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Autore: Losiliel    24/02/2023    1 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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10

Errori

(o quando pensi di aver toccato il fondo e non sei neanche a metà strada)

 

 

– Se non sei interessato a questo argomento, Morifinwë, proponine uno tu.

Nell’udire il suo nome, Morifinwë si riscosse dai suoi pensieri. Quasi si stupì di trovarsi seduto al tavolo dello studio, alla fattoria, davanti a un foglio su cui c’era scarabocchiato lo schema di un bilancio di forze. Quella sfera sul piano inclinato assomigliava incredibilmente alla sua testa che rotolava dopo essere stata staccata dal collo con un taglio netto.

Si sforzò di riportare l’attenzione sul maestro.

– Cosa? – domandò.

– È evidente che non sei in condizioni di seguire la lezione, oggi – disse Arsanarwë. – C’è qualcosa che non va? – aggiunse poi, in tono preoccupato.

Qualcosa che non andava? Era l’eufemismo dell’anno. Ancora poche ore e la sua vita sarebbe finita.

Appena tornato a casa avrebbe dovuto confessare al padre di aver sabotato la canoa di Angaráto per vincere la gara. Il solo pensiero gli bloccava il respiro nei polmoni. Non ce l’avrebbe mai fatta, nemmeno se l’avessero legato e trascinato di peso davanti al genitore. Tanto valeva lasciare che fosse Tyelkormo a dirglielo.

Sì, ecco, avrebbe fatto così: si sarebbe rintanato in camera sua finché suo padre, informato dal fratello, non fosse arrivato, infuriato come Tulkas alle porte di Utumno, a dirgli quanto era deluso da lui, l’unico tra i suoi figli che gettava disonore sulla famiglia.

Oppure, meglio ancora, non sarebbe rientrato affatto. Se ne sarebbe andato a nascondersi da qualche parte e avrebbe cominciato una nuova vita dove nessuno lo conosceva. Magari come allevatore di cavalli, o come contadino.

– Per oggi abbiamo finito – disse il maestro, ora in piedi accanto a lui. Gli mise una mano sulla spalla: – Vai a casa, Morifinwë.

Morifinwë si alzò a sua volta borbottando una scusa qualsiasi, raccolse le sue cose e uscì dallo studio a testa bassa. Percorse il corridoio a passo svelto, sperando di non incrociare nessuno, ed era quasi arrivato sano e salvo alla porta d’ingresso quando sentì una voce che lo chiamava.

– Ragazzino!

Eru benedetto, non lei! In quel momento, non sarebbe stato in grado di affrontare una discussione con la persona meno accondiscendente di tutta Arda.

Eppure si fermò, con la mano già sulla maniglia.

– Ragazzino? – ripeté Elle, questa volta con una nota di apprensione nella voce.

– Che vuoi? – la aggredì lui, – devo andare.

Ma non trovò la forza di aprire la porta.

– E dove vuoi andare, in quelle condizioni?

Morifinwë si accorse che aveva i denti conficcati nel labbro inferiore e gli occhi annebbiati di lacrime. Un battito di ciglia e sarebbe stata la fine.

Proprio allora, una voce acuta risalì dal corridoio.

– Moryo, sei tu?

Era Lissi, che lo cercava. Morifinwë doveva andarsene immediatamente, ma non riusciva a far leva su quella dannata maniglia.

Ci pensò Elle. Prima che la piccola facesse capolino in fondo al corridoio, aprì la porta e lo spinse fuori.

– Facciamo due passi – disse, e lo precedette in direzione del frutteto.

Morifinwë la seguì, non sapendo che altro fare, la sua volontà aveva dichiarato la resa totale.

Con lunghi passi silenziosi, la donna si inoltrò tra gli alberi bassi e allineati, ormai privi di frutti. In breve raggiunsero uno spiazzo dove un ciliegio s’innalzava sopra le altre chiome, carico di fogliame di un profondo verde scuro, che a tratti cominciava a ingiallire. Sotto l’albero c’era una panchina di pietra grigia, resa lucida dall’uso; la luce intensa del primo pomeriggio, facendosi strada tra le fronde, ne illuminava una metà. Elle spazzò via con la mano alcune foglie cadute e lo invitò a sedersi.

In lontananza la vocetta allegra di Lissi lo chiamò un altro paio di volte, poi si udì una porta che sbatteva, e infine il silenzio.

– Ne vuoi parlare? – domandò Elle.

