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Autore: Adeia Di Elferas    17/02/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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In quei giorni il papa era impegnato con Gaspare Sanseverino che, da poco liberato dalla prigionia borgiana, era arrivato a Roma assieme al fratello Antonio Maria per chiedere il perdono pontificio e, se possibile, una condotta per redimersi a tutti gli effetti.

Si diceva che il Fracassa stesse facendo in pochissimo tempo passi da gigante, con Alessandro VI, e se qualcuno malignava dicendo che il pontefice l'aveva prontamente perdonato e ingaggiato solo perché ormai a corto di condottieri, altri sostenevano che il Sanseverino avesse tanto pianto e si fosse prostrato tanto profondamente da smuovere il cuore di pietra di Rodrigo.

Quale che fosse la verità, il giorno prima di quello fissato per le nozze, Bianca origliò le chiacchiere che il padrone di casa scambiava con alcuni suoi ospiti, e comprese che i due fratelli ribelli ora erano al soldo del papa e pronti a partire per Ceri, che stava per essere presa d'assedio dai borgiani.

Per la Riario, comunque, quella era solo un'informazione superflua, presa com'era dai propri maneggi e dal braccio di ferro che sembrava essersi instaurato tra alcune frange papali e il lontano Cardinale Sansoni Riario, il quale avrebbe voluto che la cugina potesse trascorrere almeno le prime settimane da sposa nel palazzo che di fatto apparteneva a Ottaviano, mentre i primi sostenevano fosse meglio per tutti che lei si trasferisse nell'ala vaticana in cui soggiornava Troilo. L'unica cosa che la metteva in ansia, riguardo la faccenda dei Sanseverino, era pensare a come avrebbe reagito sua madre, se le fosse stata riferita.

Anche se sembrava solo un ulteriore giro di alleanze e condotte, Bianca sapeva bene che mandare i Sanseverino a Ceri significava che la campagna dei Borja era tutto fuorché finita e la Tigre avrebbe potuto farsi prendere di nuovo dal panico, all'idea che il Valentino stesse proseguendo per la sua strada, restando un pericolo tangibile anche per lei stessa, cittadina di una Repubblica che non avrebbe mai avuto la forza di contrastare un eventuale attacco di Cesare.

“Messer Baccino ha appena recapitato questa...” Creobola aveva raggiunto Bianca nella sua stanza proprio mentre la ragazza stava per prendere il necessario per scrivere, in modo da vergare un breve messaggio per Troilo.

Non appena prese la lettera che la serva le stava porgendo, la Riario fu certa che il De Rossi l'avesse anticipata. Infatti l'uomo aveva scritto giusto un paio di righe veloci, senza preamboli, né giri di parole. Le chiedeva di fargli avere istruzioni precise sul da farsi il giorno dopo, si doleva per la prova che avrebbero dovuto a breve affrontare e chiudeva comunque dicendosi impaziente di poter essere suo marito legittimamente, in modo da non doversi più nascondere.

Leggendo quell'ultima parte, Bianca trattenne una smorfia di insofferenza. Capiva il discorso di Troilo, ma, forse, lei era più lucida nel valutare la loro situazione, finché fossero stati in Roma. Di certo nessuno avrebbe potuto avanzare proteste, se avessero passato assieme le notti, ma a suo avviso era fondamentale lasciare che tutti li credessero una coppia fredda o, quanto meno, abbastanza distante e mal assortita. Se qualcuno – specie il papa – avesse visto in loro l'amore che li univa, solo Dio avrebbe potuto sapere cosa avrebbe fatto il malefico valenciano per annientare quella felicità, al solo scopo di far soffrire la Leonessa di Romagna per tramite di sua figlia.

Quel discorso, comunque, glielo avrebbe fatto dopo, in privato, passata la burrasca del matrimonio.

La cerimonia, era ormai assodato, non era stata molto pubblicizzata a Roma e solo gli abitanti del Vaticano erano al corrente dei dettagli. Per il resto si sapeva che il rito si sarebbe tenuto a Castel Sant'Angelo e proprio nello stesso castello sarebbe stata allestita la camera degli sposi, aperta a chiunque avesse voluto testimoniare la loro unione o meglio – come giustamente commentò Creobola – assistere alla pubblica umiliazione della figlia di Caterina Sforza, ceduta come trofeo di guerra a un uomo che militava per i francesi. Prima della messa a letto non era nemmeno previsto un banchetto, probabilmente a sottolineare come la cerimonia in sé avesse poca attrattiva per il papa. Gli abiti, per la sposa, erano stati già scelti e imposti alla stessa senza che lei potesse aver nulla da ridire sull'abito eccessivamente volgare, né sui colori troppo accesi. Era chiaro che chi l'aveva scelto l'avesse fatto per metterla in imbarazzo e per farla sembrare 'degna figlia di sua madre', ossia poco più che una donna di strada, ma la Riario era pronta a sopportare tutto quanto.

