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Autore: Vallyrock87    20/02/2023    5 recensioni
Un'amicizia può essere fatta di molte cose: di litigi, rimpianti, errori. Ma c'è qualcosa che la potrebbe distruggere per sempre; la lontananza. Per i due protagonisti, Noah e Arlene questo potrebbe determinare un punto di rottura nel loro rapporto, e chi sa se questo potrebbe essere un bene oppure un male o entrambi. Scrivere un nuovo libro della propria vita a volte può risultare più complicato di ciò che si crede.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Come sempre un ringraziamento va alla mia beta moonsuckerlove

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Quel giorno sul profilo Facebook di una ragazza, successe qualcosa che non si sarebbe mai aspettata; anzi, lei non avrebbe mai pensato che quella persona si sarebbe fatta viva dopo tanto tempo, soprattutto con un ricordo così significativo per loro. Improvvisamente, si era ricordata di quanto le fosse mancato, aveva cercato con tutte le forze, in quegli anni in cui si erano separati, di non pensare troppo a lui, di distrarsi gettandosi nello studio e lavorando assiduamente, in seguito al conseguimento del diploma di scuola superiore. In conclusione, aveva scoperto che non le importava di lavorare così tanto, anzi non le pesava affatto, ma non si era mai accorta che lo faceva per dimenticare il passato: le sue sofferenze, le difficoltà che aveva incontrato, le gioie e poi c’era lui, il suo migliore amico. In quell’istante, mentre leggeva quel chilometrico post, tutto ritornò a galla, il suo cuore sembrò fermarsi per un attimo e sentì il respiro farsi più affannoso e gli occhi bruciarle; era da tanto tempo che non provava emozioni così forti, da quando non c’era più lui nella sua vita.

Quelle parole avevano toccato la sua anima e il suo cuore, i suoi occhi sembravano incollati allo schermo del pc, che quella mattina aveva acceso per noia; in fondo non voleva fare nulla di particolare, forse avrebbe comprato su Amazon qualche sciocchezza, di cui, una volta arrivatole a casa, non avrebbe saputo cosa farsene. Aveva aperto Facebook più per dare una sbirciata a ciò che stavano facendo gli altri che a ciò che succedeva sul proprio diario, ma quella notifica era stata molto più di ciò che si sarebbe potuta aspettare. L’amicizia di quell’utente l’aveva accettata perché aveva visto che avevano persone in comune, conoscenti di entrambi, e l’aveva fatto svogliatamente, si era detta che tanto non gli avrebbe mai scritto, non lo faceva con nessuno, la sua casella di posta su messenger era desolatamente vuota. Ma quella volta l’impulso di aprire la app di messaggistica era stata tanta, però il suo corpo si rifiutava categoricamente di muovere un solo muscolo, i suoi occhi erano ancora incollati a quelle parole in bianco su uno sfondo nero. Lei non lo aveva riconosciuto perché il suo migliore amico non usava il suo vero nome, e la foto del profilo ritraeva il personaggio di un anime che lei non conosceva.

Ciao

Forse non ti ricorderai di me… anzi, quasi sicuramente. Sono passati tanti anni da quando te ne andasti dalla nostra città con i tuoi genitori; ci siamo scritti ancora per un paio di mesi poi io persi il telefono e con esso anche tutti i contatti che possedevo, non li avevo scritti da nessuna parte e così persi anche il tuo, sono uno stupido vero!? Ricordo quando me lo dicevi in continuazione.  Mi sono sempre chiesto che cosa avessi pensato, se io per te fossi diventato un bastardo e mi avessi dimenticato. Ho provato in tutti i modi, disperatamente, a contattarti, ma non c’è stato verso di riuscire a ottenere un tuo recapito. Allora io non avevo la possibilità di essere iscritto a un social come questo, eravamo ancora ragazzini, e nemmeno possedevo un PC, i miei non potevano permetterselo, ma dubito che anche tu avresti potuto aprire un profilo qui.

Sai, io non ho mai smesso di pensarti, di pensare a ogni momento passato insieme, da quelli più belli a quelli più brutti. Ricordo ancora quella volta in cui scappasti di casa per fuggire dai tuoi per l’ennesima volta e suonasti alla mia porta; quel giorno pioveva, mi sembravi un pulcino spaurito, non avevi nemmeno l’ombrello. Quella sera dormisti a casa mia e il giorno seguente uscimmo in modo che potessi prendere una boccata d’aria dopo quello che era successo con i tuoi, io avevo portato la mia macchina fotografica, non me ne separavo mai, e avevamo scattato questa foto. Se fosse successo oggi credo che l’avremmo scattata con lo smartphone e forse sarebbe venuta meglio di così, spero che questo ricordo possa farti piacere e spero che tu voglia ancora saperne di me.

No

La foto ritraeva un ragazzo in primo piano che sorrideva alla macchina fotografica, mentre la ragazza era girata di profilo, stava posando un bacio sulla guancia del ragazzo e gli circondava il collo con un braccio, era stata passata allo scanner ed era stata migliorata un po’ per quanto potesse essere possibile. Lei ricordava bene quel giorno, c’era stato uno dei tanti litigi con i suoi, di cui ora non ricordava nemmeno più il motivo, e lei era scappata dall’unica persona che sapeva le avrebbe dato il conforto di cui avrebbe avuto bisogno. Lui l’aveva rimproverata per non aver preso nemmeno un ombrello, ma lei nella fretta non ci aveva nemmeno pensato; lui si preoccupava costantemente per lei, gli veniva naturale soprattutto conoscendo la sua situazione famigliare. Quella sera, dopo averla fatta entrare in casa, le aveva permesso di usare il suo bagno così che si potesse asciugare e mettersi un pigiama di quelli che di solito lasciava a casa sua per quando si fermava da lui. Quando si misero a letto, sotto le coperte, lei lo abbracciò e pianse, pianse tanto e il ragazzo cercò di sciogliere quell'ammasso di inquietudine e tristezza che si era annidato nel suo stomaco massaggiandole la schiena e abbracciandola, sperando che in quel modo sarebbe riuscito a darle almeno un po’ di sollievo; ciò che era rimasto più impresso alla ragazza quella notte erano state le sue parole: non piangere sorellina perché ci sarò sempre io al tuo fianco, non devi temere niente. Subito dopo lei si era addormentata con la testa poggiata sul suo petto e le braccia intorno alla sua vita, lui le aveva dato un bacio sulla fronte una volta che si era accertato che avesse preso sonno poi anche lui aveva ceduto alla stanchezza.

Quelle parole però, dopo che lui era sparito e non si era più fatto sentire, le erano rimbombate prepotentemente nella testa, tanto da sembrarle una stanza vuota in cui si poteva sentire chiaramente l’eco di ciò che il suo migliore amico in quel tempo lontano le aveva detto. Quelle parole si erano rivelate essere una menzogna, alla fine, si era chiesta spesso se potesse avergli fatto qualcosa di male, temeva di avere detto qualcosa nella loro ultima conversazione che lo avesse potuto offendere, e se ne era data la colpa. Ora quel messaggio e quella foto avevano scatenato in lei emozioni differenti, non sapeva più che cosa avrebbe dovuto provare realmente, eppure, se in quei momenti si fosse fermata per un solo istante a pensare, lasciandosi alle spalle la rabbia che provava, avrebbe capito che Noah Ward non era così, non l’avrebbe lasciata mai sola ad affrontare il mondo senza dirle niente, senza nemmeno un messaggio di scuse per averla lasciata in balia di sé stessa, senza nessuno a confortarla in un abbraccio che le avrebbe riscaldato il cuore e che le avrebbe fatto capire che nulla sarebbe stato inutile,  che la sua vita non era così insignificante come lei aveva sempre creduto.

