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Autore: Adeia Di Elferas    11/02/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'udienza del processo tenutasi un paio di giorni prima non aveva acceso quasi nessun interesse, nella Tigre. Anche se aveva finto di ascoltare attentamente il resoconto di Fortunati, le sembrava che al tribunale tutti si divertissero solo a perdere tempo e cercare di confondere le acque per far prevalere la propria parte.

Era arrivata, quindi, alla Murate con il cuore gonfio di impazienza e l'anima pesante per il gran senso di impotenza che provava ogni qual volta pensava alla propria amara situazione. Come aggravante, per il suo umore, c'era la raccomandazione pressante di Francesco, che le aveva ricordato più e più volte che, in via ufficiale, era in convento per pregare, sia per la sua anima, sia per quella dei giudici chiamati a giudicarla al processo, affinché scegliessero correttamente chi far uscire vincitore del foro.

Quella premessa, dunque, le imponeva di farsi vedere, almeno da qualche monaca, intenta a raccogliersi in preghiera in più occasioni, e ciò sarebbe andato a ridurre il tempo a sua disposizione per scappare al convento d'Annalena a trovare Giovannino. Fortunati era stato molto chiaro, quando le aveva ribadito che farsi vedere intenzionata a seguire una vita pia e a cercare la redenzione dei propri – tanti – peccati, le sarebbe tornato molto utile, in sede processuale.

Così, preso possesso della celletta che Suor Elena le aveva tenuto da parte, la Sforza aveva dapprima voluto comunque vedere il figlio, ma si era trattenuta da lui meno di quanto avrebbe voluto, promettendogli, però, che sarebbe tornata già il giorno dopo. Quello stesso pomeriggio, seppur controvoglia, si era dunque andata a sistemare nella cappella delle Murate e aveva giunto le mani davanti a sé, iniziando a mormorare sottovoce le preghiere in latino che aveva imparato da bambina.

In realtà la sua mente stava tornando a Giovannino, al suo bel viso, al suo modo energico di muoversi, alla sua voce, decisa, ma gentile, e alla consapevolezza che, ormai, aveva quasi cinque anni e diventava sempre più complicato farlo passare per una bambina e tenerlo nascosto. Era fondamentale vincere il processo e farlo in fretta...

Fino all'ora di cena, la donna non fece che ripensare all'incontro avuto con il figlio, al calore che l'aveva invasa nel momento stesso in cui il piccolo Medici le era letteralmente saltato al collo e le aveva baciato la guancia, e al disappunto che aveva provato nel sapere che le monache ancora, malgrado le sue insistenze, non avevano iniziato a insegnargli a leggere e scrivere, prediligendo il mero studio di preghiere e formule ecclesiastiche che, per altro, Giovannino non capiva, non conoscendo il latino.

Caterina s'era fatta punto d'onore quello di iniziare, in quei pochi giorni, a spiegargli i rudimenti, almeno, della lettura, ma si rendeva conto che sarebbe stato un tentativo vano, specie perché il bambino, in sua presenza, voleva solo correre e saltare, voleva che lei gli mostrasse come tenere in mano una spada e che gli raccontasse ancora le storie dei suoi nonni e dei suoi bisnonni milanesi.

Ancora troppo presa dai propri pensieri per poter sopportare a lungo la vicinanza di altre persone, la Tigre chiese di poter cenare nella propria cella, e venne prontamente accontentata. Solo a sera ormai inoltrata, quando si era convinta che nessuno sarebbe venuto a ritirare il piatto di minestrone ormai vuoto e freddo, sentì bussare.

La porta era aperta, perciò dovette semplicemente invitare a voce a entrare e si sorprese solo fino a un certo punto, quando si vide dinnanzi il volto tranquillo e leggermente intimorito di Suor Ubbidienza.

“La cena è stata di vostro gradimento?” chiese la religiosa, andando a recuperare le stoviglie.

La Sforza avrebbe voluto fare una battuta di spirito sulla mensa delle Murate, che di certo impediva di peccare di gola, ma si trattenne, temendo che una donna come Suor Ubbidienza faticasse a cogliere quel genere di ironia, perciò rispose solamente: “Vi ringrazio per l'ospitalità.”

Siccome, però, la monaca non accennava ad andarsene, la milanese le chiese se le servisse qualcosa e questa, un po' in imbarazzo, arrossì e ammise: “Mi chiedevo se, per caso, voleste vedere vostra nipote Cornelia... Ho notato che l'avete evitata, ma la bambina ha saputo che siete qui e vorrebbe incontrarvi...”