Aveva solo chiesto di poter indossare, per la messa a letto, una tunica, che lo sposo avrebbe sollevato quel tanto che bastava, ma ovviamente le era stato vietato. Il suo intento non era quello di coprire le proprie nudità – già da mesi si era rassegnata, pensando che quello sarebbe stato l'ultimo vero scoglio prima di approdare al porto che tanto desiderava raggiungere – ma per mascherare il più possibile il suo ventre. La gravidanza non era evidente e dubitava che i presenti avrebbero notato il leggerissimo rigonfiamento che iniziava a vedersi tra le sue forme morbide, ma in ogni caso si sarebbe sentita più tranquilla potendosi coprire di più.

“Siete d'accordo con Baccino per la consegna della risposta?” chiese Bianca, sollevando la lettera di Troilo, lo sguardo che correva interrogativo a Creobola.

La serva annuì, così la Riario fece un profondo sospiro e poi, convinta che una sua eventuale risposta per iscritto potesse essere troppo compromettente, nel caso in cui fosse stata intercettata, chiese alla donna se fosse in grado di portare a voce un messaggio, ricordandolo nei dettagli.

“Io sì.” rispose subito lei, che, in effetti, aveva già dato prova di riuscirci, quando era stata mandata a San Secondo a parlamentare con il De Rossi tempo addietro: “Ma non so se l'amico di vostra madre lo sia... Ha un bel faccino, ma non mi sembra abbia molto altro...”

Sorpresa come sempre dalle uscite fuori luogo che a tratti faceva Creobola, Bianca si morse il labbro e ribatté: “Tu gliela spiegherai come la sto spiegando a te. Gliela farai ripetere e vedrai se ha capito... L'importante è che riferisca a Troilo le cose principali...”

La donna annuì, sorvolando sul fatto che ora la Riario aveva cominciato a darle del tu come faceva anche la Tigre. Per certi versi, anzi, vedeva quella confidenza come un punto d'onore e non come una mancanza di rispetto.

Da quel momento in poi, Bianca, cercando di riassumere all'osso tutto quello che avrebbe voluto comunicare al suo futuro sposo, elencò punto a punto gli accorgimenti che aveva pensato di prendere per rendere realistico il loro reciproco imbarazzo e ritrosia il giorno del matrimonio. Si premurò di spiegare anche che, per dare al pubblico il sangue che di certo avrebbero voluto vedere sulle lenzuola e tra le sue gambe, avrebbe messo a punto un vecchio rimedio che sua madre aveva appuntato sul suo ricettario: si trattava solo di una vescichetta ripiena di sangue fluidificato di piccione, ma avrebbe ingannato gli spettatori. Per un certo periodo aveva pensato di usare una pozione astringente molto particolare che la Tigre aveva messo a punto per ingannare un marito ignaro, ma poi aveva accantonato l'idea, sia per paura che nuocesse al bambino, sia perché sapeva che le avrebbe causato fastidio se non dolore e sia perché non era Troilo, quello da ingannare.

Infine aggiunse che le avrebbe fatto piacere che Baccino dicesse anche al De Rossi che lei lo amava sempre.

Creobola si era attesa un po' più di slancio, sull'ultima parte, ma la Riario aveva volutamente farsi trattenuta, sicura che in quel frangente perdersi in tante frasi poetiche sarebbe servito a poco, dovendo passare il messaggio da ben due bocche estranee.

La serva, quindi, ripeté il discorso, con una puntualità e una precisione che stupirono Bianca: era come se la donna avesse imparato parola per parola tutto quanto, ascoltandolo una volta soltanto.

“Hai capito quel che c'è da fare.” concluse la figlia di Caterina Sforza e, con un'ultima raccomandazione alla discrezione, lasciò Creobola libera di andare a compiere il suo dovere.

 

La segreta era diventata all'improvviso buia come una grotta. Caterina era sicura che fino a un istante prima ci fossero almeno dieci torce accese, eppure, più sbatteva le palpebre e meno le sembrava di vedere.

Sentiva nelle narici un odore stantio che conosceva bene, eppure non voleva convincersi di essere nella cella di Castel Sant'Angelo, quella stessa cella in cui mille volte aveva creduto di morire e in cui, invece, mille volte si era risvegliata maledicendo il giorno in cui non era stata uccisa dai colpi del nemico a Ravaldino.