***

Noah Ward e Arlene Cooper si conoscevano sin da quando erano bambini, ed avevano passato tutta la vita insieme o almeno parte di essa, erano inseparabili, non c’era posto in cui Noah andasse che Arlene non fosse con lui, si chiamavano fratellino e sorellina, nonostante tra di loro non ci fosse alcun legame di sangue. I genitori di Arlene non erano quelli che si potessero considerare persone in grado di crescere un bambino, infatti, essi vedevano la ragazza come il loro più grande errore; lei non era stata voluta, era stato un caso che sua madre fosse rimasta incinta e non aveva abortito per una ragione che non era ben chiara, forse nemmeno a sé stessa. Così, l’infanzia della ragazza non era stata delle più rosee, ma lei era sicura che sarebbe potuta andare peggio se al suo fianco non avesse avuto Noah; lui, nonostante fosse un bambino riusciva sempre a confortarla e a tirarle su il morale. Era sempre stato così, anche durante la loro adolescenza non mancava momento in cui il ragazzo diventasse la spalla su cui piangere, e a Noah la cosa non era mai pesata, era diventato normale per lui dare conforto alla sua migliore amica. Avrebbe voluto fare qualcosa di più per lei, ma non aveva mai capito in che modo avrebbe potuto esserle d’aiuto. Per Arlene, Noah era l’unica persona con cui potesse confidarsi e parlare dei propri problemi familiari, non aveva nessun altro amico oltre a lui, le persone per qualche strano motivo le stavano alla larga.

Ma quel giorno, quando i suoi genitori le diedero la notizia che si sarebbero trasferiti in un'altra città, il mondo sembrò crollarle addosso, avvertì come una voragine aprirsi sotto i propri piedi facendola sprofondare sempre più giù in quell’abisso oscuro. Non avrebbe avuto più nessuno in grado di sostenerla, nessuno che avrebbe potuto confortarla. Il suo respiro si era fatto pesante, non era sicura che sarebbe riuscita ad arrivare alla fine di quella giornata, che era improvvisamente diventata la più difficile di tutte.

- Non potete farmi questo! – aveva urlato in faccia ai genitori, senza alcun timore di poter venire colpita da uno schiaffo o un calcio.

- Ce ne dobbiamo andare da questo schifo di città, tuo padre ha avuto un’opportunità di lavoro altrove, tu sei ancora minorenne e farai ciò che ti diciamo noi – le aveva risposto la madre tra i denti con fare minaccioso.

- Ma io non posso andarmene da qui – le aveva detto Arlene, abbassando il tono di voce, non era nemmeno riuscita a farla sembrare una supplica.

- Perché, hai i tuoi amici qui? Oh, scusa, volevo dire amico visto che non hai nessun altro, o forse è più di un amico, forse hai già perso la verginità con lui – le disse la madre facendole il verso, Arlene si sentì ribollire il sangue nelle vene e strinse i pugni.

- Non ti permetto di dire questo di Noah, potete prendervela con me, ma non con lui. Lasciatelo fuori da questa storia. Voi siete dei pessimi genitori. Io vi odio!  – Urlò in faccia a quella che sarebbe dovuta essere sua madre ma che per lei non era nient’altro che un’estranea, la mandavano a scuola soltanto perché altrimenti sarebbero potuti finire dietro le sbarre.

- Noah, allora ha un nome? – la madre le si fece più vicina cercando, forse, di spaventarla in qualche modo. Ma Arlene non provava alcun tipo di timore verso sua madre.

- Ti odio, siete delle persone spregevoli – le disse infine correndo poi fuori dalla casa sbattendo la porta, poteva sentire alle sue spalle la risata di sua madre, che si prendeva gioco di lei.

Corse a perdifiato, fino a sentire i polmoni bruciare; di nuovo, non si era nemmeno portata una giacca o qualcosa per coprirsi. Le sue gambe ormai conoscevano la strada a memoria, dalla sua bocca uscivano nuvole di vapore, sentiva le forze venirle meno quando, la casa del suo migliore amico le si parò davanti: alla vista dell’abitazione tirò un sospiro di sollievo. Salì quei pochi scalini che la separavano dalla porta d’ingresso e suonò il campanello; quando vide che nessuno le apriva, bussò insistentemente alla porta.

Dall’interno della casa il ragazzo sentì qualcuno alla porta dopo qualche istante, stava uscendo dal bagno e non si era nemmeno reso conto della presenza di qualcuno sull’uscio di casa. Attraverso il vetro opaco dell’ingresso riusciva a scorgere soltanto una figura femminile. Così andò ad aprire la porta in tutta tranquillità.

- Sì eccomi arrivo, un secondo – disse sentendo l’insistenza della persona dall’altra parte della porta.

Quando aprì l’uscio e vide la sua migliore amica con un’aria sconvolta, la sua bocca si spalancò leggermente e per un attimo non seppe che cosa dire. Poi, come risvegliato da un sogno ad occhi aperti, si decise a scostarsi dalla porta per farla entrare in casa, chiudendosela successivamente alle sue spalle. Quando si voltò e la vide di schiena, notò che non indossava nemmeno una giacca o un cappotto che la potesse coprire, e il suo istinto di apprensione prevalse su tutte le domande che gli circolavano in testa.

- Sei uscita senza nemmeno una giacca, ma lo sai quanto freddo fa? – la rimproverò arrabbiato.

Lei gli rispose con la testa bassa e con voce tremante: - Lo so ma non potevo rimanere in quella casa un attimo di più – allora lui le si avvicinò e le circondò le spalle con un braccio. Lei stava piangendo e lui poteva sentire i suoi singhiozzi.

- Hey che cosa è successo? Che ti hanno fatto questa volta? – le chiese. Noah era abituato a qualsiasi cosa ormai, conosceva bene i genitori di Arlene e sapeva di che cosa erano capaci quei due.

- È terribile No, questa volta non c’è alcun rimedio – lo informò disperata stringendo la sua maglietta tra le mani.

-Non credo, siamo sempre riusciti a risolvere qualsiasi cosa noi due, ci sarà una soluzione. – Lui sembrava essere tranquillo, pensava di poter aggiustare le cose come avevano sempre fatto.

- Non questa volta… ci… ci trasferiamo, non potremo più vederci. –

- Cambiare casa non è poi così male, magari potrai avere una camera più grande – tentò di rassicurarla, perché Noah credeva che Arlene si sarebbe trasferita solo in un’altra abitazione, rimanendo sempre nella stessa città, non sapeva quanto si sbagliasse in realtà.

- No, io non cambierò solo casa, ma ce ne andremo via da questa città, non potremo più vederci come prima. Io come farò senza di te? – disse lei, circondandogli la vita con le braccia e nascondendo la testa nel suo petto.

