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Autore: Puffardella    20/02/2023    2 recensioni
L’animo umano è come la terra sulla quale è stato messo per vivere. La sofferenza a cui a volte è sottoposto si può paragonare all’incendio che travolge un campo. Dopo la furia del fuoco apparirà desolato, e vuoto, e invivibile. Invece, proprio quel trattamento gli darà nuovo vigore, lo renderà più fertile.
Allo stesso modo, solo dopo aver provato un grande dolore ci si riaccosta alla vita con rinnovato entusiasmo, perché è quando hai perso molto che capisci quanto sia importante non dare per scontato le cose che hanno il potere di renderti felice.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il mare corteggia la riva con gentilezza, oggi.
Arriva spumeggiando, accarezza la sabbia bianca, si sofferma un po' su di essa, torna indietro lasciandole sopra il segno del suo amore e poi tenta ancora, e ancora, e ancora...
Sono ore che spio questo rituale, seduto a due passi da dove avviene l'incontro fra i due amanti. Me ne sto qui, in silenziosa contemplazione, la mente incapace di soffermarsi su altri pensieri, timorosa di farlo.
Gli sbuffi delle onde sembrano gemiti e sospiri, come quelli di un uomo innamorato mentre bacia la sua donna e soffia aria tra un bacio e l'altro per contenere il desiderio, in una tacita supplica, una richiesta di abbandono totale all'estasi.
Soffia, sospira, geme, si agita, le sue dita si muovono sulla pelle di lei, ardono desiderose d'amore, esplorano ingorde, impazienti, su e giù, a coprire ogni centimetro di pelle in gesti lenti e cadenzati, avanti e indietro, come il movimento ritmico delle onde di questo mare salato, salato come le mie lacrime, quelle che il sole ha asciugato sul mio volto.
Vorrei essere sopra quelle nuvole bianche, ora. Vorrei poter credere nell'esistenza di un punto d'incontro tra me e lei.
Se quel punto d'incontro esiste, deve essere tra la terra e l'universo.
In mezzo, tra lei e la nostra bambina.
Su quella nuvola starei vicino a entrambe, senza abbandonare nessuna delle due. E non mi sentirei abbandonato da nessuna delle due...
Ecco, lo sconforto sta avendo nuovamente il sopravvento su di me.
Il mare continua la sua instancabile melodia d'amore, su e giù, avanti e indietro, sbuffa, smania, soffia, si agita. Piano piano i miei lamenti si uniscono ai suoi, e le onde scompaiono offuscate dal velo delle lacrime che ora sono tornate a bagnare i miei occhi.
Due vecchietti in lontananza passeggiano tenendosi per mano. Camminano senza fretta di arrivare in nessun posto. Loro sono già in quel luogo, se ci si stanno dirigendo insieme.
Mi passeranno di fronte, vedranno la mia disperazione e non voglio. Il mio dolore è affare mio. Mi copro il viso e aspetto il loro passaggio.
E mentre aspetto i ricordi affiorano, vigliacchi e crudeli…

Vigliacchi e crudeli, i ricordi. Squarciano le resistenze del mio cuore, attraversano veloci la mia mente. Si susseguono seguendo un ordine preciso, come spezzoni di un film: il primo sguardo, il batticuore il giorno del primo appuntamento, le rincorse in riva al mare, i nostri giochi infantili, l'odore intenso della sua pelle la nostra prima volta, la sua esuberanza, i suoi baci, le sue risate e le nostre litigate, la sua compostezza sull'altare, il suo viso luminoso il giorno in cui mi annunciò di essere rimasta incinta, la nascita di Rachele, i suoi improvvisi malumori, la depressione, e poi, ripetutamente, lo squillo del telefono.
Per mesi ho lasciato il telefono staccato, per mesi ho rifiutato di sentirlo gridare di nuovo.
Gridò a lungo, il giorno in cui mi fu data la notizia. Gridava, e Rachele gridava con lui. Piangevano entrambi, ora lo so. Rachele piangeva la sua mamma che non l'avrebbe più nutrita del suo latte, non l'avrebbe più cullata tra le sue braccia, che mai l'avrebbe sostenuta durante i suoi primi passi. Da quel momento in poi avrebbe dovuto affrontare il percorso della sua vita senza di lei, ed io lo so che lei piangeva per questo. Il telefono lamentava il dispiacere di colui che era stato incaricato di occuparsi di quella spiacevole incombenza.
Che strano, a due anni da quel giorno non riesco ancora a ricordare chi fu a mettermi al corrente. Non ricordo nemmeno le parole che usò. Ricordo solo di aver pensato, confusamente, che Sara era andata a comprare i pannolini. Era solo andata a comprare dei pannolini. Ricordo che ringraziai il tizio al telefono, chiunque fosse, presi Rachele dal lettino, sedetti sul divano e la cullai con il movimento ondulatorio del mio corpo,
avanti e indietro, avanti e indietro, niente lacrime, niente dolore,
avanti e indietro, avanti e indietro, Sara era solo andata a prendere dei pannolini, avanti e indietro, avanti e indietro, e il mare torna nella mia visuale,
avanti e indietro, avanti e indietro, sospiro, carezza, sospiro, carezza...

Gli anziani sono passati senza fermarsi, rispettando il mio supplizio. Hanno invaso il mio spazio per un attimo, attraversato il mio dolore, osservato con compassione il mio corpo scosso dai singhiozzi, e sono andati oltre.
Oggi sono due anni che Sara manca da casa, dalla mia vita. Oggi, per la prima volta, ho permesso a me stesso di esternare il dolore. Lontano da tutto e da tutti, perché il mio dolore è affare mio. I momenti belli, quelli si possono condividere con gli amici e con i parenti, perché quelli li possono capire, tutti li hanno vissuti, i momenti belli. Ma il dolore no. Le frasi di circostanza che vengono pronunciate in questi casi fanno più male del silenzio, ti fanno sentire irrimediabilmente solo e incompreso, e va a finire che disprezzi chi voleva esserti di incoraggiamento. E anche chi il dolore della perdita lo ha provato nella sua carne non può capire ugualmente. Non può sentire il mio. Non può…
In questi due anni ho cercato la forza di andare avanti in Rachele. Per lei ho rifiutato di soffermarmi troppo sui perché. Me li sono fatti scivolare addosso come l'acqua sporca della doccia, e giù, dentro lo scarico, a percorrere chilometri di tubature, verso il mare dei perché che aspettano una risposta.  
Sara era tutto per me. Diceva che ero tutto, per lei. Voleva essere mamma, desiderava una famiglia numerosa, un mucchio di figli. Allora perché era infelice? Cosa l'ha spinta ad un gesto tanto estremo?
I medici la chiamano depressione post-partum. Baby blues. In inglese suona come il titolo di una canzone d'amore. Affligge dieci donne su cento, anche di più. Chi ne soffre tende a nasconderla per paura di essere catalogata come una cattiva madre. Sara aveva saputo nasconderla perfettamente.
O forse no, forse ero così preso da altro da non essermi accorto di nulla, da aver scambiato il suo disagio per stanchezza, da aver permesso che accadesse.
Questo pensiero, che per mesi ho cercato di farmi scivolare addosso, ora mi aggredisce come una condanna, e si ripete nella mia mente senza interruzione: "Io, sono stato io, io, io, io, sono stato io...", e giù lacrime, e dolore, e rimpianti senza fine.
Oggi è il secondo anniversario della sua morte, ed è la prima volta che cedo alla disperazione…

 
   
 
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