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Autore: Adeia Di Elferas    07/02/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Anche a Venezia era arrivata – da qualche giorno appena – la notizia certa della morte degli ultimi Varano, per mano dei sicari del Valentino o, dicevano i suoi più accaniti oppositori, per mano del Borja stesso.

Giovanna Malatesta, fin dal momento in cui aveva sentito per la prima volta dire che Venanzio, suo figlio adorato, era morto, non aveva fatto che piangere e strapparsi i capelli, tanto che, si diceva, ormai dovesse indossare una parrucca, in pubblico. Si era dimostrata addolorata anche per la morte di Annibale e Pirro – che aveva chiamato più volte 'quel povero fanciullo' – malgrado fossero stati figli solo di suo marito e non anche suoi.

Nel palazzo che la ospitava assieme alla nuora, non si poteva citare il nome di Cesare Borja, e nemmeno quello del papa, che la Malatesta mandava un grido acuto e poi, percuotendosi il petto, ricominciava a straziarsi come una prefica dell'antico Egitto.

Maria Giovanna, quindi, che invece sentiva l'urgenza di discutere degli affari del Vaticano e della guerra che non accennava a fermarsi, stava vivendo giornate tremende, in silenzio assoluto, come una penitente. La suocera aveva imputato quella sua apparente apatia al trauma di essersi saputa vedova, lasciata sola con tre figli, in balia degli eventi, senza capire che, invece, la mente e l'anima della Della Rovere ribollivano con mille idee e mille progetti, ma che le era impossibile anche solo farvi cenno, in sua presenza.

L'unico depositario dei pensieri della giovane era Giovanni Andrea Bravo che, quasi ogni notte, trovava il modo di infilarsi nel suo letto e raccogliere tanto le sue parole, quanto il suo amore e il suo bisogno di sentirsi amata.

Si era sorpreso un po' nello scoprire, nell'amante, una reale indifferenza alla morte di Venanzio. Di certo non si era atteso di trovarla dispiaciuta, ma aveva creduto di vedere una Maria Giovanna almeno sollevata dal non aver più il peso di quel marito, o, anche, spaventata dall'incertezza del futuro.

“Andrea – gli diceva spesso lei, chiamandolo come aveva iniziato a chiamarlo fin dopo la prima notte passata assieme – il papa non vivrà per sempre, e mio zio è Cardinale...”

A quelle parole, ogni volta, Bravo restava stranito, domandandosi se la sua amante credesse davvero possibile che proprio Giuliano Della Rovere, acerrimo nemico di Rodrigo Borja, potesse essere il nuovo papa, e poi tentava di ridimensionarla, sussurrando: “Ma chissà tra quanti anni morirà, quella canaglia di Alessandro...”

A volte la donna lasciava cadere l'argomento, o con un sospiro pesante, o cambiando discorso, ma in alcuni momenti, quando si sentiva particolarmente sicura di sé, stretta al suo uomo, resa impavida dall'idea di avere un amante sotto al naso della suocera senza che lei ne avesse il minimo sentore, ribatteva: “Quando mio zio sarà papa, tu sarai mio marito.”

Giovanni Andrea, in quei casi, rideva con dolcezza, la baciava e le assicurava: “Che il diavolo Borja muoia presto, allora...”

C'erano stati momenti che avevano rasentato la follia, almeno secondo veronese, in cui la Della Rovere aveva proposto di scappare insieme. Nemmeno citarle i suoi figli – che lei, era ormai chiaro a tutti, detestava – serviva a farla desistere. In quei frangenti, sembrava una bambina capricciosa, ma poi, lasciata sbollire, tornava a farsi mansueta e accantonava le sue fantasie girovaghe.

Quel giorno, nel palazzo che ospitava le vedove dei Varano, arrivò niente meno che Guidobaldo Maria da Montefeltro in persona. Non aveva fatto loro visita nemmeno una volta, fino a quel giorno, ma, evidentemente, doveva aver stabilito che il tempo era giunto, viste le novità che arrivavano dal centro Italia e da Bologna.

