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Autore: effe_95    25/02/2023    2 recensioni
[Questa raccolta partecipa al Writober2022 indetto da Fanwriter.it ]
***
31 racconti diversi, ambientati in 31 universi alternativi.
Universi in cui Tooru e Wakatoshi si incontreranno - anche in forme e generi diversi - dimostrando che l'amore, se predestinato, sceglie sempre le stesse persone, non importa quanto diverse esse appaiono.
[ Ushijima x Oikawa ]
***
28. Band
-
«Ehi Tooru, aspetta!». La voce di Tobio lo inseguì, ma lui stava correndo via.
Correva davvero, con i polmoni in fiamme. Sentiva dentro una strana tempesta.
Aveva quasi raggiunto l'altro lato della strada, quando sentì il foulard che aveva messo attorno al collo scivolare sulla pelle. Lo toccò automaticamente, sentendolo sfuggire dalle dita. A quel punto si voltò di scatto e Wakatoshi era dietro di lui, con l'affanno a sua volta, e il suo foulard stretto nel pugno della mano piena di anelli.
«Tooru» lo chiamò per la prima volta con una voce profonda e monocorde, facendo muovere quella tempesta dentro di lui come un mare agitato «ti prego, diventa il cantante della mia band!».
Genere: Angst, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: Gender Bender, Mpreg, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt: Library

N° parole: 16.723

Note: Con questo prompt potrei essere uscita - intenzionalmente (?) - fuori tema.
È scritto in prima persona, cosa inedita per me, perché non scrivevo qualcosa del genere da almeno una decina d’anni, e presenta tre tipi di Pov diversi: Wakatoshi, Tooru e Satori, alternati. Non è una storia felice, al contrario. Per questo motivo la segnalo ROSSA!
Solo per i temi che tratta, nulla di più.
E potrebbe anche essere un po' OOC ( ma anche molto più di un po', direi sicuramente )
Nel testo ho inserito una frase presa dalla canzone Ti porto a cena con me, di Giusy Ferrero. La riconoscerete perché è in corsivo.
Ha un finale molto aperto.
Ed è un altro esperimento, detto in breve.


TW - tentativo di suicidio, tematiche estremamente delicate, morte, angst, no happy ending, Fem!Oikawa, Fem!Hinata.





 
Little Madeleine
 
Era il viso consueto,
solo un poco più stanco.
E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.


 
- Wakatoshi -


La prima volta che avevo posato lo sguardo su quella donna bellissima mi trovavo nella sala d'attesa di uno studio medico. Era seduta di fronte a me, rigida.
Mi avevano colpito quella sua dignità composta, il modo in cui stringeva le mani attorno al fazzoletto arrotolato sul grembo e il paio di occhiali da sole neri che indossava, nonostante fuori fosse buio e piovesse. Si era seduta proprio di fronte a me, come in uno specchio, e avevo avuto la sensazione che fossi io l'oggetto del suo interesse.
Che guardasse me attraverso quelle lenti opache.
E mi ero sentito strano, come se la mia testa fosse diventata improvvisamente leggera, un palloncino vuoto pieno d'aria. Non mi capitava spesso, negli ultimi tempi.
Prima era più forte, non la sapevo gestire, poi era sbiadita ed eccola invece che tornava: la sensazione. Era così che la chiamavo, non avrei saputo darle altro nome.
Ci conosciamo, forse?
Era sempre la prima frase che mi veniva in mente quando arrivava, quando guardavo qualcuno e non riuscivo a capire se avesse fatto parte della mia vita o meno.
Il problema era che non lo ricordavo.
Ci conosciamo, noi due?
La donna bellissima, di cui non riuscivo a vedere gli occhi in quella sala d'attesa, sembrava volermi tirare quelle parole dal petto con maggior prepotenza.
Forse era solo un'estranea, o un'anima affine, come mi aveva suggerito di pensarla Satori.
Ma ero sicuro che guardasse me.


Ci conosciamo, noi due?
Avrei davvero voluto chiederglielo già allora.