Lui scosse la testa. Era riuscito a ricacciare indietro le lacrime, ed era quasi certo che se avesse aperto bocca avrebbe mandato in fumo il risultato di tanto sforzo.

La donna annuì e non disse più nulla.

La giornata sembrava aver ereditato il clima di quella precedente, non c’erano nubi a velare il cielo e i raggi di Laurelin accendevano caldi riflessi arancioni sulle foglie che cominciavano ad appassire. Un venticello tiepido le faceva ondeggiare e serpeggiava tra le poche già cadute. Uno scoiattolo scese da un tronco, si fermò un istante a guardarli e sfrecciò via. In lontananza si udivano le voci degli uomini che lavoravano nei campi, e più vicino, il cinguettio degli uccelli che andavano e venivano dai loro nidi.

Poco distante da lui, la donna era seduta nella zona in ombra della panchina, col suo vestito azzurro senza maniche, la solita treccia ad avvolgerle la testa e il bracciale di cuoio al polso. Restava immobile, con lo sguardo perennemente vigile ora rivolto davanti a sé, nella direzione in cui era scomparso lo scoiattolo. Sembrava essere sempre all’erta e, allo stesso tempo, estremamente calma, come se nulla di male potesse accaderle. Peccato che il suo stato d’animo non fosse trasmissibile per semplice contatto! Morifinwë fu tentato di prenderle una mano per verificarlo.

Per resistere a quella sciocca tentazione si alzò e fece qualche passo allontanandosi dalla panchina. Poi, colto da un impeto inaspettato, disse: – Ho fatto un errore. Enorme.

E adesso ne sto facendo un altro, a quanto pare, gli venne da pensare. Cosa gli saltava in mente di raccontare i fatti suoi a quella sconosciuta? Avrebbe fatto meglio ad andarsene subito, approfittando della poca calma riconquistata, oppure a rimanere in silenzio a godersi quegli ultimi istanti prima della fine, insieme a una persona che non pretendeva nulla da lui.

Invece cominciò a parlare, e le raccontò cosa aveva fatto, dall’inizio alla fine, senza omettere niente, senza nascondersi dietro le false giustificazioni che continuava a ripetere a sé stesso da quando aveva estratto di tasca il coltello due notti prima.

Alla fine si trovò vuoto, prosciugato. La gola secca, gli occhi asciutti. Trovò persino la forza di voltarsi per affrontare il giudizio di Elle. Adesso che aveva calpestato per bene la sua dignità sotto le suole degli stivali, gli era rimasto ben poco da perdere.

Elle si alzò e fece un passo verso di lui. Disse: – Era solo un gioco, e nessuno si è fatto male. La stai facendo più grande di quello che è.

Morifinwë avrebbe dovuto aspettarselo. Quella donna minimizzava sempre tutto.

– Tu non capisci… – provò a spiegarsi.

Ma Elle non gliene diede la possibilità: – Sii sincero, cos’è che ti angoscia per davvero?

Ma come, non era chiaro? – Mio padre mi ucciderà.

Lei scosse la testa: – Sai bene che non lo farà.

– Mi chiuderà in casa e non mi farà uscire fino alla fine dei tempi – insistette lui.

– Ma per favore! – sbuffò la donna.

– Morirò di vergogna – tentò ancora Morifinwë.

A questo, Elle non si degnò neanche di rispondere.

– E va bene! – gridò lui, alla fine. – Lo vuoi sapere davvero? Te lo dico! Non posso fare a meno di pensare che se sono andato lassù, l’altra notte, era proprio con l’intenzione di… – le parole gli si bloccarono in gola, ma lui le sputò fuori a forza, – con quella intenzione. Che non è stato un gesto stupido, commesso sotto l’impulso del momento, ma che volevo fare quello che ho fatto fin dall’inizio!

Morifinwë prese fiato e continuò, perché ormai fermarsi gli era impossibile: – E non è una cosa che si limita a ieri. Mi sento… mi sento esplodere! Non riesco più a capire perché faccio quello che faccio, non riesco a capire chi sono, chi dovrei essere. Non capisco cosa penso, cosa provo!

– Basta – lo interruppe lei, e nella sua voce bassa e roca si mescolavano determinazione e dolcezza in pari misura.

E lui davvero si fermò, col volto in fiamme per la rabbia e la vergogna.

– Sei un ragazzo che sta diventando grande, e che nel crescere commette errori, come tutti – riprese lei. – Sbagliare è l’unica via per imparare.