Caterina, che era seduta sul letto, le mani strette in grembo, ci mise qualche secondo per analizzare a dovere la richiesta. Aveva visto Cornelia di sfuggita, quella mattina, quando era arrivata, ma non le era nemmeno passato per la mente di avvicinarla e salutarla... Era un po' più grande di Giovannino e aveva due occhi scuri e svegli, che ricordavano molto quelli che aveva avuto, alla stessa età, suo padre Ottaviano.

La donna si morse le labbra, sinceramente combattuta. Da un lato, razionalmente, era conscia del fatto che la piccola non aveva colpe, e sapeva che sarebbe stato un suo dovere dimostrarle affetto, ma dall'altro temeva un confronto diretto con lei, specie ora che iniziava a essere in grado di capire tante cose e di cogliere tante sfumature... Non era più una bambina di quattro anni...

“Io...” provò a dire Caterina, senza riuscire a risolversi.

“Non importa...” l'anticipò la suora: “Perdonatemi, vi lascio riposare...”

“No, aspettate...” sospirò la Sforza: “Potete portarmela qui? O preferite che vada io da lei?”

“Ve la porto subito qui.” sorrise Ubbidienza, convinta che, stando in quella cella, forse la Tigre si sarebbe trovata più a suo agio, trattenendo con sé la nipote un po' più a lungo.

Detto fatto, Cornelia venne portata nel giro di cinque minuti al cospetto della nonna. La Leonessa, un po' impacciata, provò ad allargare le braccia, ma la piccola si fidò ad abbracciarla solo dopo aver scambiato una lunga occhiata con Suor Ubbidienza.

Mentre Caterina e la nipote erano ancora strette l'una all'altra – senza particolare trasporto – Suor Ubbidienza si congedò, sottovoce, lasciandole sole.

La Tigre, a quel punto, cercò di porre qualche semplice domanda a Cornelia che, con la ritrosia dei bambini timidi, rispose con poche secche parole. La donna stava per abbandonare ogni tentativo di trovare un contatto con la nipote, quando fu questa a rompere il ghiaccio.

“Posso fare le trecce..?” chiese, indicando con il piccolo indice i lunghi capelli bianchi della Sforza, che ricadevano sciolti sulle sue spalle.

“Sei capace?” chiese la milanese, con un sorriso.

La bambina, in tutta risposta, annuì, con una certa cupezza e tese le manine verso di lei, come a dire che, se glielo avesse permesso, glielo avrebbe dimostrato. Riconoscendo in quel modo di atteggiarsi Ottaviano, o, meglio, il bambino che Ottaviano era stato, prima di trasformarsi in un adolescente violento e rancoroso e poi in un adulto sconclusionato e annoiato, Caterina non si fece pregare.

Senza troppe cerimonie si sedette in terra e lasciò che Cornelia stesse sul letto, in modo che arrivasse perfettamente alla sua testa e la incitò: “Fammi vedere quello che sai fare.”

Mentre la piccola Riario lavorava alacremente con le sue dita sottili, la Leonessa si mise a pensare a Ottaviano, a ciò che era stato e a ciò che era diventato. Si chiese cosa ne sarebbe stato della bambina che ora le stava acconciando i capelli e di cosa avrebbe pensato, una volta cresciuta, di suo padre e del modo orribile in cui era stata concepita e messa al mondo, rifiutata da una madre ragazzina, che l'aveva comprensibilmente percepita come una sciagura.

Si chiese, quasi distrattamente, quante altre donne suo figlio avrebbe disturbato, rovinato e sfruttato e si sentì una debole e un'ipocrita nel non far nulla per impedirglielo. Eppure, così com'era stato con Girolamo, si sentiva del tutto impotente a riguardo.

Si chiese anche cosa sarebbe successo quando Ottaviano fosse tornato dall'Emilia, dove ancora si trovava, e avesse trovato alla villa Pier Maria. Sarebbe stato quasi impossibile non fargli sapere cos'era successo, e perché mai davvero Bianca fosse andata a Roma per sposare il De Rossi. Come avrebbero fatto, tra tutti, a impedirgli di rovinare tutto anche quella volta?

La Leonessa fece un sospiro pesante e Cornelia, continuando a lavorare, borbottò: “Ho quasi finito...”