Noah, sentì le sue gambe cedere, e per un attimo credé di crollare a terra. Ora era realmente preoccupato per lei, come avrebbe fatto ad affrontare i suoi genitori se non poteva nemmeno fuggire da qualcuno di fidato? E come si sarebbe sentito poi lui nell’ udirla disperata e senza poterla confortare in nessun modo? Ma Noah sapeva che tra loro due ci sarebbe dovuto essere qualcuno forte, che avrebbe dovuto prendere le redini della situazione in mano, così si voltò e le prese il viso tra le mani, glielo fece sollevare delicatamente in modo che lei potesse guardarlo negli occhi.

- Ascoltami, andrà tutto bene, ok? Non ti devi preoccupare, noi ci sentiremo comunque, e quando saremo grandi torneremo a vederci di nuovo. Magari potremmo diventare coinquilini in modo da dividere le spese e tu potrai dimenticarti dei tuoi genitori, ma fino ad allora devi tenere duro e diventare più forte, anche se non ci sarò più io al tuo fianco. Ok? – le disse scrutando nei suoi occhi scuri, cercando una risposta che riuscisse perlomeno a farlo stare tranquillo.

- Sì te lo prometto – gli rispose, guardandolo dritto negli occhi. Noah le diede un bacio sulla fronte, sapeva che quel gesto poteva tranquillizzarla.

- Vedrai, andrà tutto bene. Anche se non lo sai, tu sei una persona forte, saprai cavartela anche senza di me – cercò ancora una volta di confortarla il ragazzo. Arlene allora lo abbracciò e lo strinse ancora più forte a sé.

- Ma tu sei il mio ossigeno, come farò senza di te? – si confessò lei.

- Io ci sarò sempre per te, in qualsiasi momento avrai bisogno di me ti basterà chiamarmi. E anche se sarò lontano e non potrò fare molto, cercherò in ogni caso di starti vicino. Non devi preoccuparti di nulla – la rassicurò abbracciandola a sua volta.

- Ti voglio bene Noah. – gli disse lei.

- Anche io te ne voglio Arlene. – rispose lui depositandole un bacio tra i capelli.

Quella notte come sempre Arlene dormì da Noah, dopo aver cenato e apprezzato la cucina della signora Ward, che sapeva metterla di buon umore con i suoi piatti non troppo sofisticati. Arlene ogni volta aveva paura che la signora temesse che lei non mangiasse abbastanza a casa sua, dato che preparava sempre una cena abbondante, degna di un intero reggimento. Ma la madre di Noah era sempre gentile con lei, e Arlene non osava mai rifiutare il pasto che le veniva offerto. Dopo cena i due ragazzi salutarono e andarono al piano di sopra, Arlene indossò il solito pigiamone in pile e si mise sotto le coperte insieme a Noah.

- Dici che ce la faremo ad affrontare tutto questo? – chiese lei con un’espressione preoccupata in volto.

- Certo, vedrai che ce la caveremo alla grande – lui le rispose dandole un bacio sulla fronte e tenendola stretta a sé.

L’indomani mattina, la ragazza si portò via tutte le cose che aveva sempre lasciato in caso di emergenza a casa di Noah, non le sarebbero più servite d’ora in avanti.  Noah l’accompagnò alla porta e le diede un bacio a stampo sulle labbra, sorridendole.

- Fammi sapere quando tornerai a casa. – si raccomandò.

- Sì, ci sentiamo dopo – gli disse lei ricambiando il suo sorriso.

I due si salutarono e poi Noah attese di vederla scendere le scale, percorrere il piccolo vialetto di casa e imboccare il marciapiede in direzione della propria dimora, fino a che non la vide scomparire dalla sua vista, prima di chiudersi la porta alle spalle, poggiare la schiena sul legno e scivolare a terra con il viso rivolto verso l’alto ed emettendo un sonoro sbuffo. Avrebbe voluto dirle che anche per lui, lei era come ossigeno, ma temeva che così facendo avrebbe soltanto peggiorato le cose e che dirsi addio sarebbe stato più complicato di come lo era già stato. Era strano come improvvisamente si fosse accorto di quanto Arlene fosse importante nella sua vita, non che non lo sapesse già, ma aveva preso una consapevolezza maggiore nel momento in cui aveva appreso quella terribile notizia, non sapeva che sarebbe stata più dolorosa di quanto avesse pensato. Arlene era come la sorella che non aveva mai avuto, e separarsi da lei sarebbe stato estremamente doloroso, eppure entrambi non potevano farci nulla. La loro unica consolazione era che si sarebbero potuti sentire al telefono sempre, in ogni occasione quando avrebbero avuto bisogno l’una dell’altro. Nemmeno quell’ostacolo poteva dividerli, loro erano più forti di qualsiasi tipo di catastrofe gli fosse caduta addosso.

Una settimana dopo quella tremenda notizia, Arlene partì con i suoi genitori per un’altra città: aveva salutato Noah la sera prima rimanendo a dormire da lui, tornando a casa appena in tempo, prima che i suoi si svegliassero. Sua madre era stata chiara, se non l’avesse vista il giorno successivo a casa, sarebbero partiti senza di lei. Arlene sapeva che non avrebbe potuto vivere a casa di Noah fino a che avesse compiuto diciotto anni, anche se, a dire la verità, il pensiero di vivere insieme a lui come se fosse stata sua sorella le era passato per la mente, ma lo aveva scacciato subito dopo. Nonostante i genitori del suo migliore amico fossero così gentili non lei, non poteva di certo approfittarsi della loro generosità in quel modo, e poi non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere una cosa del genere né al suo migliore amico né tantomeno ai suoi genitori. Quante volte aveva pensato che sarebbe stato stupendo se Noah fosse stato davvero suo fratello e che i suoi genitori fossero stati sul serio sua madre e suo padre!

- Forza sali in macchina – le disse con riluttanza sua madre, afferrandola per un braccio.

- Ahi, mi fai male – protestò la ragazza.

- Muoviti, non voglio sentire storie, siamo già in ritardo, a quest’ora saremmo dovuti partire da un pezzo. – La donna la spinse con forza nell’auto, chiudendo la portiera subito dopo. Il padre come al solito se ne stava a guardare in silenzio, senza dire nulla, senza protestare per i modi che la moglie usava nei confronti della figlia, e questo agli occhi di Arlene lo rendeva complice delle atrocità che lei doveva subire da parte della donna.

Ad Arlene il viaggio sembrò molto lungo; sentiva che il suo cuore, o almeno una parte di esso, era rimasto indietro, lì dove era il suo porto sicuro, la sua salvezza ogni volta che aveva bisogno di essere salvata, la sua cura ogni volta che ne aveva necessità. Osservava il mondo, che scorreva fuori dal finestrino di quell’auto che l’avrebbe portata lontana, senza nemmeno vederlo, non le importava un granché di conoscere la destinazione, o di vedere come sarebbe stato il paesaggio; a lei importava soltanto di ritornare lì, dove aveva lasciato una parte di sé e dove sapeva che non sarebbe mai più tornata. Nemmeno quando il mezzo si fermò e sua madre le intimò di scendere, le importò di sapere se la casa fosse bella oppure un rudere. Scese dall’auto e prese la sua misera valigia che conteneva le poche cose che aveva: i suoi le compravano soltanto il minimo indispensabile, quanto bastava perché si potesse coprire e andare a scuola con qualcosa addosso, non importava cosa.