Perdita di memoria retrograda di tipo transitorio.
Il nome della condizione che mi era stata diagnosticata tre anni prima.
Era lunghissimo e ci avevo messo mesi per impararlo.
Una brutta cicatrice sul lato sinistro della fronte mi deturpava la pelle.
Partiva da lì e mi attraversava la testa per metà, nascosta dai capelli: trauma cranico.
Tre anni prima avevo avuto un terribile incidente stradale mentre andavo in vacanza.
Ma di quell'evento non ricordavo niente.
Né dove volessi andare, se accanto a me ci fosse qualcuno, se fosse stata colpa mia o meno. Non ricordavo nemmeno un dettaglio.
Se non solo delle vaghe sensazioni, come il sorriso di qualcuno, una risata, un tocco.
Vaneggiamenti. Satori li chiamava così.
Ero solo, mi ha detto. Non ero nemmeno fidanzato, o sposato.
Conducevo una noiosa vita da single, tra casa e lavoro.
Io ricordavo solo l'ospedale: la parte peggiore.
E quel vuoto di anni nella mia testa, che era come un buco nero.
Era stato un brutto periodo.
Ma era passato. Solo che, a volte, quella sensazione tornava.
E mi metteva a disagio.


« Le tue condizioni sono ottimali, Wakatoshi. Sei in perfetta forma fisica »
La voce di Tanji mi riportò al presente.
Lo studio medico era scuro, pieno di mobili antichi e pesanti, di scartoffie impilate che sapevano di vecchio: proprio come lui, che aveva passato l'età della pensione, ma non voleva saperne di ritirarsi.
Non saprei cosa farne della mia vita se me ne stessi con le mani in mano!
Mi ripeteva spesso, lamentandosi con me di altre persone insistenti, solo perché me ne stavo sempre zitto, senza sapere che cosa dirgli a riguardo. Spesso non capivo le situazioni, non sapevo che cosa fare, dire o come comportarmi. Ero fuori luogo.
« Ma non ricordo niente » Dissi, osservando il soffitto bianco e la greca fantasiosa.
La luce calda delle lampade da parete non riusciva a raggiungere posti così alti, facendoli sembrare ombrati e lontani. La mia voce risuonò atona, profonda.
« Ed è per questo che la tua amnesia retrograda è anche transitoria »
Nella voce di Tanji lessi un pizzico di esasperazione, mi voltai a guardarlo.
Il suo sguardo penetrante era fisso su di me.
Aveva le mani nodose intrecciate sulla scrivania, la schiena curva, sopracciglia aggrottate. Non capivo se fosse arrabbiato.
« È stata causata da un trauma, me lo avete detto. Come mi avete detto che potevo recuperare la memoria, ma ... io davvero non ricordo niente. Nemmeno un dettaglio »
Tanji fece un sospiro pesante.
Sciolse l'intreccio delle dita e le appoggiò a palmo aperto sul tavolo, fissandomi torvo.
« Sai che non ti racconterò niente »
Lo sapevo. Avevo già provato a chiedere.
Lo avevo fatto con Satori, con mia madre, con Tanji. Avevo provato a farmi dire quale fosse stato l'evento tanto traumatico che avevo voluto così disperatamente dimenticare.
Nessuno di loro era autorizzato a dirmelo.
Tanji aveva detto che mi avrebbe fatto male, che dovevo guarire spontaneamente.
Rimasi in silenzio, steso sul lettino.
La mia mente era proprio come quel soffitto: una landa bianca. I miei ricordi arrivavano alla fine del liceo e ricominciavano nella stanza di quell'ospedale. Ed era strano.
In mezzo non c'era niente. Nessuno.
Tanji sospirò di nuovo, io non lo guardai.
« Sei davvero sicuro che non ricordi proprio niente, Wakatoshi? » La sua voce sembrava stanca, e la mia risposta era sempre la stessa. Temevo non sarebbe mai cambiata.
« Niente » A quel punto Tanji si alzò.
Lo guardai, attirato dai movimenti. Fece il giro della scrivania, con le mani intrecciate dietro la schiena, e mi si mise seduto accanto, su una delle poltrone.