“Fai con calma...” sorrise Caterina, immergendosi di nuovo nei suoi pensieri.

Scipione le aveva scritto spiegandole che a Bologna qualcosa si stava muovendo davvero e che i Bentivoglio si erano dichiarati, in modo nemmeno tanto velato, favorevoli a una sua restaurazione a Forlì e Imola, dato che, durante il suo governo, con loro aveva sempre mantenuto rapporti abbastanza distesi, senza contare che sua nipote Ippolita si era presa la briga di farsi garante per lei, nel caso in cui fossero riusciti a rovesciare il Borja.

Sempre Scipione, comunque, aveva fatto presente che Ottaviano ben poco stava combinando, nel piacentino, se non passare da un letto all'altro, rischiando più e più volte di incrinare amicizie e di ledere al buon nome della famiglia con il suo comportamento spesso eccessivo. Si era premurato di far sapere alla Leonessa che avrebbe cercato di mettergli un freno, ma si era anche detto deciso a tornare presto a Firenze, trovando più utile il suo ruolo vicino alla famiglia, che non nei salotti in cui si discuteva di politica.

“Ho finito.” dichiarò Cornelia, trionfante.

Sollevando le sopracciglia, quasi sorpresa di sapere che la nipote avesse già concluso la sua opera, Caterina si portò una mano alla treccia che la bambina aveva sapientemente annodato e stretto. In effetti doveva ammettere che la manualità era ottima. Per una frazione di secondo, si trovò a pensare che, forse, la piccola Feo, una volta cresciuta, avrebbe potuto avvicinarsi a una vita da dama di compagnia e non solo da suora.

“Sei stata bravissima...” disse quindi la Sforza, mentre la bambina, felice, allargava un pochino le spalle, orgogliosa del proprio lavoro.

Caterina lasciò che la nipote le spiegasse – a tratti in modo confuso come era normale per la sua tenera età – tutte le altre acconciature che sapeva fare, ma poi, finito quell'argomento, nessuna delle due seppe più di che parlare.

“Posso dormire qui?” chiese Cornelia, di punto in bianco, gli occhi svegli, ma sfiggenti, che inseguivano quelli della nonna.

La Leonessa era sul punto di accettare, riconoscendo nel tono della bambina lo stesso che aveva animato tante volte la voce di Ottaviano. In passato aveva deliberatamente ignorato quel genere di richieste di attenzione da parte del figlio, e il risultato era stato drammatico per tutti...

Aveva già schiuso le labbra, per dire di sì, quando si ricordò di come fossero ormai un paio di settimane che, la notte, rivedeva in sogno Ludovico Marcobelli, gridando il suo nome, agitandosi e scalciando nel letto come una forsennata. Alla villa c'era Fortunati a calmarla e capirla, ma come avrebbe reagito una bambina tanto piccola, se fosse stata svegliata da una simile cosa?

Così, con il cuore pesante, ma certa di aver fatto la cosa migliore – almeno per sé – la Tigre scosse il capo e sussurrò: “Non stanotte...”

“Magari domani?” chiese Cornelia, aggrappandosi alla speranza.

“Vedremo.” restò vaga la donna.

Prese quindi per mano la nipote e, lasciandosi guidare da lei, la ricondusse fino alla cella di Suor Ubbidienza. La religiosa era ancora in abiti da giorno, intenta a pregare. Non si sorprese più di tanto nel rivedere la sua protetta venirle riconsegnata così presto, tuttavia non riuscì a trattenere un moto di delusione.

“Spero che la nostra Cornelia non vi abbia arrecato troppo disturbo...” soffiò, prendendo in consegna la bambina.

“No, anzi...” fece un sorriso spento la milanese, indicandosi il capo: “Mi ha anche pettinata...”

La suora fece i complimenti alla Riario, ben guardandosi dal dire nulla riguardo alla vanità che la piccola, secondo lei, dimostrava sistematicamente, quando si trattava di acconciature e abiti. Anche se, per sua formazione, sarebbe stata incline a ritenere quella tendenza deprecabile, se non peccaminosa, trattandosi di Cornelia, non poteva che ammorbidirsi e dare un giudizio molto più clemente, derubricando la vanità a semplice vivacità di una bambina molto bella.