In silenzio, una volta entrata nella nuova casa, salì al piano superiore, cercando una camera qualsiasi in cui poter sistemare le proprie cose, almeno in quello sua madre non aveva avuto nulla da obiettare. Una volta trovata la stanza, posò la valigia sul letto e come prima cosa mandò un messaggio al suo migliore amico. Era un gesto che compiva abitualmente; ogni volta che andava in vacanza con i suoi o tornava a casa, scriveva sempre a Noah per rassicurarlo che stesse bene.

Sono arrivata, e mi sono già scelta la camera, non chiedermi come è la casa, perché nemmeno ci ho dato un’occhiata, a me importa soltanto di avere un tetto sulla testa. Stare qui con loro sarà un incubo.

L’amico via messaggio cercò di tranquillizzarla ancora una volta, sperando di poterle essere d’aiuto anche solo con quelle poche parole mandate in via telematica. Così si scrissero e si telefonarono per circa due mesi; poi, un giorno, Arlene tentò di contattare il suo migliore amico, ma lui non rispose più, né alle chiamate né ai messaggi. Fu allora che tutto il mondo intorno a lei sembrò crollare di nuovo; inizialmente aveva pensato che Noah avesse avuto qualche problema e non avesse potuto chiamarla, ma poi, con il passare dei giorni, si fece strada dentro di lei la consapevolezza che lui non l’avrebbe mai più fatto. Si era detta diverse volte che in fondo era plausibile che succedesse, ora erano lontani e a Noah non costava nulla tagliare i ponti con lei, si era chiesta se sarebbe stato meglio se avessero troncato il loro rapporto già quell’ultima volta che si erano visti, forse non avrebbe sofferto così tanto.

Arlene aveva pianto, non ricordava precisamente quante lacrime avesse versato, ma sapeva di avere passato giornate intere a piangere nella propria camera. Il suo sostegno era improvvisamente venuto a mancare e lei aveva pensato di essere crollata insieme a lui. Sarebbe stato tutto diverso da quel momento in poi, lo sapeva bene, affrontare i suoi sarebbe stato molto difficile, perché sarebbe stata sola; così decise di smettere di pensare, non si sarebbe mai più voltata indietro, avrebbe cancellato Noah dalla sua vita e chiuso il suo cuore a chiunque. A scuola non si fece nessun amico, aveva paura di soffrire ancora come era successo con Noah, e i libri di scuola erano diventati gli unici amici che potesse avere.

Così passò gli anni scolastici che le rimanevano con la testa costantemente sui libri. La vita con i suoi genitori non era facile, ma cercava sempre di incontrarli il meno possibile chiudendosi in camera, e sua madre, stranamente, non faceva storie se non usciva dalla stanza per la maggior parte della giornata. Quando si diplomò decise che avrebbe lasciato la casa dove viveva con i suoi. Lei non l’aveva mai considerata come casa propria, tuttavia non poteva andarsene subito perché non aveva molti soldi, ma decise che avrebbe lavorato per racimolarne un po’ e andare nella città dei suoi sogni, ovvero New York, una volta lì si sarebbe trovata un buon lavoro e un appartamento, e avrebbe vissuto una vita felice per quanto potesse essere possibile.

Dopo un paio d’anni, riuscì a racimolare la cifra che le serviva per trasferirsi e poter affittare un appartamento e non ci pensò due volte a lasciare la casa dei suoi genitori; in fondo le era sempre andata stretta e non li salutò nemmeno, sapeva bene che non meritavano nulla da lei, nemmeno sapere dove si sarebbe trasferita. Questa volta durante il viaggio si godé il panorama che la separava da New York, e per la prima volta assaporò l’emozione di volare su un aereo; a chi la osservava da fuori, poteva sembrare una bambina che stava scoprendo il mondo, e forse lo era davvero. Anche una volta a New York respirò l’aria che emanava quella città, e che per lei sapeva di nuovo, un’aria di cambiamento.

A New York trovò quasi immediatamente un lavoro e dopo qualche tempo anche un appartamento non molto grande e che arredò di cose semplici; in fondo a lei non piaceva molto farsi notare e il suo appartamento avrebbe dovuto rispecchiare questa sua caratteristica. Tuttavia, il suo momento di felicità ebbe vita breve; aveva iniziato a sentirsi sola dopo nemmeno una settimana che era in quella grande città, non conosceva nessuno e soprattutto sapeva che le mancava qualcosa, però voleva evitare di pensarci, di pensare che se ci fosse stato Noah sarebbe stato tutto diverso da come erano andate le cose, e così si gettò a capofitto nel lavoro. Lì, rispetto a quando frequentava il liceo, dopo un paio di settimane aveva iniziato a fare qualche conoscenza, eppure quel senso di solitudine non voleva saperne di andarsene da lei, e non sapeva per quale motivo, lì in quel luogo fosse più opprimente di come lo fosse prima. Un’altra volta, per evitare di pensarci, cercò di reprimere i ricordi, nascondendoli nell’angolo più recondito della sua anima, sperando che potessero riaffiorare il più tardi possibile. Non avrebbe mai pensato che quel giorno sarebbe arrivato più presto di quanto si aspettasse.

***

Il suo sguardo era ancora incollato allo schermo del Pc, non sapeva che cosa dire, se rispondere oppure no, forse non avrebbe dovuto cedere alla tentazione, questo era uno dei tanti campanelli d’allarme che risuonavano nella sua testa e una vocina le ripeteva di continuo quella frase. Doveva davvero credere che la giustificazione che le era stata data in quel post, fosse la verità? Che tutti i suoi tormenti avevano trovato la loro risoluzione in qualcosa di così banale come la perdita di tutti i contatti? Forse poteva essere uno scherzo di cattivo gusto. Ma nessuno sapeva di Noah; alle poche conoscenze che possedeva, non aveva mai rivelato quello scottante segreto per lei, o per meglio dire non aveva mai voluto sollevare quell’argomento, perché sapeva che sarebbe significato prendere consapevolezza di quella mancanza così logorante.

Le mani le tremavano ed erano sudate, il fiato si faceva sempre più corto, era come se stesse correndo la maratona di New York, il cuore sembrava esploderle nel petto. Gli occhi leggevano per l’ennesima volta quelle parole che ricordavano un passato in parte felice. Arlene non sapeva cosa stesse facendo Noah dall’altra parte dello schermo; se lo immaginava con il cellulare in mano oppure davanti al Pc ad attendere una sua risposta, o non sperava che lei gli rispondesse, o forse non si aspettava nulla e stava dedicandosi alle proprie faccende senza curarsi di lei. Le sue mani si avvicinarono alla tastiera, come se fosse rovente e sotto a quel post iniziò a scrivere, poche ma semplici parole:

Da quanto tempo… No, non ti ho dimenticato, come avrei potuto. Stai tranquillo, alla fine se sono ancora qui è perché ho saputo cavarmela da sola, anche senza di te. =)

Noah, sentì una notifica arrivare sul suo telefono e si precipitò immediatamente a vedere, ma quella risposta gli fece spegnere immediatamente il sorriso sulle labbra; che si aspettava in fondo? Non poteva di certo pretendere che Arlene lo accettasse di nuovo nella sua vita, senza opporre resistenza. Quanto gli mancava, soltanto lui lo poteva sapere.