Allungò le mani, cercando nel buio, sperando di trovare una porta o un passaggio, ma appena provò a muoversi, inciampò in qualcosa di caldo e scivoloso.

La luce tornò tutta di colpo e la donna, ai suoi piedi, vide solo cadaveri. Erano tutti volti noti, tutti uomini che l'avevano servita, che avevano combattuto per lei e che, a volte, l'avevano perfino amata.

Indietreggiando furiosa, cercava di gridare, ma dalla gola le usciva solo un fischio strozzato. Si trovò per terra, tra i pezzi senza vita dei corpi dei suoi soldati, affondando le mani in bocche aperte, crani spaccati e addomi lacerati. Guardò verso l'alto e, finalmente, ebbe conferma del dubbio che aveva fin dal principio: lei era nella cella di Castel Sant'Angelo.

Il soffitto aveva la stretta grata che per mesi e mesi era stato il suo unico contatto con la realtà. E proprio mentre qualcosa cominciava a scendere da quell'apertura angusta, la Tigre sentì chiamare il suo nome.

Abbassò di nuovo lo sguardo e, tra i cadaveri, ne vide uno gonfio e pesto, irriconoscibile, ma la sua voce era impossibile da confondere con un'altra. Si trattava di Ludovico Marcobelli, e la scherniva, la irrideva, e le diceva che presto, molto presto, anche lei avrebbe raggiunto tutti loro e ciascuno di loro le avrebbe ripagato con gli interessi ciò che lei aveva fatto per ridurli in quello stato.

Mentre cercava ancora di scappare, la donna sentì la pioggia intensificarsi. Era fredda, densa e ferrosa. Le ci volle solo un istante in più per capire che non si trattava di acqua, ma di sangue...

Con un sussulto, che fece uscire una buona quantità di acqua dalla tinozza in cui si era assopita, Caterina si svegliò di colpo, il respiro affannoso e la pelle d'oca.

Si guardò attorno, spaesata e le ci volle un minuto buono per ricordarsi di essere tornata alla villa quella mattina, e di aver chiesto un bagno caldo, per distendere i nervi. Dalla luce che filtrava dalla finestra e dalla temperatura ormai bassa dall'acqua in cui era immersa, capì di aver dormito parecchio.

Con un sospiro, tremando appena, si affrettò a uscire, badando poco alle tracce bagnate che lasciava in terra, raggiunse il telo per asciugarsi e vi ci si avvolse.

Si asciugò con cura i capelli, si massaggiò le membra infreddolite e poi, soprappensiero, andò alla sua piccola dispensa di rimedi e prese una crema che ultimamente aveva cominciato a usare per la cicatrice che le deturpava la coscia ferita durante l'ultima guerra. Fortunati le aveva detto più volte che a lui non dava alcun fastidio, ma la Leonessa era sicura che avrebbe apprezzato anche lui se, nel tempo, quel brutto segno fosse quanto meno un po' sbiadito.

Finito di cospargersi la cicatrice con l'unguento, la Sforza si tolse il telo di dosso, ignorando il freddo che provava, quasi che quella sensazione servisse a tenerla sveglia, impedendole di ripiombare nell'incubo che l'aveva ridestata poco prima.

Attraversò la stanza a passi lenti, andando alla finestra. Non le importava che, per caso, qualcuno da fuori stesse guardando nella sua direzione. Nel corso della sua vita era stata vista nuda da talmente tante persone che non le importava più molto coprirsi.

Davanti a lei, però, non trovò occhi indiscreti, ma solo una distesa verde, che si spegneva nel limitare del bosco. Quanto le sarebbe piaciuto poter correre al convento d'Annalena, prendere Giovannino e portarlo a casa e poi, assieme a lui, a Galeazzo e a Bernardino, prendere qualche cavallo e galoppare nella foresta, senza dover rendere conto a nessuno...

E invece il suo ultimogenito doveva ancora restare sotto le cure – manchevoli – delle suore, e Galeazzo e Bernardino dovevano accontentarsi di ripassare alla nausea la teoria senza poter mai passare alla pratica.

A volte la Tigre invidiava suo figlio Sforzino, per la sua capacità di farsi sempre bastare quello che aveva. Una volta che aveva con sé un volume da leggere e qualcosa da mangiare, era il ragazzino più felice e tranquillo al mondo.

La milanese si stava stringendo nelle braccia, perdendosi nel verde pallido di quel marzo, quando sentì bussare e la voce di Fortunati annunciarsi.

“Entra.” gli disse, senza voltarsi.