Morifinwë scosse il capo con forza: – Ma Russandol, e Tyelko, e Laurë…

– Ragazzino, io i tuoi fratelli non li conosco, ma ti posso assicurare che anche loro hanno passato tutto quello che stai passando tu, ognuno a modo proprio.

Chinò un poco la testa, per riuscire a catturare meglio il suo sguardo, e proseguì: – E ti dirò di più, gli errori che commetterai mentre cresci non saranno mai gravi come quelli che commettono gli adulti.

Prima che Morifinwë potesse ribattere, lei alzò una mano tra loro per zittirlo.

– Fermo! – disse, e le sue dita arrivarono quasi a sfiorargli le labbra, – non voglio sentire una parola sul tuo infallibile padre. Io ne ho viste più di tuo padre, e ti assicuro che è così.

Morifinwë guardò le foglie secche sul terreno che il vento faceva vorticare attorno ai suoi stivali.

– La fai così semplice – mormorò.

– Perché è semplice.

– Cosa devo fare, allora? – lo disse così, per disperazione, non certo perché si aspettava di ricevere una risposta.

Ma lei gliela diede lo stesso: – O vai da tuo padre e gli confessi quello che hai fatto, come vuole tuo fratello…

– O? – chiese lui, sperando in un’alternativa.

– O vai da tuo fratello, gli punti un coltello alla gola e gli dici che se solo osa fiatare lo uccidi nel sonno.

Morifinwë spalancò la bocca ed emise un suono strozzato. Si stupì nel capire che era una risata.

– Sto scherzando, ragazzino – confermò lei, con uno scintillio negli occhi.

Ma lui non ne era così sicuro. Lanciò un’occhiata al bracciale di cuoio e si chiese se sotto non ci fosse davvero il simbolo del pugnale, come glielo aveva illustrato il nonno. Per quanto l’ipotesi avesse un certo fascino, Morifinwë era arrivato alla conclusione che Elle non poteva essere stata una Cacciatrice. Tanto per cominciare, il maestro di storia gli aveva insegnato che le Cacciatrici donne erano rare, e poi, perché mai una Cacciatrice avrebbe dovuto fare la serva, a Valinor? Se quello che sosteneva Findekáno sull’origine della servitù era vero, Elle avrebbe dovuto appartenere alla nobiltà.

In ogni caso, la battuta aveva alleggerito l’atmosfera, e il pensiero di ciò che doveva aver passato quella donna – Cacciatrice o meno che fosse – nella sua vita nelle terre dell’Est, e durante il suo viaggio verso l’occidente, lo aiutò a ridimensionare i suoi problemi. Se non altro, affrontare suo padre non avrebbe causato la sua morte.

Nel silenzio che si prolungò, la voce di Lissi tornò a farsi sentire. Questa volta cercava Elle.

– Ora va’ – gli disse lei, – e non angosciarti. Tutto si risolverà, vedrai.

Lo accompagnò a recuperare Morvail e attese sotto il portico finché lui non montò a cavallo e si voltò per uscire dal piazzale.

 

 

– Mio padre è già rientrato? – domandò a Velmo, quando gli consegnò Morvail.

– Proprio poco fa – rispose lo stalliere.

Morifinwë trasse un respiro profondo e si avviò verso casa.

Per tutto il viaggio di ritorno non aveva fatto altro che pensare alle parole di Elle, per cercare di trarre coraggio dall’atteggiamento della donna, sempre così sicura di sé e di ciò che sosteneva. Continuò a ripetersi che tutto sarebbe andato bene fino al portone d’ingresso del palazzo, e poi ancora nel lungo corridoio che portava allo studio del padre. Trovò persino la forza di bussare e di fare qualche passo nella stanza quando venne invitato a entrare.

Ma quando Fëanáro sollevò lo sguardo dalle sue carte e sorrise con calore nel vederlo, tutto il suo finto coraggio lo abbandonò in un istante.

– Morifinwë! – lo accolse il padre, poi gli diede un’occhiata penetrante che lo percorse da capo a piedi, e domandò: – Hai avuto dei problemi alla fattoria?

Lui fece un debole tentativo di convincere la sua bocca a emettere un suono, anche un singolo monosillabo, ma quella non ne volle sapere.

Fëanáro si alzò allarmato e gli si avvicinò.

– Figliolo, che succede?