Anche Noah si era trasferito a New York e, quando aveva cercato la sua amica su Facebook, la sorpresa era stata grande, nel momento in cui aveva scoperto che anche lei abitava nella stessa città. Tuttavia, aveva titubato parecchio prima di chiederle l’amicizia e di scrivere quel post con la foto che li ritraeva insieme, l’aveva conservata per tutti quegli anni. E lei aveva risposto come si meritava, ma doveva ammettere a sé stesso che un po’ nel suo cuore aveva sperato che la sua migliore amica capisse, che si ricordasse di lui abbastanza per comprendere quanto fosse sempre stato sbadato. Però, non si era reso conto che dopo tutti quegli anni passati a cercare di dimenticarlo, non poteva in alcun modo pretendere che lei credesse che fosse ancora il ragazzino che aveva lasciato tempo prima nella loro città natale, era del tutto impossibile che lei potesse fidarsi di uno sconosciuto che appariva all’improvviso e diceva di essere il suo migliore amico.

Una notifica lo distrasse dalle sue elucubrazioni, sbloccò il telefono e controllò sulla applicazione di messaggistica chi fosse stato a mandargli un messaggio; una volta che si rese conto dell’identità del mittente, spalancò gli occhi. Non si sarebbe mai aspettato che lei, nonostante quella risposta, gli scrivesse in privato, il suo cuore aveva iniziato a impazzire; aveva paura di quello che Arlene gli avrebbe detto, aveva paura di affrontare quella situazione, di affrontare quella rabbia che di sicuro la sua migliore amica gli avrebbe riversato addosso. E quando posò il suo sguardo su quelle poche parole, ogni sua preoccupazione venne confermata.

09:30

Da quanto tempo eh, io non so cosa dire, davvero, non so nemmeno se crederti, se pensare che sei sincero con me. Io ho cercato di dimenticarti, ma tutte le cose che abbiamo passato insieme non possono essere cancellate con un colpo di spugna, però le tue parole, quando mi hai detto che per me ci saresti stato, erano tutte menzogne, tu non c’eri quando io avevo più bisogno di te, non c’eri quando avrei potuto cercarti per avere qualche parola di conforto. Tu conoscevi la mia situazione familiare, e ora te ne esci con la storia di aver perso il cellulare. Non lo so Noah, io non so se ti posso credere, mi sento così confusa.

Lo so che è una storia poco credibile, ma ti giuro che è la verità, mi dispiace averti lasciata sola per tutto questo tempo. Conoscevo la tua situazione familiare, ma te l’ho detto, tu sei forte, e se sei arrivata qui fino ad oggi, è per questo motivo, voglio pensare che il nostro allontanamento sia stato un segno del destino, per farti comprendere quanto tu possa farcela in ogni caso, con le tue forze, senza l’aiuto di nessuno.

Stronzate, se così fosse, il destino è un gran bastardo, perché decido io come voglio vivere la mia vita, e avrei tanto voluto che tu ne avessi fatto parte, anche nel tempo in cui saremmo stati lontani. Tu mi facevi sentire parte di un qualcosa, che quel surrogato di famiglia che avevo non possedeva, ma forse era così che doveva andare.

Posso esserlo ancora.

Sei lontano.

Sono a New York.

Menti.

Lo giuro sulla mia stessa vita.

Non ti credo, dimostramelo.

 

L’ho scattata qualche giorno fa.

Non dimostra nulla, potresti anche averla presa su internet.

Testarda come sempre, proprio non riesci almeno a darmi una piccola possibilità, non è vero?

No, mi dispiace.

Almeno possiamo incontrarci?

Come faccio a sapere se ci sarai?

Perché ci sarò, questa è una promessa che sono deciso a mantenere.

Se è una delle tue, risparmia le parole.

Va bene, ti supplico, ti prego, fidati di me un’ultima volta. Incontriamoci al Central Park, domani mattina, facciamo colazione insieme, se non mi presenterò, giuro che non mi farò sentire per il resto della vita e ti dimenticherò.

D’accordo, ma cerca di mantenere le tue promesse, se mi dai buca, io e te abbiamo chiuso… definitivamente.

Lo prometto.

Bene, incontriamoci domani a Central Park, alle otto. Sii puntuale, se non lo sarai, aspetterò per cinque minuti ancora, dopodiché me ne andrò, e saremo due estranei poi.

D’accordo, sarò puntuale.

A domani =)

Noah non si stupì che Arlene non avesse risposto al suo ultimo messaggio, c’era da aspettarselo in fondo, non poteva sperare che tornasse tutto al suo posto in pochi minuti in cui si erano sentiti, soprattutto perché lei era stata molto severa con lui, poteva sentire tutto il suo rammarico e la sua rabbia trasparire in quelle parole che lei gli aveva rivolto. Ci stava male da diverso tempo, e non poteva fare altro che darsi la colpa, se solo fosse stato più attento, se solo non fosse stato sempre così sbadato, non avrebbe perso la persona più importante della sua vita. L’indomani si sarebbero rivisti dopo tanto tempo, ma l’unica cosa a cui pensava era che, con ogni probabilità, si sarebbero detti addio definitivamente. Era più che sicuro che fossero cambiati entrambi, durante quel secolare lasso di tempo, e che forse si sarebbero trovati incompatibili sotto ogni aspetto.

Si chiedeva come fosse diventata ora che era entrata a far parte del mondo degli adulti, che cosa le fosse successo durante le superiori, frequentate in quella città estranea in cui lei non voleva andare, chissà se aveva trovato un amico migliore di lui. Se fosse riuscita a conoscere qualcuno. Noah non aveva mai avuto una relazione, ma nemmeno aveva mai provato ad avvicinarsi a qualcuno, forse nella sua vita passata al college ci sarebbe potuto essere una persona, ma era troppo codardo e distratto dal senso di colpa di aver perso la sua migliore amica, per preoccuparsi di amare qualcuno. Tuttavia, aveva scoperto di non essere un ragazzo normale, o per meglio dire; non era esattamente ciò che gli altri potevano considerare nella norma.

Quella giornata di fine autunno per entrambi sembrò essere eterna, il tempo scorreva a malapena, e parevano aver perso totale interesse in ciò che li circondava. Arlene continuava a dire a sé stessa che avrebbe mantenuto un tono freddo nei confronti di Noah, lei non lo avrebbe lasciato rientrare nella sua vita tanto facilmente, ammesso che quell’incontro avesse significato un riappacificamento da parte di entrambi, non voleva ammettere a sé stessa che aveva sperato nel corso degli anni, quando aveva ceduto e le era capitato di pensare a Noah, che la loro amicizia non fosse svanita nel vento, come si era imposta di credere per tutto quel tempo.