Lo fissai. Lui fece altrettanto.
« I ricordi non sono fatti solo di immagini, Wakatoshi. Il cervello è un organo complesso. In cinquant'anni di carriera per me è ancora un bel mistero, sai? »
Rimasi in silenzio ancora una volta.
« Esistono anche le memorie involontarie, ne hai mai sentito parlare? » Scossi la testa.
Tanji annuì, appoggiando la schiena contro l'imbottitura della poltrona, pensieroso.
« Sono ricordi che emergono inconsciamente dagli stimoli del nostro quotidiano »
Intrecciò le mani tra di loro davanti al viso, i gomiti sui braccioli.
Non avevo capito fino in fondo, e lui lo sapeva.
« L'altro giorno sono passato davanti ad una profumeria. Ho sentito un odore di rose familiare e mi è tornata in mente mia madre, senza un motivo apparente. Continuando a camminare ci ho riflettuto un po' su e sono stato minuti interi a domandarmi perché quel profumo avesse rievocato in me una tale nostalgia da farmi venire voglia di piangere come se fossi ancora un bambino » Tanji guardò di nuovo me, distogliendo lo sguardo da un punto molto lontano dentro di lui, perso nella memoria.
« Mia madre aveva una boccetta di profumo alla rose che metteva solo nelle occasioni speciali, tre gocce sui polsi e tre sul collo. Era qualcosa che non ricordavo, ma quell'odore ha rievocato in me l'immagine di mia madre e una profonda emozione. Riesci a capire cosa intendo, Wakatoshi? » Si, ora lo capivo.
Mi era successo qualche volta, ma non ci avevo mai prestato particolare attenzione.
Le memorie involontarie.
« Fu Marcel Proust a dare loro questo nome, ma sono anche conosciute come "le petite madeleine", il dolce francese » Tanji mi fece un sorrisetto da sopra le mani ancora intrecciate, sapeva bene che non capivo di che cosa stesse parlando.
Non del tutto almeno, ma in parte di certo.
« Dovresti leggere Alla ricerca del tempo perduto, non ti farebbe male »
Tornai a guardare il soffitto bianco: quasi vent'anni della mia vita da riscrivere da capo.
« Sono solo un impiegato » Tanji rise.
Lo guardai, perché non ne capivo il motivo.
Poi restammo in silenzio per qualche secondo, a guardarci. Infine lo chiese.
« Non credi di avere avuto delle memorie involontarie in questi tre anni? »
Non ne ero del tutto sicuro. Se mi sforzavo di ricordare qualcosa ... era come se la mia mente diventasse nera all'improvviso, come lo schermo di un televisore perfettamente funzionante che si spegneva senza preavviso sul più bello.
Era come cercare ... il nulla. Ed era brutto.
Quindi non ne ero davvero sicuro.
« Non so se fossero memorie involontarie » Confessai, tranquillo.
« Parlamene » Mi incoraggiò Tanji.
Ci pensai su per qualche secondo, cercando le parole adatte per spiegarmi.
Non ero mai stato bravo a parlare con gli altri.
« A volte ho delle sensazioni. Sono strane. Guardo la mia casa e penso che non sia la mia. Sento ridere un bambino e mi sembra chiami me. Cerco qualcuno nel letto che non c'è. O come il tocco caldo di una mano sul mio braccio quando mi sfiora il sole. Ma sono cose che non esistono nella mia vita. Suppongo che se avessi avuto qualcuno, allora sarebbe al mio fianco adesso »
Tornai a guardare Tanji, cercando in lui qualche risposta significativa ed esplicativa.
Ma si limitò a sorridermi in modo strano. Come se fosse ancora immerso nella nostalgia che il ricordo di sua madre aveva rievocato dentro di lui inconsciamente.
« Troverai la tua petite madeleine »
Fu tutto quello che mi disse e la nostra visita mensile finì lì.
Infruttuosa come sempre.