Il deposto signore di Urbino si era palesato al dichiarato scopo di mettere al corrente la vedova di Giulio Cesare da Varano e quella di Venanzio da Varano degli ultimi risvolti della guerra: era, infatti, convinto che anche loro, malgrado fossero donne, avessero il diritto di sapere cosa stesse succedendo e di valutare con la propria testa il da farsi.

Mentre Guidobaldo riportava come Miguel de Corella fosse entrato a Città di Castello con seimila uomini, tra cavalli e fanti, e poi fosse stato respinto in val di Chiana, finendo a occupare Mugnano e ripiegando sul castello di Viterbiano, che si era dimostrato più facile da saccheggiare, Giovanna Malatesta non faceva altro che piangere in silenzio, allungando di quando in quando una mano verso di lui, affinché lui gliela stringesse, a mo' di conforto.

Raccontò loro dei movimenti strani di Bartolomeo d'Alviano, di come avesse recuperato la moglie, che era stata fatta prigioniera dal Borja e di come, adesso, sembrasse intenzionato a trovare un ponte di collegamento coi Bentivoglio.

“E suo cognato, Baglioni, che farà..?” chiese a quel punto la Malatesta, aggrappandosi ancora di più alla mano del Montefeltro, quasi fosse un prete intento a darle l'assoluzione.

“Non lo so, ma da quello che ho capito, non lascerà presto la Toscana, benché abbia cercato di far credere a tutti che la sua metà ultima sia Ravenna, dal cognato...” soppesò l'uomo.

“E Firenze, in tutto questo, che fa?” domandò Maria Giovanna, che fino a quel momento era rimasta zitta, ma che, di punto in bianco, sentiva il sangue ribollire: “Dicevano che la Repubblica fosse un baluardo della democrazia e della stabilità, ma cosa sta facendo per difendere l'Italia dai Borja? Il nostro stesso esilio volontario qui a Venezia non è forse una prova del loro fallimento?”

Tutti, dalla suocera, finanche a Giovanni Andrea Bravo, che era nella sala con loro, si misero a fissarla, straniti sia da tanta eloquenza sia dal trasporto con cui aveva posto quel quesito.

Guidobaldo, tuttavia, dopo una prima incertezza, si rivolse direttamente a lei, nel rispondere: “In effetti, Firenze sta facendo molto poco... Hanno un nuovo ambasciatore, un Salviati, e sembra che stia facendo del suo meglio per arrivare a una pace, ma...”

“Ma come tutti fa solo tante chiacchiere.” tagliò corto la Della Rovere, avvampando subito dopo, resasi conto di aver osato troppo, sia per il suo ruolo in quella strana famiglia, sia per la considerazione che gli altri avevano di lei.

“Mia nuora è sconvolta, perché ha da poco saputo di essere rimasta vedova.” disse, glaciale, suo suocera: “Perdonatela, per tanta insolenza...”

Il Montefeltro fece un sorriso comprensivo, con le sue labbra sottili, e scosse il capo: “Trovo sia un bene che la nostra cara Maria Giovanna esprima liberamente i suoi pensieri, quando ci troviamo in famiglia...”

A quelle parole, lo sguardo della Malatesta scattò, andando dritto a Bravo. Questi, ufficialmente presente come guardia armata delle due donne e come soldato favorito del Duca d'Urbino, rimase impassibile.

“In ogni caso – concluse Guidobaldo, avvertendo per la prima volta una certa tensione correre tra gli altri tre – noi tutti resteremo qui a Venezia finché le acque non si saranno calmate. Per qualsiasi cosa, vi prego di cercarmi e io vi aiuterò come potrò.”

