi continuò: «Avevi ragione su di lei, Chrigel: non avrei dovuto sposarla. Quella donna è solo una visione. Non c’è niente di attraente in lei, niente di realmente amabile. È una strega, fratello. Ho giaciuto con una strega e le ho permesso di succhiarmi via l’anima. Si è presa tutto ciò che avevo: l’entusiasmo, la fiducia, l’amore, la gioia di vivere… L’uomo che ero una volta è scomparso. La parte migliore di me se l’è presa lei. E ora si prenderà anche mio figlio.»
«Non devi nemmeno pensarlo, Willigis. Quando tuo figlio sarà nato, che alla donna caledone piaccia o no, verrà cresciuto come un Germano, nella nostra terra.»
Willigis scosse la testa con convinzione. «Non è di questo che volevo parlarti, Chrigel. Il punto è che avrei dovuto darti ascolto, ma ero troppo ammaliato da lei per riuscire a prendere anche solo in considerazione l’idea che quella strega potesse davvero essere come tu la descrivevi. Non posso più fare niente per rimediare al mio errore. Vorrei solo che tu pensassi a me, nei momenti in cui ti disperi per l’altra caledone...»
«Non è la stessa cosa. Eilish non è come la donna che hai sposato» lo interruppe bruscamente Chrigel. Aveva avuto il sospetto che gli avrebbe parlato di lei e che lo avesse fatto gli provocava un fastidio urticante.
«Però ha il suo stesso sangue nelle vene…»
«Non è la stessa cosa!» ribadì Chrigel ancora più aspramente.
Nei suoi occhi si accese una luce dura, fiera, e Willigis non riuscì a sostenere il suo sguardo a lungo.
«Ecco, parlavo proprio di questo» disse sconfitto prima di voltarsi e allontanarsi.
Chrigel si coprì il volto con le mani. Aveva infierito sul cugino per orgoglio, anche se si rendeva conto che poteva aver ragione.
E se Eilish gli avesse davvero fatto un sortilegio? Se avesse chiesto alla stregona caledone di praticare le sue magie su di lui per vendicarsi del fatto che si era divertito a umiliarla il giorno in cui l’aveva conosciuta? Non era forse quello che lui stesso aveva pensato appena un attimo prima?
Una moltitudine di sentimenti contrastanti gli avvelenarono l’anima e lasciò che la frustrazione prendesse il sopravvento sul buon senso e urlò forte, a lungo.
Quando si fu placato, proferì a bassa voce: «Cosa mi hai fatto, donna? Vorrei non averti incontrata mai...»

LUCIO
«Che accidenti ci fai ancora sveglio qui fuori?»
Lucio si voltò verso la voce che gli aveva appena parlato. L’ombra tozza di Rufus si muoveva minacciosa fra le file delle tende dell’accampamento. Si fermò al suo fianco e Lucio sollevò lo sguardo su di lui, sgomento. La luce sanguigna della luna gettava sul volto burbero del vecchio soldato riverberi rossastri, rendendolo paurosamente spettrale. Di riflesso, si controllò le mani. Anche la sua pelle aveva assunto un colore inquietante, di morte.
“Forse siamo già morti e non lo sappiamo ancora. Forse gli dei ci hanno puniti per qualcosa e le nostre anime non raggiungeranno mai i Campi Elisi. Forse siamo condannati a vivere per sempre questo momento, bagnati in eterno dalla luce malata di questa luna delirante” si ritrovò a pensare.
«Che ti prende, ragazzo? Hai un aspetto spaventoso. Sembra che tu abbia appena visto uno spettro» disse Rufus preoccupato.
«È questa luna… Fa accapponare la pelle.»
Rufus lo esaminò a lungo. «Sudi copiosamente, eppure fa piuttosto freddo stanotte. Non avrai mica la febbre?»
«La febbre? Non ho la febbre. Te l’ho detto, è solo questa maledetta luna. È foriera di presagi funesti.»
«Lo è anche per i barbari. Dubito che ai loro occhi splenda in maniera diversa.»