L'uomo eseguì l'ordine, ma rimase immobile, quando vide la sua amante completamente nuda, alla finestra. Richiuse al volo la porta, quasi avesse paura che qualcuno si infilasse di nascosto nella stanza per vedere le belle forme di Caterina, e poi deglutì un paio di volte, prima di parlare.

“Va tutto bene?” chiese, guardando il pavimento bagnato, la tinozza abbandonata al suo destino, il telo lasciato sul letto e poi ancora la donna che amava.

Questa, sollevando un sopracciglio, finalmente si voltò verso di lui e sospirò: “Tutto bene... Mi sono solo addormentata mentre mi facevo un bagno.”

“Prendi freddo.” disse lui, solerte, recuperando il primo abito da camera che vide e avvicinandosi a lei per aiutarla a infilarlo.

La Leonessa trattenne un sorriso, trovando quasi tenera quella fretta, da parte del piovano, perché in essa non c'era solo apprensione per lei, ma anche il desiderio di ricoprirla al più presto, come se la sola visione del suo corpo potesse indurlo di nuovo in tentazione. Poco contava se anche quella notte avrebbero, probabilmente, passato buona parte del loro tempo ad amarsi... Francesco sembrava non riuscire a combattere con quel lato di sé.

Docilmente, la donna si lasciò quindi vestire e poi, stanca, chiese: “Perché sei venuto a cercarmi?”

“Ci hanno appena fatto recapitare questa.” sussurrò lui, come se avesse paura di essere ascoltata perfino lì: “Da Roma.”

Senza ascoltare altro, la Sforza afferrò la missiva e l'aprì, andandosi a sedere sul letto. La grafia era di sua figlia, così come la firma. Bianca le annunciava la data ufficiale del matrimonio e la Leonessa sentì mancare un colpo al cuore, quando si rese conto che era proprio quel giorno.

Lesse con attenzione ogni frase, cercando di leggere tra le righe tutto quello che c'era da leggere e comprese l'apprensione – che condivideva – collegata a quell'evento e la voglia che tutto filasse come stabilito. Tuttavia da quel messaggio trapelava la gioia della Riario che, finalmente, vedeva avvicinarsi il momento in cui la sua relazione con il De Rossi non sarebbe più stata clandestina e deplorevole, ma socialmente accettata e non più segreta.

“Buone notizie?” chiese Fortunati, vedendo il volto della Tigre rasserenarsi un po'.

“Diciamo di sì.” rispose lei, senza sbilanciarsi.

Senza che il fiorentino dovesse chiederle altro, ma donna riassunse ciò che Bianca aveva scritto e poi, con un sospiro, si augurò a voce alta che tutto andasse per il verso giusto.

“A che ora credi che celebreranno il matrimonio?” domandò Francesco, lo sguardo che correva alla finestra, per valutare che ore fossero in quel momento.

“Immagino verso sera... In modo da poter procedere subito con la messa a letto.” ribatté lei, alzando un sopracciglio: “A Roma tendono a fare sempre tutto sul tardi, perché al mattino preferiscono dormire.”

“Non com'era nella tua rocca, vero?” sorrise l'uomo, per sdrammatizzare.

La Leonessa apprezzò il tentativo, ma l'incubo appena avuto era ancora troppo vivido per permetterle di fare battute di spirito, così disse solo: “Io, a Forlì, comandavo su dei soldati, il papa, a Roma, comanda su dei diavoli... Probabilmente nemmeno io sarei stata capace di mettere in riga Vescovi e Cardinali convinti che tutto sia loro concesso e dovuto...”

La milanese non era nuova alle critiche aspre verso la Chiesa e tutto ciò che rappresentava e così Fortunati, pur sentendosi in parte chiamato in causa in quanto religioso, fece finta di nulla e propose, con un tono allegro: “Ti andrebbe di provare di nuovo a insegnarmi a giocare a scacchi?”

I tentativi precedenti erano stati abbastanza disastrosi, ma la Sforza aveva bisogno di impegnarsi in qualcosa, per tenere la mente occupata, e così accettò di buon grado, premettendo: “Solo se mi prometti che questa volta imparerai qualcosa...”

“Prometto che sarò un bravo allievo.” asserì lui, con serietà.

Riuscendo finalmente a prorompere in una breve risata, la Tigre gli disse dove recuperare la scacchiera e si sentì una volta di più enormemente grata a quell'uomo che stava facendo della sua salvezza – morale, fisica e spirituale – il suo unico scopo nella vita.