Dopo un paio di frasi di circostanza, la Leonessa tornò nella sua cella e si stese a letto, immobile, lo sguardo verso il soffitto. Sua nipote la destabilizzava in tanti modi, sia perché le ricordava molto Ottaviano, sia perché non riusciva a provare nei suoi confronti il trasporto che sentiva avrebbe dovuto provare.

Con rabbia, si sciolse la treccia precaria che le attraversava in sbieco la nuca e si voltò su un fianco, pregando che arrivasse presto l'alba e, con essa, la possibilità di tornare da Giovannino. Lo strano malessere che tante volte l'aveva presa, da che era stata sconfitta dal Valentino a Forlì, l'attanagliò di nuovo e, senza riuscire a frenarsi, cominciò a piangere, ricordando tutta la paura, il dolore e le umiliazioni che aveva patito dalla sconfitta in poi.

Malgrado si rendesse conto che essere ancora viva era una cosa bella, che avrebbe forse avuto la possibilità di vedere crescere Giovannino, di vedere felice Bianca e di assistere e guidare come poteva gli altri suoi figli, Caterina non riusciva ad andare oltre la consapevolezza di un semplicissimo fatto: se Giovanni Pirovano non avesse dichiarato la resa nel momento in cui lei era stata ferita a una gamba, sarebbe morta durante l'ultima battaglia, la spada in mano, fronteggiando il nemico come i cavalieri di cui tante volte aveva sentito raccontare le gesta, da bambina. Invece, per colpa sua, era stata schiava, prigioniera e ora... Ora non sapeva nemmeno più lei dire cosa fosse, perché, malgrado tanti la chiamassero ancora così, non le sembrava che fosse rimasto granché della Tigre che era stata un tempo.

 

Le giornate a Roma si inseguivano inutili e umide, mentre le serate, sferzate dal ponentino che asciugava l'aria e rinfrancava lo spirito, erano una sequela di feste, banchetti e impegni mondani che davano a Bianca la sensazione di essere su una barca, in balia di una tempesta.

Di per sé, i ricevimenti non le sarebbe dispiaciuti, se non fosse stato che la sua massima occupazione, invece di bere, mangiare e divertirsi – com'era stato negli anni della sua adolescenza a Ravaldino – era trattenersi. Doveva trattenersi dal mangiare troppo velocemente, trattenersi dal bere troppo abbondantemente, trattenersi dal parlare troppo apertamente, trattenersi, anzi, proprio astenersi dal ballare... Creobola l'aiutava enormemente, rammentandole in modo costante, con frasi in codice, cosa fosse lecito o illecito fare, dire e perfino pensare. Quella strana serva sembrava conoscere il mondo dei potenti molto meglio di chiunque altro, tanto che la Riario si era trovata a chiedersi se, per caso, da giovane non fosse stata una cortigiana in qualche città alla moda o presso qualche signore particolarmente ricco e in vista.

In tutto ciò, un altro motivo di tensione era lo scoprire via via dei lati di Troilo che fino a quel momento non aveva avuto modo di conoscere. Aveva sempre e solo potuto trascorrere del tempo con lui in ambienti familiari, protetta dal vigilare di sua madre, sotto l'approvazione, perfino, di suo fratello Galeazzo. A Roma, invece, il suo amore era Messer De Rossi, il forte e irreprensibile condottiero che aveva contribuito alle migliori vittorie francesi nel milanese, era un uomo di poche parole, ma capace di unirsi alle battute grevi degli altri uomini presenti, quando questo significava farsi accettare nel gruppo.

Non aveva motivo di lamentarsi dei modi e della reputazione del suo prossimo marito, tuttavia a tratti l'aveva visto distante, diverso da come l'aveva conosciuto. Era sicura che, nell'intimità della loro vita di coppia, sarebbe sempre stato il Troilo che aveva amato dal primo momento, ma si rendeva conto che faceva parte di lui anche quel Troilo pubblico, che differiva in buona parte dal privato.

Anche quella mattina, mentre Creobola le sistemava i capelli, Bianca stava ragionando su come sarebbe stato vivere accanto al De Rossi, lasciandosi prendere da mille dubbi, e prestando poca attenzione alle parole della serva, che stava rivangando la notizia della morte del Cardinale Giovan Battista Orsini, ucciso, si diceva, con il veleno, mentre languiva a Castel Sant'Angelo.

“Se penso che anche vostra madre ha rischiato di finire alla stessa maniera...” borbottò la donna, quasi soprappensiero.