«Ma loro non hanno dato fuoco al villaggio della Dea della Luna. Noi lo abbiamo fatto, e Lei si vendicherà…» farneticò Lucio.
«La Dea della Luna? Ma di che parli?»
«Di Diana. Lei ha letto dentro di me, Rufus. Non so come abbia fatto, ma ha messo a nudo la mia anima e mi ha costretto a guardarla. E quello che ho visto non mi è piaciuto... Per questo sono fuggito dal suo villaggio, lo stesso villaggio a cui abbiamo dato fuoco oggi e che non vuole smettere di ardere. E la luna è rossa stanotte. Rossa come i suoi capelli, come le fiamme nei suoi occhi. Rossa come una condanna…»
«Ragazzo, cominci a farmi paura. Stai delirando, hai di sicuro la febbre» disse Rufus, provando a mettergli una mano sulla fronte. Ma Lucio glielo impedì, afferrandolo al polso.
«Non ho la febbre! Perché non vuoi capire? Lei mi ha dannato, ha dannato la mia anima. Si è infilata dentro di me e non vuole uscire. È qui, la sento…» sibilò picchiettandosi una tempia con il dito, spalancando gli occhi come un invasato.
«Adesso ascoltami bene, Lucio: infilati in quella maledetta tenda e mettiti a letto. Vado a cercare il medico.»
«Il medico, Rufus, non mi salverà» gemette offrendo il volto alla luna. «Solo lei può farlo… Solo lei…»

Continuò ad avere immagini confuse per un tempo imprecisato. Dinanzi ai suoi occhi si alternarono volti sconosciuti ad altri più familiari. Qualcuno gli diede da bere qualcosa, che lui mandò giù a fatica, tanto la gola gli bruciava. Poi, dopo tutto quel fermento e quel viavai di gente, all’improvviso scese intorno a lui un silenzio inquietante. Si rendeva conto di essere sdraiato sul suo giaciglio, ma non ricordava come avesse fatto ad arrivarci.
Però si ricordava della luna di sangue e di Diana.
O si chiamava Eilish?
La testa gli scoppiava. Qualche volta aveva l’impressione che delle ombre girassero intorno al suo giaciglio, ridendo di lui. Brividi di freddo scuotevano il suo corpo in maniera incontrollabile.
Ma forse erano le ombre a scuoterlo con rabbia…
E poi la sentì di nuovo sopra di lui. Diana. Bella, carnale, vendicativa. Udì la propria voce chiamarla, non col nome della dea ma con quello della sua forma umana. Le implorò perdono per averle fatto del male. Lei si tolse la veste, gli sfilò la tunica e si chinò a baciarlo sulle labbra. Poi portò la bocca vicino al suo orecchio e sussurrò, piano: «La tua condanna sarà amarmi, Lucio…»

Lucio si liberò della visione con un urlo soffocato. Si ritrovò seduto sul letto, con Rufus che lo scuoteva vigorosamente per le spalle.
«Dannato te, ragazzo, hai scelto il momento sbagliato per stare male.»
«Rufus, ma che diamine… Che accidenti ci fai nella mia tenda?»
«Stai meglio?»
«Stare meglio? Ma di che parli? Insomma, si può sapere perché sei qui?»
«Perché sono qui? Ma non hai udito le buccine dare l’allarme? Non le senti le grida? Quei maledetti ci stanno attaccando in piena notte. E visto che hai tutta l’aria di esserne in grado, sarà meglio che ti sbrighi ad infilarti l’armatura e a raggiungere i tuoi uomini!» gridò, prima di precipitarsi fuori.
Solo in quel momento, Lucio si rese conto del trambusto che proveniva dall’esterno. Senza soffermarsi in riflessioni inutili, balzò giù dal letto e si preparò tempestivamente.