Le due vedove Varano lo salutarono in modo compito e Giovanni Andrea gli strinse la mano, come un vecchio amico. Solo quando il Montefeltro se ne fu andato, il veronese lasciò che la Malatesta si ritirasse nelle sue stanze e poi, con un pretesto, filò dietro alla Della Rovere. Appena furono sufficientemente lontani da tutto e tutti per essere relativamente sicuro di non essere né visto né sentito da nessuno, il ragazzo le afferrò una mano, inducendola a fermarsi.

“Non attirare l'attenzione su di te.” le consigliò: “Teniamo il più possibile un profilo basso.”

La giovane lo guardò per un lungo momento. Non sapeva dire nemmeno lei cosa le avesse preso, poco prima, ma sapeva che non era riuscita a tacere e che, forse, quella spinta a intervenire si sarebbe ripresentata. Era come se, morto Venanzio, alla fine qualcosa in lei si stesse smuovendo.

Così, con un la fronte aggrottata, rispose solamente: “Ancora non mi conosci bene, così come non mi conosco io stessa, quindi non posso prometterti proprio nulla.”

Suo malgrado, Bravo non poté che restare conturbato da quella dichiarazione e, con un mezzo sorriso, poté solo chiederle: “Questa notte vuoi che ti raggiunga?”

“Come sempre, amore mio.” asserì subito lei, con un sorriso che, una volta per tutte, andava a spianare ogni preoccupazione.

 

“Io non ho mai e poi mai detto che Lorenzo è un ottimo fiorentino!” sbottò Caterina, dando un colpo col dorso della mano alla lettera che Nicolò di Gheri, suo legale rappresentante al processo contro suo cognato Lorenzo, aveva appena fatto recapitare.

Fortunati scosse il capo, cercando, anche con la gestualità, di arginare la collera della sua amata. La Tigre, alla fine, si era dovuta arrendere e aveva dovuto posticipare la visita tanto desiderata al piccolo Giovannino, e questo fatto sembrava averla resa ancor più insofferente riguardo a ogni minima cosa.

Il piovano non voleva che si mettesse a gridare, specie perché era tarda sera, ed erano nella di lei camera. Se avesse alzato troppo i toni, di certo qualcuno si sarebbe preoccupato e sarebbe arrivato a controllare: non era il caso che venissero trovati lì assieme. Anche se il fiorentino era ufficialmente il suo confessore e anche se tra loro c'era sempre stata una nota familiarità, Francesco non voleva per nessun motivo essere visto in vestaglia da notte nella camera della Sforza.

Caterina, però, rispose ai movimenti cauti dell'uomo arrabbiandosi ancora di più: “E poi che significa che io ammetto di essere sua... Aspetta, com'è che ha scritto..?” guardò ancora un momento la pagina, cercando, probabilmente, un altro stralcio del resoconto dell'udienza del 26 febbraio per rinfacciarla a Fortunati, in veste di personificazione del suo legale e, più in generale, della strategia difensiva che era stata scelta per lei.

Il piovano, però, quella volta fu più veloce. Afferrandole una mano con le proprie, andò avanti a scuotere il capo e a farle segno di fare silenzio.

La Leonessa, furente, ma capendo finalmente l'intento concreto del suo amante, si morse le labbra e attese qualche minuto, per riprendere fiato e calmarsi, poi chiese: “Tante attenzioni a non urtare Lorenzo, definendolo il fiorentino d'oro del secolo, e poi il tuo amico Nicolò mi chiama Contessa Sforza? Seriamente? In un tribunale fiorentino? Ti ricordo che il titolo me l'hanno tolto i francesi, che di Firenze sono gli alleati principali...”

L'uomo non seppe come obiettare, ma volle cercare di far concentrare la milanese sulle cose positive che si leggevano nelle parole di Nicolò: “Però Lorenzo, dalla nostra parte rappresentante, è stato definito legittimo debitore di sessantasei mila denari, più, se leggi bene, di altri ventiquattromila, risalenti al periodo che va dal Novantasei al Millecinquecento, perché nei tuoi libri compare ogni cosa, mentre Lorenzo non ha ancora voluto produrre gli atti che...”