Solo a quelle parole la Riario si concentrò sulle chiacchiere della serva e commentò: “Per fortuna non è stato così... Mia madre avrebbe sicuramente preferito morire in battaglia, che non avvelenata in una cella...”

“Io credo che vostra madre, comunque, sia più felice così come sta adesso, che non se fosse morta in battaglia, date ascolto a me...” ribatté Creobola, con la sicurezza di chi sa bene quello che dice.

“Ancora non la conoscete bene...” fece la giovane, con un sospiro pesante.

Finito di sistemarle i capelli, la serva le chiese se volesse indossare qualcosa di pesante sopra l'abito, ma la Riario fece segno di no, salvo poi abbassare lo sguardo verso il proprio ventre e accettare un piccolo mantello.

Era certa che ancora non si notasse nulla e che la gravidanza sarebbe diventata palese solo molto più avanti, com'era stato la prima volta, tuttavia preferiva avere qualcosa di ampio con cui coprirsi, se ci fossero state occhiate più insistenti del solito, da parte di qualche impiccione romano.

“Sapete come mai siete stata convocata in Vaticano stamattina?” chiese la serva, passandole il capo richiesto.

Bianca disse di no, ma aggiunse: “Mi auguro solo di non dover incontrare il papa...”

“Figuriamoci...” rise, nervosamente, Creobola: “Vi avesse voluto incontrare il pontefice, di certo l'avrebbe fatto davanti a una nutrita folla...”

La giovane cercò di fidarsi della valutazione dell'altra, che era più anziana e molto scaltra, e finì di prepararsi.

Arrivate in Vaticano, le due donne vennero prontamente scortate verso quelli che si rivelarono essere davvero gli appartamenti pontifici. Creobola venne invitata da una guardia ad aspettare in un angolo tranquillo, mentre la Riario venne accompagnata a passo quasi marziale fino a una saletta luminosa e affrescata in modo eccellente, di cui, però, la giovane notò solo l'assenza di vie di fuga, dato che la porta era sorvegliata e le finestre si trovavano troppo in alto, per poter sperare di usarle come scappatoia.

Si trattava forse di un riflesso condizionato, ma Bianca tendeva spesso a valutare gli ambienti nuovi prima in base alla possibilità di evadervi facilmente e poi, solo in un secondo momento, per la loro opulenza.

Era immobile, da sola, nel centro della sala da almeno mezz'ora, una mezz'ora che le era parsa così interminabile da cominciare a sudare freddo e sentire il cuore accelerare. Non le era stato detto chi voleva vederla, né il motivo. Poteva essere che i Borja avessero escogitato un fine modo per punire sua madre Caterina? Stavano forse per rapirla, per ucciderla..? Volevano usarla per far soffrire ancora la Tigre di Forlì, che tanto aveva osato sfidarli tre anni addietro?

Quando sentì la porta aprirsi e dei passi avanzare pesanti verso di lei, la Riario si voltò di scatto e riconobbe senza problemi il profilo grasso e grifagno del pontefice. Aveva visto Alessandro VI più volte, da che era a Roma, ma sempre da lontano. Solo ora che lo aveva a un passo poteva sentirne il respiro pesante e l'odore emanato da lui e dai suoi abiti, un misto di incenso, sudore e spezie.

L'uomo vestiva in modo abbastanza secolare, ma teneva al collo un pesante crocifisso, che per qualche istante alla giovane ricordò quello che suo fratello Cesare portava da anni, con la grande differenza che quello del Riario era in materiale tutto sommato povero, mentre quello del papa era d'oro massiccio.

“La figlia di Madonna Sforza...” fece il Borja, piazzandosi davanti a lei, ma poi raggiungendo in fretta lo scranno più vicino – anzi, l'unico presente nella sala – e sedendosi con uno sbuffo.

“Vostra Santità...” ricambiò il saluto Bianca, con un inchino degno di un maestro di cerimonie.

“Vi chiederete perché ho voluto incontrarvi.” fece il valenciano, grattandosi la pappagorgia su cui stava ricrescendo un po' di ispida barba grigia: “Ebbene, non facciamo tanti giri di parole: confido che anche voi siate schietta e intelligente come vostra madre.”

La Riario deglutì, nel sentir citare la Leonessa, ma fece un breve cenno d'assenso.

“Prima di tutto, volevo vedere quanto davvero assomigliate a lei... Avvicinatevi, fatevi vedere bene.” ordinò lui, allungando una mano.