Quel tono apprensivo e quel nomignolo inconsueto, che in condizioni normali l’avrebbero reso immensamente felice perché significava che il padre si stava preoccupando per lui, lo colpirono come un pugno nello stomaco. Ogni fibra del suo corpo si preparò alla fuga, e la sola cosa che lo fermò fu la certezza che Tyelkormo fosse proprio dietro la porta, pronto a sbarrargli la strada.

Riuscì a tirar fuori la voce da una gola secca come l’interno di un forno. – Ti devo parlare della gara di ieri.

Suo padre era quanto di più lontano ci fosse da una persona lenta a capire, e all’istante dovette comprendere, se non proprio quello che Morifinwë stava per dirgli, che il problema non era qualcosa che suo figlio aveva subito, ma qualcosa che aveva commesso.

L’apprensione scomparve dal suo sguardo, sostituita da una completa attenzione. Lo slancio nel raggiungere il figlio rimase bloccato a metà. Si tenne a una distanza tale che Morifinwë non dovette alzare la testa per guardarlo in viso.

E in viso lo guardò per davvero. Dove riuscì a trovare il coraggio per farlo, non riuscì mai a capirlo, ma lo guardò dritto negli occhi e buttò fuori: – Ho vinto con l’inganno.

Ecco, era fatta.

Il macigno era stato sollevato dal suo cuore, ora non restava che sopravvivere alla frana che gli sarebbe caduta addosso.

– In che modo? – domandò Fëanáro, e Morifinwë non poté fare a meno di notare che la sua prima domanda non era stata: “perché?”.

Con l’espressione di chi non riesce a venire a capo di un enigma, suo padre aggiunse: – L’unico concorrente che avrebbe potuto impensierirti è andato a sbattere contro una roccia che gli ha distrutto la barca, l’hanno visto tutti.

– Sì – balbettò Morifinwë, – è andata così, ma io… io avevo sabotato la sua canoa.

Fëanáro rimase in silenzio per un lungo momento, come se faticasse a comprendere quelle poche parole. Poi disse: – Ti sei già scusato con tuo cugino?

– Io… no… cioè, lui non… – questo era uno scenario che Morifinwë non aveva neppure considerato, e nemmeno Tyelkormo, a quanto pareva. – Lui non se n’è neanche accorto, la sua canoa non aveva ancora iniziato a imbarcare acqua quando ha avuto l’incidente.

Fëanáro aggrottò le sopracciglia e fece la domanda che Morifinwë temeva di più.

– Quindi sei venuto a confessare ciò che hai fatto nonostante nessuno avesse sospettato nulla? Di tua spontanea volontà?

Lui deglutì a vuoto. Mentire era fuori discussione, se perfino Tyelkormo poteva capire quando diceva una bugia, figuriamoci suo padre.

– Tyelko mi ha… – riuscì a dire, prima che un nodo gli strozzasse la gola.

– Ho capito – sentenziò Fëanáro. Poi gli voltò le spalle e tornò alla scrivania.

– Da quello che vedo – proseguì, con voce piatta, – hai già imparato la lezione da solo. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Non ne parleremo più. Puoi andare.

Morifinwë rimase immobile, lo sguardo fisso sul padre che era già ritornato alle sue faccende.

Si chiese cosa stesse aspettando ad andarsene, e si sorprese nello scoprire che stava aspettando la sfuriata. Che voleva la sfuriata. Voleva sentirsi dire quanto avesse sbagliato, quanto avesse deluso, quanto interessasse al padre ciò che lui faceva o non faceva.

Invece nulla. Congedato. Il principe Fëanáro aveva cose più importanti di cui occuparsi che non fossero il suo insignificante quarto figlio.

Un rumore nel corridoio lo riscosse dai suoi pensieri. Che ci stava a fare lì, a umiliarsi più di quanto non avesse già fatto, e in così tanti modi? Lasciò lo studio a passo spedito, incrociò Tyelkormo che veniva dalla direzione opposta e lo spinse via con tale forza da farlo finire contro il muro.

– Non dire una parola – lo prevenne. E ci aggiunse un insulto di quelli proibiti in casa, anche se sapeva che il padre l’avrebbe sentito. O forse proprio per quello.

Non stette a vedere come reagiva il fratello, fece le scale due gradini alla volta e corse in camera sua. Sbatté la porta con tutta la forza che riuscì a trovare, si lasciò cadere sul letto e diede libero sfogo a lacrime di rabbia.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi sta seguendo la storia!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Russandol = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Makalaurë (qui chiamato Laurë) = Maglor
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Lissi, una bambina che abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Morvail, il cavallo di Morifinwë

 

  
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