“Avevo già detto che non volevo che Giovanni venisse coinvolto in questi affari... Qui si dice che all'epoca sono stati miei debitori sia Lorenzo, sia Giovanni, sia altri loro compagni... Giovanni non mi ha mai dovuto nulla.” la voce della Tigre si stava facendo via via meno collerica e sempre più sottile: “Sono io che ho dovuto tante cose a lui... Ha ricomprato i miei gioielli, ha comprato molte cose che io e i miei figli non potevamo permetterci... Ci ha dato tanto, non solo in termini economici... Lui non mi è mai stato debitore, casomai sono io che sono e sarò sempre sua debitrice...”

Il piovano ascoltò senza trovare il modo di dire nulla. Gli metteva una tristezza infinita sentir parlare del Medici che, per anni, era stato suo amico. Ricordava benissimo l'amore che aveva legato Caterina e Giovanni, lo ricordava così bene che, a volte, proprio quel ricordo era quasi un freno all'amore che egli stesso provava per la Tigre.

“Io so bene che uomo fosse Giovanni, quanto fosse generoso e buono... Purtroppo, però, se vogliamo portare a casa il meglio, da questo processo...” provò a dire il fiorentino, con il cuore pesante.

“No.” tagliò corto la Sforza: “Non mi interessa come ripiegherà questa cosa, ma devi dire a Nicolò che non voglio mai più che si nomini Giovanni come mio debitore. Per nessun motivo.”

Francesco rimase un attimo in silenzio, poi, a fatica, lasciò andare le mani della donna. Pensò che, intanto, avrebbe fatto come ordinava lei, ma, nel caso fosse servito, avrebbe dato il contrordine al legale, in modo da non finire a perdere un processo per una sciocca remora morale.

Proprio perché aveva conosciuto a fondo Giovanni Medici, sapeva che lui per primo, se fosse stato utile a far uscire vincitrice la donna che aveva tanto amato, avrebbe dato il nullaosta per essere descritto come un debitore incallito.

“Va bene.” soffiò alla fine Fortunati, senza mettere a parte dei suoi ingarbugliati pensieri anche la Tigre.

Abbastanza soddisfatta, la donna si calmò un po', ripiegò la lettera e poi sussurrò: “La prossima udienza è tra pochissimi giorni... La lascerò passare, ma dopo, intendo subito dopo, voglio andare da mio figlio.”

“Va bene.” ripeté il piovano, chinando appena la testa.

 

Bartolomeo d'Alviano aveva accettato quell'ultimo incontro con i Bentivoglio, sia perché era curioso di sentire quali sarebbero state le loro ultime parole, sia perché il viaggio che l'avrebbe riportato a Ravenna si preannunciava funestato dal brutto tempo.

Giusto quella mattina, uno dei suoi attendenti, che sosteneva di poter sentire la pioggia con due giorni d'anticipo grazie ai dolori della propria schiena, gli aveva annunciato che avrebbero trovato temporali e acquazzoni per tutto il tragitto.

Così, quella mattina, di buon ora, si era presentato al palazzo di Giovanni Bentivoglio, si era fatto annunciare e poi aveva atteso pazientemente che il signore di Bologna lo raggiungesse nell'ampia sala in cui era stato fatto accomodare.

Un po' a sorpresa, però, non arrivò solo Giovanni: con lui c'erano anche due dei suoi figli, Annibale, di circa trentaquattro anni, e Alessandro, di ventinove anni. Entrambi erano vestiti in modo elegante, ma tra i due era il primo ad aver ereditato dal padre l'imponenza militaresca delle spalle e del passo cadenzato: Alessandro era più gentile, si muoveva in modo misurato, e il suo sguardo tradiva una bontà d'animo e una pazienza che di rado si poteva scorgere in un uomo d'armi.