Fuori della tenda trovò il caos più totale. I soldati correvano ovunque, ciascuno in cerca dei vessilli di appartenenza della propria centuria, come l’addestramento militare aveva loro insegnato a fare. Decine di tende erano ormai quasi completamente divorate dalle fiamme. Lucio fece appena in tempo a sollevare gli occhi che una nuova pioggia di frecce infuocate cadde sul settore dove si trovavano la sua tenda e quelle degli altri ufficiali. Un paio di queste furono centrate e nuovi falò si aggiunsero alle altre che già divampavano nel campo.
Una freccia andò a conficcarsi nel petto di un giovane legionario, poco distante da lui, che subito si accasciò al suolo. Le fiamme attecchirono sulla tunica del malcapitato, che prese fuoco con una velocità impressionante, come fosse stato un semplice ramo secco. Il legionario era già morto, ma Lucio si tolse comunque il mantello e glielo gettò addosso, per spegnere il fuoco. Qualcuno, però - un altro giovane tribuno -, gli infilò le mani sotto le ascelle e lo tirò su di forza.
«Lascia perdere, Lucio, non puoi fare niente per lui. Non vedi che è già morto? Cerchiamo il legato, piuttosto» gli disse quello.
Insieme si diressero nel punto di adunata. Gli ausiliari stavano già rispondendo all’attacco dei barbari con altrettante frecce infuocate. Lucio seguì con lo sguardo le loro traiettorie, eccitato e sgomento allo stesso tempo. A metà strada, quelle si incrociarono con la nuova ondata lanciata dai nemici e, per un attimo, tutta l’area fu illuminata a giorno. Fu allora che intravide i guerrieri germanici a ridosso dell’altura a nord della valle.
Lucio trattenne il respiro. Sembravano molti di più di quanto avessero calcolato. Un istante prima che le frecce romane si abbattessero su di loro, un guerriero barbaro a cavallo in cima all’altura sollevò un’enorme spada a due tagli sopra la testa ed emise un urlo selvaggio, seguito subito dal resto dei suoi uomini. Il boato assordante che ne scaturì investì l’accampamento, facendo vibrare cose e uomini.
«Per tutti gli dei, non può essere umano!» esclamò atterrito il tribuno al suo fianco. Lucio non riuscì a stabilire se si riferisse alla pelliccia d’orso che il cavaliere indossava o alla sua gigantesca statura, impossibile da non notare nonostante la distanza. Eppure non furono quei due particolari a suggestionarlo, piuttosto il fatto che il barbaro non indossava nessun tipo d’armatura. Il torace sotto la pelliccia era nudo, il volto scoperto. Niente scudi, né elmi. Ciò nonostante, l’impavido cavaliere non retrocedette dinanzi al muro di frecce che lo investì, piuttosto gli andò incontro con incosciente entusiasmo, deviando le frecce con la spada. La maggior parte dei barbari seguì il suo esempio.
Lucio assistette a quello spettacolo con un senso di smarrimento, gli occhi e la bocca spalancati dallo sgomento.
Per la prima volta da quando aveva messo piede in Britannia, capì cosa volesse dire essere un legionario e avere davvero paura.


Nei giorni successivi al primo attacco dei barbari - che si rivelò simbolico in quanto di breve durata e tutto sommato inoffensivo - si alternarono una serie di scontri veloci e piuttosto innocui per ambo le parti. I barbari non sembravano disposti a scontrarsi in campo aperto con l’esercito romano. La loro tattica consisteva in brevi incursioni, che effettuavano in ogni momento, di giorno e di notte, e con i quali miravano più che altro a sfiancare i nervi dei soldati romani.
Quando si ritiravano nella foresta, era come se avessero il potere di rendersi invisibili, di dissolversi nell’aria, tanto riuscivano a nascondersi bene. Proprio per questo, il legato Flavio non si decideva a intentare un’azione decisiva. Lo scopo dei nemici era chiaramente quello di attirarli nei boschi, e troppe erano le insidie che vi si celavano.
Come se non bastasse, da giorni era stata inviata una staffetta al generale per metterlo al corrente della situazione particolare in cui la Ventesima si trovava e ricevere ulteriori ordini al riguardo. Tuttavia, nonostante fosse ormai passata una settimana, non avevano ancora ricevuto risposta, e si cominciava a pensare che il messaggio fosse stato intercettato.