Quella notte, dopo essersi coricati, entrambi non riuscivano a prendere sonno, continuavano a rigirarsi nel letto. L’agitazione sembrava scoppiare nei loro petti, facendo battere forte i loro cuori; Noah si rifiutava di credere che quello potesse essere il loro ultimo incontro, quello che avrebbe decretato la fine della loro amicizia, dopo essere stato così male per anni. Arlene avrebbe almeno dovuto stare a sentirlo, comprendere le sue ragioni, e poi avrebbe potuto prenderlo a calci, in fondo lui sapeva di meritarselo, come avrebbe potuto biasimarla. Aveva sbagliato ed aveva pagato, tormentandosi per tutti quegli anni e, molto probabilmente, non avrebbe mai smesso di pagare quel debito per il resto della sua vita.

Dall’ altro lato Arlene continuava a tormentarsi le mani dal nervosismo, aveva vissuto il corso della vita che li separava senza Noah, era stata arrabbiata con lui per diverso tempo, quell’allontanamento forzato le aveva fatto male, aveva sempre creduto che lui ci sarebbe sempre stato per lei, che non si sarebbe mai sentita sola, che non avrebbe mai dovuto combattere da sola, invece era tutto ciò che era successo. Sua madre non aveva fatto altro che gioire della sua malinconia e della sua solitudine, ed era anche per questa ragione che si era rifugiata costantemente nella sua camera con la testa sui libri, le bastava vedere quel suo sguardo disgustato e sopportare le sue frecciatine durante i tre pasti più importanti della giornata in cui si vedevano, e inoltre guardare suo padre che se ne stava lì, fermo, senza dire nulla le faceva rivoltare lo stomaco da quanto disgusto provasse nei confronti di quelle persone che avrebbero dovuto fare parte della sua famiglia, ma che in realtà per lei non lo erano. Aveva creduto che famiglia avrebbe trovato il suo significato in una sola persona, e che questa persona rispondesse al nome di Noah, ma le sue certezze erano venute a mancare nel momento in cui anche quel piccolo raggio di sole si era spento dentro di lei, e aveva trascorso anni nella più nera oscurità. Ma ora che quel raggio di sole stava tentando di illuminare nuovamente la sua vita, lei stava cercando con tutte le sue forze di allontanarsi da esso, per paura di scottarsi nuovamente con la sua luce. Sarebbe dovuta essere determinata il giorno successivo, non avrebbe dovuto cedere, cercare di essere il più distaccata possibile. Sì, avrebbe agito in questo modo, non avrebbe avuto alcuna remora nei confronti di Noah, sarebbe stata spietata con lui.

L’alba si presentò a loro prepotentemente, nessuno dei due aveva chiuso occhio per tutta la notte e alzarsi fu un’impresa ardua per entrambi, le occhiaie sotto i loro occhi erano piuttosto evidenti, si trascinarono in bagno come se ci fosse stata una forza estranea che li spingesse a compiere quei gesti. Sentivano i propri corpi intorpiditi, e ogni muscolo formicolare per la stanchezza. Noah si poggiò con le braccia ai bordi del lavandino, dopo essersi rinfrescato il viso con dell’acqua gelida. Un sospiro uscì dalle sue labbra, così forte che quasi poté sentire i suoi polmoni scoppiargli; era teso, dannatamente teso, non riusciva ad accettare che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui si sarebbero visti, in cui la sua migliore amica sarebbe stata a pochi centimetri da lui. Noah pensava che non avrebbe potuto reggere il suo sguardo severo, di vederla adirata con lui, molto probabilmente non sarebbe nemmeno riuscito a spiccicare la minima parola, si sentiva debole, il suo animo lo era, era cosciente che probabilmente quel rimpianto lo avrebbe logorato per il resto della propria esistenza.

La prima ad arrivare al parco fu Arlene, si recò lì dieci minuti prima dell’ora che aveva stabilito con Noah, si sedé su una delle tante panchine lungo uno dei viali del parco, osservando le persone che senza curarsi di lei si dedicavano alle proprie attività quotidiane. Si chiese come facessero le persone a praticare sport così presto la mattina, era qualcosa che proprio lei non si sapeva spiegare. Rimase lì a contemplare le poche foglie che erano ancora appese ai rami, in una stabilità precaria: era quasi sicuro che di lì a poco si sarebbero staccate per poi cadere al suolo, ed era un po’ ciò che era successo a lei quando Noah era sparito, era caduta dal suo albero, senza che nessuno la raccogliesse, ed era rimasta su quel prato bagnato per diverso tempo prima di scomparire completamente.

I dieci minuti passarono ma di Noah nemmeno l’ombra: la delusione le si poteva leggere sul volto, lui glielo aveva promesso, lei si era fidata, lui le aveva detto che ci sarebbe stato. Bugiardo, non era nient’altro che un bugiardo, anche quella volta le aveva promesso che le sarebbe rimasto sempre accanto, ci aveva sperato, si era illusa che quel tassello sarebbe tornato al suo posto e invece non era stato che l’ennesimo miraggio, l’ennesima presa in giro. Non ci poteva credere, ancora una volta ci era cascata, aveva creduto che lui potesse essere cambiato, che non l’avrebbe ferita ancora, invece quella lesione si era riaperta nuovamente, dopo tanto tempo che non l’aveva sentita dolere, ora aveva richiamato la sua attenzione.

Passarono così anche i fatidici cinque minuti che aveva promesso di aspettare appena fossero scattate le otto, ma di lui ancora niente. Sentiva i propri occhi inumidirsi, mentre recuperava la borsa che aveva adagiato a terra e se la metteva a tracolla, alzandosi da quella panchina e avviandosi verso l’uscita del parco, affrettando il passo e senza guardare nessuno, tenendo sempre la testa bassa, i singhiozzi ormai erano diventati incontrollabili, nuovamente quel senso di angoscia era venuto a fare visita al suo animo, come quei giorni, quando aveva pianto all’ombra della sua camera, forse era destino che una come lei soffrisse costantemente, senza mai liberarsi di quel sentimento. Era uscita di casa senza fare colazione, sapeva che l’avrebbero fatta insieme, ma ora sentiva la bocca dello stomaco chiusa, non poteva neanche pensare di mettere qualcosa sotto i denti, era del tutto impossibile per lei in quel momento pensarci.

Noah, all’interno del taxi che aveva preso fuori dal suo palazzo, era nervoso, continuava a mangiarsi le unghie e a sperare che il traffico caotico di New York si sbloccasse. Ma come lui, molti altri erano impazienti, lo poteva intuire dal suono dei clacson che sentiva provenire dall’esterno dell’abitacolo; in fondo New York era così: caotica e sempre in movimento. A volte Noah aveva l’impressione che le persone che vivevano lì, non si godessero a pieno ogni momento della vita, le persone sembravano essere sempre di corsa, senza fermarsi mai nemmeno un solo minuto. Noah sollevò leggermente la manica del cappotto per scoprire la porzione di polso al quale portava lo smartwatch collegato allo smartphone tramite bluetooth, agitò il polso e questo si illuminò, il quadrante segnava le otto e due minuti. Spalancò gli occhi, poi prese il telefono dalla tasca e controllò quanto distava Central Park dalla sua posizione attuale, e il dispositivo segnalò che ci sarebbero voluti almeno una decina di minuti.

- Maledizione! – imprecò a denti stretti mentre l’autista del taxi alzava lo sguardo verso di lui, attraverso lo specchietto retrovisore.