Le andai a sbattere contro mentre entravo nella hall con la reception. Fu inaspettato.
Io entravo e lei usciva, e ci scontrammo.
La presi per le braccia, poco sotto le spalle, in un gesto istintivo che non controllai.
E la riconobbi subito per via degli occhiali e del cappotto nero, e perché la trovavo bella.
« Mi scusi » Le dissi, lasciandola andare.
Il suo volto era affilato ed elegante e rievocava in me qualcosa di indefinito. Frustrante. Mi resi conto che stava piangendo, ma senza emettere rumore.
Non importa oppure Faccia più attenzione erano le risposte che mi aspettavo.
Lei invece si aggrappò con le mani al colletto del mio cappotto e mi appoggiò la fronte sul petto. Tremava un po'. Profumava di buono.
Aveva capelli folti e ondulati. Era alta. Magra.
E mi aveva colto alla sprovvista, perché era solo un'estranea e mi stava abbracciando.
« Mi perdoni ma ... ci conosciamo? » Le avevo domandato infine, per la prima volta.
Lei non aveva risposto subito.
Poi aveva scosso la testa, lasciando andare il mio cappotto anonimo e grigio, si era asciugata il viso e aveva guardato a terra, verso destra, ma non me.
« No. L'ho scambiata per qualcun'altro. Le chiedo sinceramente scusa »
Un mormorio appena con la sua voce roca ed era andata via.
L'avevo seguita con lo sguardo finché non era entrata nell'ambulatorio di ortopedia.


Le chiedo scusa, se ci conoscevamo ma non mi ricordo di lei. Davvero.
Mi fece venir voglia di dirle quelle parole.