Bianca fece come le era stato chiesto, pur restando a distanza di sicurezza, e fece finta di non sentire i commenti abbastanza espliciti che il papa fece sul suo aspetto, paragonandola più volte alla madre, ma, sosteneva, molto meno volgare.

“Ho fissato la data delle vostre nozze.” fece poi lui: “Vi sposerete a Castel Sant'Angelo. Ho pensato che vi aiuterà a capire quali sono i limiti e quali sono gli errori che non dovrete mai e poi mai commettere.”

“Mia madre era una guerriera, io non la sono.” disse la Riario, senza frenare per tempo la lingua.

“L'avevo detto che avevate di lei molto, oltre i capelli biondi e un corpo da Venere...” rise Rodrigo, ricordando quasi con nostalgia le schermaglie pungenti che lui e la Tigre di forlì si scambiavano, secoli addietro, quando lui era ancora solo un Cardinale e lei la scontenta e rabbiosa moglie di un buono a nulla: “Comunque credo che vi sarà utile sposarvi lì, per rammentarvi che ne è stato di vostra madre, per esser venuta contro di noi, e che ne è stato di Astorre Manfredi, che aveva creduto di poterci raggirare...”

La giovane evitò davvero, stavolta, di aprir bocca, in modo da non dire quello che pensava davvero di entrambe le cose, ossia che sua madre era stata la parte lesa ed erano stati i Borja ad andarle contro e non viceversa, mentre il povero Astorre aveva solo creduto di potersi accordare con il Valentino, avendo almeno salva la vita...

“A proposito del Manfredi...” gli occhi grandi di Alessandro VI si ridussero a due fessure, mentre indagava a fondo il bel viso della Riario: “Mi auguro che, quando eravate sposati, non vi abbia mai toccato... Siete vedova, in linea teorica, ma io vi ho venduta al De Rossi come illibata... Sapete, quell'emiliano è un uomo pieno di pregi, ma non credo che accetterebbe di sposare una donna di seconda mano... Non ha atteso quarant'anni per trovarsi nel letto lo scarto di un altro...”

Bianca arrossì violentemente, più per paura di fare qualche passo falso davanti a un uomo acuto come il papa, che non perché la imbarazzasse l'argomento: “Astorre era un bambino, quando siamo stati promessi l'un l'altra, e poi un ragazzino e ha sempre vissuto lontano da me. Avete dunque la vostra risposta.”

“Bene, bene.” annuì il Borja: “È già tanto che il De Rossi vi voglia, malgrado quello che è vostra madre... Io stesso, quando si era parlato di far sposare vostro fratello Ottaviano alla mia adorata Lucrecia, ero perplesso proprio per il sangue cattivo di vostra madre... Quando la giumenta scalcia e morde, il puledro non potrà certo essere docile... Evidentemente voi avete preso più da vostro padre...”

La Riario non ribatté, tenendo lo sguardo basso. Quell'atteggiamento remissivo sembrava annoiare Rodrigo che, invece, si era atteso di vedere la ragazza accendersi come avrebbe fatto la Sforza.

Con un sospiro, quindi, l'uomo le fece segno di andarsene, ma volle aggiungere, mentre la giovane già gli dava la schiena: “Il matrimonio sarà a spese mie, ci tengo. E proprio perché sarete miei ospiti, alla messa a letto, che sarà sempre al castello, potrà presenziare chiunque me ne farà richiesta.”

Bianca, che temeva quel momento più di qualunque altro, sia per la vergogna di trovarsi davanti a sconosciuti, sia per la paura di non riuscire a reggere fino in fondo la recita che lei e Troilo dovevano portare a termine, si irrigidì per un secondo, ma, quando sentì la risata di scherno del Santo Padre, trovò la forza di voltarsi verso di lui e disse, sfrontata come non avrebbe dovuto essere: “Finalmente i romani potranno vedere cosa succede davvero tra le mura di Castel Sant'Angelo... Anche se solo in parte.”

La stoccata andò a centro e il pontefice, sbiancato, la guardò con tanto d'occhi, cogliendo anche troppo l'allusione alla strana morte del Cardinale Orsini, e a tutti gli altri fatti torbidi legati alle celle del castello.

“Passate una buona giornata, Madonna Sforza.” l'apostrofò lui, quasi a volerla schernire, usando il cognome della Leonessa: “E riposatevi, perché il giorno del vostro matrimonio non sarà semplice, per voi.”

   
 
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