“Se vi ho fatto tornare qui anche oggi – iniziò a dire Giovanni, ben conscio delle difficoltà dell'Alviano nel parlare e quindi deciso a levargli il più possibile quell'incombenza – è perché voglio che sia chiaro quello che ci siamo detti nei giorni scorsi.”

Bartolomeo annuì, chiedendosi, però, a che stesse servendo davvero quell'incontro. Il Bentivoglio, nei loro precedenti abboccamenti, aveva ribadito più e più volte di essere anche lui sotto minaccia pontificia, di essere un povero martire delle guerre che correvano da nord a sud dell'Italia, di essere rammaricato, ma di non poter agire nell'immediato per rovesciare i Borja, benché si sentisse da loro vessato e a tratti preso in giro.

Dunque, che c'era da capire, se non che il signore di Bologna non era contrario a una ribellione, ma non voleva prendervi attivamente parte, almeno per il momento?

“Lui è mio figlio Annibale.” riprese Giovanni, con un lento sospiro: “Lui è la mia roccia. È la mia spada.”

Il figlio, orgoglioso, gonfiò un po' il petto, mentre con gli occhi severi fissava l'Alviano che, più alto di lui, si sentì comunque un po' intimidito dalla prestanza del Bentivoglio.

“Lui e sua moglie, la cara Lucrezia – proseguì il padre, con un breve sorriso nel dire il nome dell'Este – mi hanno dato già tanti nipoti e sono certo che me ne daranno altri. Lui è la mia gioia e il mio futuro, nonché il mio soldato migliore.”

Ancora senza capire dove sarebbe andato a parare il discorso, Bartolomeo annuì di nuovo, come a dare il tacito consenso affinché quello strano monologo proseguisse.

“Lui, invece, è mio figlio Alessandro.” e indicò l'altro figlio che, a differenza del fratello, abbassò un momento lo sguardo, invece di impettirsi: “Lui è la voce della ragione e della gentilezza, in questa casa... Nondimeno, è anche un bravo guerriero e tutti lo rispettano, per questo. Lui darà a Bologna la stabilità, quando io non ci sarò più, e consiglierà a dovere suo fratello.”

Bartolomeo spostò il peso da un piede all'altro, guardando interrogativo Giovanni. Fu sul punto di aprire bocca e chiedere apertamente cosa dovessero importare a lui quegli equilibri familiari, quando il Bentivoglio lo anticipò.

“Loro due serviranno a Bologna. Per la sua difesa e per il suo onore.” riassunse: “Ma mio figlio Ermes, quel mio figlio adorato che sta in Toscana, adesso, per cercare di raddrizzare le sorti del mio figlioccio Ercole...”

La pausa che seguì il nome del figlio di primo letto della moglie di Giovanni Bentivoglio accese ancora di più la curiosità dell'Alviano. Ercole era stato da poco liberato per tramite di Milano e il Valentino aveva dovuto lasciarlo andare per forza. Si era trattato di un affare da poco, ma di un grande smacco per la vanagloria borgiana.

“Ecco, lui sta diventando sempre più bravo e volenteroso. Lui sì che è un uomo che possa servire alla causa.” tirò le somme il signore di Bologna: “Ma non direttamente dal vostro versante che, con tutto il rispetto, ci interessa poco. Noi, con le città del Centro, abbiamo pochi affari, pochi contatti, sapete... Mio figlio Ermes, quando sarà il momento buono, aiuterà Madonna Sforza a riprendersi la Romagna.”

Bartolomeo sollevò involontariamente le sopracciglia e poi chiese, la voce arrochita dal lungo silenzio: “E Madonna Sforza lo sa?”

“Nel tempo ho già avuto modo di avere contatti con lei... Tuttavia ho intenzione presto di prendere contatti con suo figlio Ottaviano, che non è lontano da qui, al momento...” spiegò il Bentivoglio: “E se noi staremo dalla parte della Tigre di Forlì, e voi dalla parte di Venezia e delle terre di vostro cognato Giampaolo Baglioni...”