 
***


Non amavo leggere.
Non lo facevo mai per puro piacere personale.
Tanji mi aveva incuriosito con la storia delle madeleine, ma non volevo spendere soldi per comprare qualcosa che forse avrei letto solo per metà.
Per quel motivo andai alla biblioteca di città.
Si trovava all'interno di un antico palazzo reale ottocentesco, ora sotto la custodia pubblica. Era antica e non ci ero mai stato prima, o almeno, non negli anni che ricordavo della mia vita. La hall era alta, i soffitti avevano dipinti fatti a mano e gli scaffali si alzavano per metri lungo le pareti, soffocanti.
Mi fermai davanti al bancone della reception, non sapevo bene che cosa fare.
La donna seduta dall'altra parte stava battendo a mano sulla tastiera di un computer datato, aveva i capelli dell'arancione più intenso che avessi mai visto. Per un istante mi fecero venire in mente qualcosa, una sensazione di déjà vu, ma non appena provai ad afferrarla quella sfumò via dalla mia presa. Come sempre.
« Mi servirebbe un'informazione » Dissi a voce bassa ma ferma, schiarendomi la gola.
La donna sollevò lo sguardo di scatto, sussultando leggermente. Era carina.
Aveva grandi occhi ambrati, particolari.
Mi sembrava di averli già visti da qualche parte e di aver pensato qualcosa a riguardo.
Mi fissò imbambolata per qualche secondo, poi aprì la bocca e: « Wa- » si fermò subito, producendo quel verso incomprensibile.
Poi la chiuse, si ricompose e intrecciò le mani davanti a sé, sul ripiano del bancone.
« Come posso aiutarla? » Non ebbi la prontezza di rispondere immediatamente.
Quella donna mi era parsa davvero strana.
« Cerco un libro. Alla ricerca del tempo perduto » Spiegai, sperando di aver ricordato il titolo corretto. Lei mi osservò per qualche secondo ancora con quegli occhi d'ambra familiari, poi spostò lo sguardo sullo schermo luminoso del computer. Fece una ricerca.
« Lo abbiamo a disposizione. Ha la tessera per prenderlo in prestito? »
Quella domanda mi colse completamente impreparato. Non avevo una tessera.
E nei ricordi che ancora possedevo non ero mai stato prima in una biblioteca.
Mi venne da pensare che forse avrei dovuto informarmi meglio prima di presentarmi lì con la mia richiesta. La donna parve accorgersi della mia difficoltà.
« Non è un problema se non ne ha una »
Fece un sorriso e sembrava una persona gentile.
Non lo capivo, ma quel sorriso mi sembrava intimo, personale.
Vaneggiamenti, Wakatoshi. Sono solo vaneggiamenti. Le persone importanti, che ti servono adesso per stare bene, sono tutte qui. Non arrovellarti oltre.
Mi tornarono in mente le parole di Satori.
« Può fornirmi un documento di riconoscimento e ne facciamo una subito, ci vorranno solo pochi minuti » Mi riscossi e annuii, infilando una mano nella tasca interna della giacca per estrarre il portafoglio, le consegnai la mia carta d'identità elettronica e attesi.
Lei fece qualcosa al computer, poi aprì un cassetto e prese un cartoncino di carta, ci scrisse su.
Me lo passò e io lo guardai: la tessera.
« I libri in prestito si possono tenere per trenta giorni, ne può prendere fino a cinque. Lo stesso vale per le riviste e i giornali »
Mi spiegò lei con gentilezza, mentre la fissavo forse con troppa insistenza.
« Se raggiunge la sezione Romanzi, in fondo a tutto, troverà la mia collega. Sta facendo l'inventario proprio lì, le darà una mano. Quando avrà fatto, torni pure da me »
Annuii, infilando la tessera nel portafoglio, insieme al documento d'identità.
La donna continuava a sorridermi, l'occhio mi cadde sul badge che aveva attorno al collo: Shouyou Hinata. Aggrottai le sopracciglia mentre riponevo distrattamente il portafoglio.
Noi ci conosciamo, Shouyou?
Ma non dissi niente, se non: « Grazie »
Mi allontanai di qualche passo, diretto verso le scale che mi avrebbero condotto all'interno della vera e propria struttura.
« Signor Wakatoshi » Mi sentii chiamare con urgenza e voltai automaticamente la testa, guardandomi indietro. La donna si era alzata in piedi e mi fissava, sporta contro il bancone: « Bentornato » Rimasi qualche secondo a fissarla, ricordandomi che conosceva il mio nome perché lo aveva appena letto sul mio documento d'identità - anche se pensai avesse una memoria fotografica per ricordarlo tanto bene -, poi le feci un cenno con il capo.
Non volevo farle notare il suo lapsus linguistico.
Bentornato, invece di benvenuto.
Ma lei continuò a sorridermi come se fossi un vecchio amico che non vedeva da tempo.