 

Quasi senza che se ne rendesse conto, Bianca era stata vestita e accompagnata per le vie di Roma da un piccolo drappello di soldati. Alla fine il papa aveva deciso di farla viaggiare su un carro coperto, per evitare che la gente la vedesse e reagisse in modo inatteso alla sua presenza. Se in un primo momento era stato convinto del fatto che, scorgendola in corteo verso Castel Sant'Angelo tutti avrebbero rivisto in lei la madre prigioniera, iniziando quindi a schernirla e deriderla, in un secondo momento il pontefice si era chiesto se, in quel clima incerto, proprio quella visione non avrebbe sollevato esattamente reazioni opposte a quelle che lui si aspettava. Se qualcuno avesse iniziato a inneggiare alla Tigre, o, peggio ancora, avesse mostrato umana pietà per la giovane Riario, sarebbe stato catastrofico, per la causa dei Borja.

Il tragitto fino al castello, dunque, stava risultando edulcorato, per la ragazza, che, tuttavia, non riusciva a evitarsi di guardare fuori, di quando in quando, lasciando la sua mente libera di immaginarsi sua madre passare proprio da quelle strade, ma non come preda di guerra, coperta di catene d'oro e trascinata come l'ultima delle schiave, ma come eroina e vincitrice, il giorno in cui, da sola e incinta, aveva sfidato Roma e si era presa Castel Sant'Angelo, mettendo sotto scacco il Conclave che era riunito per decidere chi sarebbe stato il successore di Sisto IV.

Immaginare la Tigre di Forlì giovane e bella, stravolta dalla lunga cavalcata e con il pancione – che nascondeva un piccolo Livio – galoppare proprio su quei ciottoli, attraversare proprio quel ponte e vedere quello stesso edificio fortificato che ora si stagliava davanti a lei, infuse nella Riario una nuova forza.

Tuttavia, quando scese dal suo calesse ed entrò a Castel Sant'Angelo, quella grandiosa visione lasciò il posto a pensieri molto più mesti. Forse per colpa dei soldati che riempivano la visuale, forse per il cielo grigio di quel giorno, Bianca cominciò a chiedersi come si fosse sentita sua madre, nel varcare quel portone e nel pensare che non l'avrebbe mai più riattraversato. Certo, alla fine era uscita viva da quelle mura spesse e tetre, ma si era trattato quasi di un miracolo.

Creobola venne fatta indietreggiare e un paio di guardie si misero ai fianchi della Riario. La giovane non voleva dar a vedere quanto fosse spiazzata da quella novità, ma non poté far a meno di chiedere, angosciata, perché la sua dama di compagnia dovesse restare così indietro rispetto a lei.

Nessuno le rispose. Uno dei soldati fece un ghigno. L'altro rise.

Per la seconda volta nel giro di pochi giorni, Bianca temette di essere caduta in trappola e di essere a un passo dal finire in una delle fredde celle del castello, prigioniera in eterno, nel suo volgare abito nuziale, in sostituzione filiale di sua madre.

La mente annebbiata dalla paura, che si faceva sempre più incoercibile, la donna non fece nessun caso alla strada che le stavano facendo fare e tornò a respirare solo quando, varcando una delle tante porte attraverso cui veniva condotta, finalmente vide Troilo.

L'uomo era in piedi, visibilmente tesissimo, in armatura e con la spada al fianco. Accanto a lui c'erano gli uomini – quasi tutti – che avevano mediato il loro sposalizio e, poco lontano, un prelato coi paramenti intessuti d'oro.

La Riario avrebbe voluto evitare di scambiare occhiate troppo profonde con il De Rossi, per non lasciare intendere quanto già si conoscessero e quanto lei ne cercasse l'appoggio, ma il suo stato d'animo era tale da non poter evitare di cercare in lui un appiglio, anche se per pochi istante.

Troilo ricambiò lo sguardo, facendo anche un brevissimo cenno con il capo, quasi a rassicurarla, benché lui per primo stesse sudando freddo e avesse la mente immersa in acqua ghiacciata, del tutto paralizzata.

Pur ritenendosi un uomo coraggioso e forgiato da tante prove e tante battaglie, quel giorno l'emiliano stava patendo le pene dell'inferno, costantemente preoccupato che qualcosa andasse storto, che il papa stesse tendendo loro una trappola, che, all'improvviso, succedesse qualcosa di irreparabile...

Non appena la sposa venne condotta al suo fianco, entrambi guardarono in basso. Le loro mani, stese lungo i fianchi, avrebbero voluto cercarsi, trovarsi e stringersi, per darsi forza, ma, guidate dalla ragione e non dal sentimento, rimasero là dov'erano, mentre l'officiante, rivolgendosi agli astanti – la Riario si accorse solo in quell'istante di quanto quel piccolo ambiente fosse stipato di gente che allungava il collo per vederli – diede inizio alla cerimonia.

   
 
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