“Stringeremmo in una morsa i Borja.” farfugliò l'Alviano, litigando con la propria lingua.

“Non chiedo di meglio.” sorrise Giovanni: “Quindi ci siamo intesi.”

“E parteggerete per la Sforza solo per una questione di vicinanza territoriale?” domandò il condottiero, parlando lentamente per non incespicare.

A quel punto il Bentivoglio si fece scuro in volto e ammise: “Non solo.” si voltò verso Alessandro, che aveva di nuovo abbassato gli occhi: “Mio figlio è un sentimentale. Sua moglie è al settimo mese di gravidanza, e lui la ama... Colpa mia, che l'ho fatto sposare alla nipote di quella Leonessa...”

Alessandro, che pur dava l'impressione di essere un figlio abbastanza diligente da sapere quanto tacere, fece mezzo passo avanti e disse: “Mia moglie Ippolita ha difeso Casteggio, che era la sua città, finché ha potuto: io le ho promesso che riavrà tutto quanto, a guerra finita.”

“E così sarà...” sbuffò suo padre: “E noi riavremo Castel Bolognese e tutte le terre che quel diavolo d'un Duca ci ha portato via.”

I quattro uomini scambiarono ancora qualche battuta, parlando anche della recente morte di Giovan Battista Orsini, il Cardinale che aveva preso parte alla ribellione dei condottieri del Valentino. Era stato – si diceva – avvelenato mentre era imprigionato in una delle segrete di Castel Sant'Angelo. La sua dipartita aveva permesso al Borja di prendere anche un castelluccio difensivo degli Orsini e, in generale, aveva indebolito molto i superstiti della famiglia.

“So che questo, per voi, è solo ulteriore motivo d'astio verso il papa e suo figlio...” disse il Bentivoglio, guardando in modo penetrante Bartolomeo: “Anche se adesso avete per moglie una Baglioni, so che Bartolomea Orsini era una donna fuori dal comune. Tutta Italia lo sapeva...”

Bartolomeo sollevò una mano, per frenare le parole del suo interlocutore e questi, per non rompere il clima amichevole che s'era instaurato, ubbidì e cambiò discorso, iniziando ad andare alla porta.

“E così – disse – mi raccontavate che adesso tornerete a Rimini...”

“E poi andrò a Venezia.” ribadì lui: “Chiederò quattromila ducati, per tornare nel perugino, assieme al Montefeltro e scacciare i borgiani...”

“Non so dire se sia più facile uccidere un diavolo di Borja o farsi dare un denaro dal Doge Loredan...” rise il Bentivoglio: “Ho sentito dire che anche Giovan Francesco Gambara è a Venezia, per chiedere perdono per aver ospitato i Sanseverino, suoi parenti... Ma probabilmente è lì anche lui solo per chiedere soldi...”

L'Alviano fece una smorfia, che avrebbe voluto essere un sorriso, e seguì il padrone di casa fin nell'atrio.

“Mi raccomando – concluse il Bentivoglio, con i due figli sempre a fargli da accompagnatori, uno per lato – state attento e ricordate da che parte sta Bologna. Dionigi Naldi sta raccogliendo uomini nel cesenate... Il toro valenciano non è ancora domato: gli dobbiamo spezzare le corna, prima che spezzi noi.”

Bartolomeo allungò una mano, strinse quella di Giovanni e poi quella di Annibale e Alessandro e, chiudendo meglio la cappa, tirandosi il cappuccio in testa, per fronteggiare le prime gocce di pioggia che iniziavano a cadere, disse: “Anche i tori crepano, se li si sa infilzare su uno spiedo da guerra.”

Pur non apprezzando il greve modo di esprimersi del guerriero, il Bentivoglio gli diede ragione e poi, con un ultimo saluto, gli augurò buon viaggio e concluse: “Nemmeno i papi vivono in eterno...”

 

   
 
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