Il morale degli uomini si faceva sempre più basso e questo preoccupava il legato più dell’idea stessa di affrontare i nemici nei boschi. Una sola legione, se ben motivata, poteva far fronte ad un esercito sconfinato di barbari, ma dieci legioni demoralizzate non sarebbero state in grado di sopraffare nemmeno un villaggio di contadini. Così inviò una nuova staffetta al generale. Nello stesso tempo, decise di mandare due coorti a scovare quei codardi che preferivano nascondersi come conigli anziché combattere da uomini.
Lucio si era prestato volontario per la missione che tutti sapevano essere un’impresa senza speranza, ma il legato Flavio gli aveva risposto che preferiva tenere gli uomini migliori come ultima riserva e, sebbene si fosse sentito onorato dall’alta considerazione che l’ufficiale aveva mostrato di avere nei suoi riguardi, ciò non era bastato a far fugare la delusione provata dinanzi a quel diniego. Non perché avesse fretta di confrontarsi in battaglia con i nemici, ma perché l’attesa all’interno del fortino gli stava logorando i nervi. Era stanco di aspettare la sorte: preferiva andarle incontro e affrontarla, una volta per tutte.
Due giorni dopo l’invio dei manipoli nei boschi, in cima all’altura, comparvero un centinaio di cavalieri germanici disposti in una lunga fila in mezzo alla quale spiccava il gigante biondo, che avevano scoperto essere il principe Chrigel, figlio del re Akon, e che tutti chiamavano il Guerriero Orso a causa della pelliccia che indossava di solito nonostante il caldo.
I cavalieri stringevano in mano oggetti dalle forme rotondeggianti. Il Guerriero Orso alzò le braccia emettendo un possente urlo animalesco e i suoi uomini seguirono il suo esempio, sollevando a loro volta due, tre sfere ciascuno, per poi scaraventarle giù dall’altura.
«Oh, per tutti gli dei, sono teste» gemette con la voce strozzata un giovane ufficiale, che si strinse lo stomaco con le braccia e si allontanò velocemente, in preda ai conati di vomito. Anche Lucio sentì il reflusso dei succhi gastrici risalirgli l’apparato digerente, e dovette fare uno sforzo enorme per fermarlo in gola.
Il gigante biondo guidò il cavallo di traverso giù dall’altopiano e scese fino ad arrivare a pochi metri dal fossato che era stato scavato lungo tutto il perimetro esterno, a ridosso delle palizzate.
«Romani!» gridò con quanto fiato aveva in corpo, sollevando un grappolo di teste mozzate dalle quali uscivano cordoncini sanguinolenti. Lucio si affrettò sul ballatoio dove si trovava già il legato Flavio.
«Sono Chrigel, figlio di Akon, re dei Germani. La prossima volta mandatemi uomini più valorosi di questi, così che con le loro teste io possa fare una collana per il mio cavallo. Con queste non so che farmene!» gridò, gettando le teste contro il fortino. Una andò a conficcarsi in uno dei pali appuntiti piantati nel terrapieno; le altre rimasero impigliate fra i pali, o rotolarono giù per il fossato.
Lucio stava per rispondere alla provocazione, ma il legato lo trattenne per un braccio e gli impedì di farlo. Al Germano, tuttavia, non sfuggì quel particolare. Sollevò lo sguardo su di lui e lo fissò a lungo, con un ghigno fiero sulle labbra.
Lucio sentì il livore divorarlo. Avrebbe voluto precipitarsi fuori, scontrarsi con quel volgare barbaro e fargliela pagare per la scena raccapricciante a cui li stava obbligando e per le parole umilianti con cui aveva infangato l’onore dei legionari. Serrò le mascelle e digrignò i denti con ferocia.
Il Germano, notando la sua frustrazione, proruppe in una oscena risata di scherno. Infine fece voltare il cavallo e tornò dai suoi uomini, continuando a ridere sguaiatamente e a urlare vittorioso.
   
 
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