- Mi dispiace signore, ma temo che ci vorrà più tempo del previsto – lo informò, cercando forse di tranquillizzarlo, il taxista.

- Non fa niente, credo che da qui proseguirò a piedi – gli rispose, afferrando la maniglia della portiera e lanciando i soldi all’autista, senza nemmeno preoccuparsi che fosse la cifra giusta.

Corse fuori dal mezzo sbattendo la portiera dietro le sue spalle, e passando tra le auto per raggiungere il marciapiede, una volta raggiunto, corse a perdifiato. Noah avrebbe voluto che il tempo potesse tornare indietro, gli bastava anche solo ad alcuni istanti precedenti, avrebbe tanto voluto accorgersi prima che l’ora per la quale si erano accordati era passata. Tuttavia, sperava tanto che Arlene lo stesse ancora aspettando, che fosse rimasta seduta su una panchina del Central Park, senza accorgersi dello scorrere del tempo. Avrebbe tanto voluto che il destino gli avesse potuto concedere altri istanti, allora corse tra la folla; le persone continuavano il loro cammino verso qualsiasi fosse la loro destinazione, senza curarsi di lui, che si scontrava con loro, per riuscire a raggiungere Arlene il più presto possibile; sapeva che forse ogni suo sforzo sarebbe stato vano, ma voleva sperare che lei lo avrebbe aspettato anche più del tempo che avevano pattuito. Quando arrivò nei pressi del parco e si inoltrò all’interno di esso, fece vagare lo sguardo sulle panchine, ma non vide nessuno che somigliasse anche solo lontanamente alla sua amica d’infanzia, aveva guardato tra le sue foto di Facebook per vedere come fosse ora, in modo da riconoscerla per primo. Era consapevole che lei non lo avrebbe riconosciuto mai.

Durante la sua corsa all’interno del parco si scontrò con qualcuno; era una donna che camminava a testa bassa, gli era sembrato di sentire dei singhiozzi provenire da quella persona. Superò la donna e proseguì la sua corsa, in fondo ciò che affliggeva quella ragazza non erano affari suoi, ma dopo che ebbe fatto alcuni passi, si rese conto che conosceva quella persona perciò tornò indietro a cercarla; fortunatamente non era andata molto lontano così, una volta avvicinatosi a lei, la prese per un braccio facendola voltare verso di lui.

Arlene portava dei lunghi capelli neri, Noah intuì che non li avesse mai tagliati da quando si erano lasciati secoli prima, portava una frangia dal taglio netto che insieme alla sua capigliatura ne definivano il viso perfettamente regolare, aveva delle labbra carnose color ciliegia e occhi scuri inumiditi dalle lacrime. Noah sapeva a cosa erano dovute, e non poteva che darsi la colpa, ancora una volta l’aveva delusa, Arlene lo guardava senza smettere di piangere, lei non lo aveva riconosciuto, perciò non capiva le premure di quello sconosciuto.

- Lei chi è? – gli chiese Arlene, strattonando il braccio per scioglierlo dalla sua presa, mentre osservava lo sconosciuto allontanandosi.

- Sono io, Noah – le rispose lui, sentendo il cuore arrivargli in gola, si aspettava che lei girasse sui tacchi e se ne andasse senza dire una parola.

- Tu – lei si avvicinò stringendo i pugni e quando fu vicino a lui iniziò a battergli sul petto – perché sei arrivato in ritardo, perché mi hai fatta attendere così a lungo? Eri l’unica persona che contasse davvero nella mia vita. Perché? – I suoi pugni si abbattevano sul petto di lui con rabbia, Noah incassava in silenzio ogni colpo che riceveva, sapeva di non poter fare altro che lasciarla sfogare, era quello che si meritava per ogni sofferenza che le aveva causato. Sapeva che quelle parole non erano riferite solo al presente, ma anche al passato.

- Mi dispiace da morire, per tutto quanto. – I suoi pugni si fermarono e alzò lo sguardo, per immergersi nei suoi occhi.

Noah era un ragazzo alto; il suo viso allungato, il naso regolare, le labbra screpolate non facevano di lui una bellezza convenzionale eppure l’insieme era armonico e affascinante, esaltato dagli occhi del colore dell’ametista che sembravano scrutare dentro l’anima e poter alleggerire qualsiasi peso gravasse su di essa. Aveva capelli scuri con le punte di un rosso intenso, rasati sul lato sinistro, un ciuffo di capelli gli incorniciava delicatamente il lato destro del viso. Era diverso da come lei si ricordava, non era più lo stesso ragazzino che viveva nella sua mente.

- Mi avevi promesso che ci saresti stato, ma non hai saputo mantenere la tua promessa. – Il suo tono in quel momento si era abbassato, non sembrava nemmeno che volesse rimproverarlo ancora, sembrava soltanto una sua constatazione.

- Lo so, e mi dispiace davvero tanto di non esserti stato accanto nei momenti difficili che hai dovuto affrontare. Immagino che non sia stato facile per te vivere con i tuoi genitori – suppose lui, mentre ancora le mani di lei erano posate sul suo petto.

- Io ho cercato di ignorare mia madre il più possibile, abitavamo nella stessa casa e cercavo di stare chiusa nella mia camera a lungo pur di non incontrarla. – Noah la strinse a sé, posandole una mano sulla nuca.

- Mi dispiace, mi dispiace tanto. – Ora era lui che iniziava a piangere, lasciandosi sfuggire una lacrima solitaria.

Alzò poi lo sguardo per trovare una panchina dove potersi sedere e quando l’ebbe individuata, prese per mano Arlene e si diresse verso la seduta. Arlene lo seguì facendosi trascinare, una volta che lui si fu seduto lei rimase in piedi, ma Noah le sorrise, quasi come se le stesse dicendo: “che fai non ti siedi?” allora lei si accomodò al suo fianco, ma a lui non sembrò piacere molto la sua decisione.

- No, no – le disse battendosi le mani sulle cosce. Arlene a quel punto sembro essere un po’ confusa. – Voglio sentirti vicina – chiarì lui sorridendole; la ragazza si sedé in braccio a lui con le gambe distese sulla seduta e la testa sulla sua spalla, Noah la strinse forte a sé, sembrava temesse che lei potesse fuggire da un momento all’altro. – Voglio conoscere ciò che hai fatto in questi anni fino a ora, voglio sapere che cosa mi sono perso. –

- Non c’è molto da raccontare, la mia vita è tutta qui. Non c’è nulla di speciale – affermò lei, ma Noah non credeva proprio che fosse così.

- Non ti credo, devi pur aver fatto qualcosa, anche solo per rimanere viva – le fece notare lui mentre posava il mento sulla sua testa.

- Quando tu non ti sei più fatto sentire mi sono gettata nello studio, oltre quello, non avevo altri interessi o forse non volevo ammettere di avere un problema e mi sono dedicata a ciò che mi piaceva di più, per non pensare. – Arlene aveva preso a stringere il cappotto di Noah e alle sue narici arrivava un profumo pungente di gelsomino.

- Non avrei mai voluto farti passare tutto questo, se solo non fossi stato così sbadato e non avessi perso il cellulare, non ti avrei lasciata sola. Ero preoccupato per te, ma purtroppo non potevo fare nulla. Mi chiedevo costantemente come stessi. -  Arlene alzò il viso e lo guardò, i suoi occhi stavano per diventare di nuovo umidi.

- Io non stavo per nulla bene; quando sono entrata a far parte del mondo degli adulti, ho cercato in tutti i modi di andarmene da casa dei miei genitori, non avevo soldi per poterlo fare, ma ho fatto diversi lavori per poter racimolare una cifra che mi avrebbe permesso di andarmene, e alla fine ci sono riuscita, però una volta che sono venuta qui, anche se iniziavo ad avere molte più interazioni con le altre persone, sentivo che mi mancava qualcosa, qualcosa di importante, e ho fatto la stessa cosa che ho fatto con lo studio, mi sono gettata a capofitto nel lavoro. Poi, hai condiviso quel post sul mio diario e ciò che mi mancava, in quel momento, è stato più chiaro. -  Arlene aveva abbassato lo sguardo e lo teneva fisso sulla sua mano che ancora stringeva il cappotto di Noah. Poi alzò nuovamente gli occhi verso di lui.

- E tu che cosa hai fatto durante tutto questo tempo? – gli chiese lei curiosa.

- Io…- prese un lungo respiro prima di proseguire, ciò che aveva da dire non sapeva se le sarebbe piaciuto oppure ne sarebbe stata disgustata – … ho scoperto che non mi piacciono le donne… - Arlene si sporse di fianco poggiando le mani al suo petto e inclinando la testa di lato.

- Dici sul serio? – gli chiese lei, sembrava essere una bambina curiosa in quel momento.

- Sì, diciamo che è stato un modo un po’ brusco di scoprirlo. Una mia compagna di classe mi trascinò in uno sgabuzzino e tentò di baciarmi, ma il solo pensiero mi disgustava. – e mentre descriveva la scena, una smorfia deturpava la bellezza del suo viso.

- E lo hai capito solo da questo? magari era lei a non interessarti – per Arlene non era poi un segnale significativo quello.

- No, non è stato solo questo, ma nessuna ragazza che guardassi suscitava alcun interesse in me; però, c’era un ragazzo che mi faceva provare qualcosa, tuttavia, non ho avuto il coraggio di avvicinarmi a lui. – Pronunciò quelle parole con una punta di rammarico nella voce.

- Codardo, come al solito. – lo rimproverò lei. Lui la guardò spalancando gli occhi, Arlene vide una strana luce passare nel suo sguardo viola. Una delle sue mani finì sulla sua pancia dopodiché lui iniziò a farle il solletico, Arlene iniziò a ridere mentre si agitava per sottrarsi da quella tortura ma Noah la teneva saldamente.

- Così, sarei un codardo eh, rimangiati subito ciò che hai detto! – disse continuando a solleticarle la pancia: conosceva quel suo punto debole, era lei che lo aveva provocato ed ora avrebbe dovuto pagarne le conseguenze.

- Va bene, va bene, mi arrendo, rimangio ciò che ho detto. -Arlene cercò di riprendere fiato mentre si ricomponeva – Oddio non ridevo così tanto da… - si voltò a guardare l’amico e poi si fece più seria, anche Noah che stava solamente sorridendo, perse momentaneamente quell’aria di felicità sul suo volto - …tantissimo tempo. –

- Avevi detto che se le otto fossero passate da cinque minuti, le nostre strade si sarebbero divise, lo pensi ancora? – le chiese lui deglutendo a vuoto e sperando che lei non se ne accorgesse.

- No, ma vorrei sapere il motivo del tuo ritardo – rispose lei mettendo il broncio gonfiando le guance e incrociando le braccia al petto.

- Ho preso un taxi per venire qui, ma sono stato talmente fortunato che abbiamo trovato traffico, la coda non si muoveva nemmeno di un centimetro, allora ho corso sperando di fare il più presto possibile, fortuna che ti ho trovata, altrimenti non ci sarebbe stata altra soluzione. Non avrei mai immaginato di poter stare lontano dalla mia sorellina e non poterla più rivedere. – Arlene gli sorrise, si era detta che non avrebbe dovuto cedere, che avrebbe dovuto mantenere una certa freddezza nei suoi confronti, invece non ci era riuscita.

- Credevo mi avessi presa in giro, che non saresti venuto, mi era passato persino l’appetito. – Noah a quel punto si ricordò del perché si dovevano incontrare lì. Non aveva nemmeno fatto colazione per quel motivo.

- Non ti prenderei mai in giro, sciocca, non mi conosci così bene come credevo, potrei ritenermi offeso per questo – la prese in giro lui, ma Arlene non sembrò esserne troppo felice.

- Scemo – lo redarguì lei, mentre il ragazzo l’abbracciava stretta a sé. In quel momento un gorgoglio proveniente dalla pancia di Arlene attirò la loro attenzione.

- Credo che sia meglio se andiamo a fare colazione da qualche parte, altrimenti morirai di fame.

Si alzarono da quella panchina e si avviarono verso l’uscita di quel parco, Noah prese per mano Arlene, aveva paura di perderla di nuovo, e si era ripromesso che non sarebbe mai più successo, aveva già passato troppo tempo fuori dalla sua vita, aveva perso troppi momenti in cui avrebbero potuto essere uno accanto all’altra. Camminavano tra la folla che non si curava minimamente di loro e chi lo faceva sorrideva perché pensava che fossero ben più che amici. Arlene seguiva Noah in silenzio, non importava dove l’avrebbe portata, quello che contava era che stessero insieme per un altro po’. Il loro incontro di quel giorno non era stato altro che la chiusura di un capitolo piuttosto burrascoso per loro e l’apertura di un libro nuovo ancora da scrivere e in quel momento stavano iniziando a gettare le prime parole di un nuovo inizio.

- Sai, credo che potrei licenziarmi dal mio attuale lavoro e magari fare la guida in qualche museo. Chissà se si guadagna bene – disse Arlene guardando fuori dalla vetrata della caffetteria, con il mento posato sul palmo della mano.

- Se è questo che vuoi fare, ci puoi provare – la incoraggiò Noah e Arlene si voltò verso di lui: era strano riavere di nuovo il suo pilastro accanto, portava con sé un’aria familiare. – E non dimenticarti che domani inizieremo ad andare a cercare un appartamento – concluse.

- Appartamento!? – chiese lei confusa, inclinando la testa di lato.

- Sì, non ti ricordi? Te lo avevo detto prima che tu partissi, che avremmo preso un appartamento insieme – puntualizzò lui.

- Sì, ma non credevo lo volessi fare così presto – gli rispose l’amica stupita.

- Ora che ho ritrovato la mia sorellina, non voglio perdere tempo. – Noah le sorrise, e Arlene sapeva che da quel momento la sua vita avrebbe preso una piega diversa da ciò che avrebbe mai immaginato, e finalmente avrebbe trovato la sua felicità, se c’era Noah al suo fianco.

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Angolo Autrice

Buonasera a tutti anche a chi ancora non mi conosce.

Ultimamente, tendo sempre ad ambientare le mie storie a New York, non so di preciso che cosa ci sia che mi leghi a questa città però mi mette parecchio a mio agio scrivere di lei anche se non la conosco, e spero che questa mia storia vi sia piaciuta almeno un po'.


Alla prossima =)
   
 
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