La sezione Romanzi era in fondo a tutto.
Avevo attraversato diverse sale silenziose e ampie, sature di scaffali, vetrate imponenti, soffitti dipinti, statue di eruditi e tavoli con poche persone immerse nella lettura.
Perfino un vecchio clavicembalo.
Trovai la collega che mi era stata indicata proprio tra gli scaffali di quella sezione.
Era di profilo e la riconobbi subito, inaspettatamente.
Non aveva gli occhiali da sole né il cappotto nero di velluto, ma la stessa matassa di mossi capelli castani che scendevano fino al fondo schiena.
Aveva infestato i miei pensieri negli ultimi giorni, quella creatura sconosciuta, con le sue lacrime e il suo profumo e il suo sguardo dietro le lenti scure.
E non avrei potuto non riconoscerla in quella coincidenza inaspettata che parlava di destino, nemmeno se mi fosse apparsa sotto altre sembianze.
Era alta, avvolta in un vestito a fiori blu elettrico, con un cardigan bianco sulle spalle e gli stivaletti marroni senza tacco.
Aveva delle belle gambe, delle belle forme.
Tutto esattamente come lo ricordavo.
Fece un movimento con la testa, picchiettando con la penna sulla cartellina che aveva davanti e a me sembrò di avere un déjà vu. Ero stato lì, con lei, altre mille volte.
Chissà quando nel passato o nel futuro, o in realtà non c'ero stato mai e quel gesto non lo avevo impresso nella mia memoria.
Non la conoscevo.
Eppure era la donna più bella che avessi mai visto, e lo pensai intensamente quando spostò quegli occhi intelligenti - lo sapevo per istinto - su di me.
Non ebbe nemmeno un sussulto, ma il mio cuore si.
« Oh » Disse, la voce crespa « Ciao »
Ciao, mio caro vecchio amico, è da così tanto tempo che non ci vediamo.
Era strano come una sola parola, così semplice e scontata, potesse avere una simile assonanza alle mie orecchie.
« Salve » Replicai, non sapendo bene cosa dirle. Avevo un po' perso le parole.
Lei si voltò interamente nella mia direzione, stringendo la cartellina rigida al petto.
Dio, se era bella. Così bella.
Avevo quarant'anni passati e mi sentii un ragazzino di nuovo.
Ed era strano, perché il periodo della mia adolescenza era tutto quello che ricordavo.
I primi anni di università erano nebulosi e sfocati, fatti solo di frammenti.
Poi le diapositive del film della mia vita si interrompevano bruscamente, trasmettendo in bianco e nero, per ripartire in un ospedale.
Non ricordavo di aver mai amato nessuno.
Satori mi aveva detto che non lo avevo fatto.
Solo frequentazioni terminate nell'arco di breve tempo. Incontri di una notte.
Ne avevo avuti alcuni anche in quei tre anni, nessuno che fosse durato troppo.
Sentivo sempre che mi mancava qualcosa.
Ma quella donna triste la volevo.
La volevo in modo diverso da come avessi mai voluto qualsiasi altra donna.
In modo diverso da come avessi mai desiderato qualsiasi cosa in vita mia.
Volevo conoscere la sua anima e non il suo corpo, volevo sapere chi fosse e scoprire come pensava. Volevo fare l'amore con lei con il pensiero e con le idee.
E quella consapevolezza mi colpì con una certa forza, perché una sensazione così forte di possesso non l'avevo mai provata prima.
« Ti posso aiutare? » La sua domanda mi riportò con i piedi per terra, e mi chiesi se non l'avessi guardata con troppa insistenza.
Non feci caso alla confidenza che utilizzò.
« Mi servirebbe un libro: Alla ricerca del tempo perduto » Le feci sapere.
Lei mi guardò per qualche secondo, aveva degli occhi scuri dal colore intenso, in cui mi sembrava di aver guardato mille volte dentro.
« È da questa parte, vieni con me » Si mosse e mi passò accanto - profumava di vaniglia e bergamotto, come ricordavo -, e mi tornò in mente la boccetta di un bagnoschiuma che non ricordavo di aver mai comprato. Costoso.
Quell'immagine mi stordì e ci misi qualche secondo per seguirla. Notai che zoppicava.
Non me n'ero accorto la prima volta.
Raggiungemmo lo scaffale con i romanzi di letteratura francese, il sole freddo ci investiva attraverso il vetro sporco della finestra.
« Ci siamo già incontrati »
Forse avevo cominciato quella conversazione nel modo sbagliato.
Non ero bravo con le persone. Non lo ero mai stato.
Né prima dell'incidente - per quel che ricordassi -, né dopo, e con la mia amnesia meno che mai. Lei - che stava ispezionando le costine dei libri con lo sguardo - si fermò, tornando a guardare me. Sembrava sorpresa, sospesa in una risposta.
« Si » Disse « Ci siamo già incontrati »
E mi sorrise. Non avevo mai visto un sorriso come quello. Era triste, era accennato.
E mi sembrò che lei non lo intendesse allo stesso modo di come lo intendevo io.
« Nella hall dello studio medico »
Specificai allora, e lei distese il sorriso.
Ed ebbi la certezza che quelle non fossero le parole che stava aspettando. Ma non avevo idea di cosa volesse sentirsi dire.
« Si » Distolse lo sguardo da me, tornando a cercare il libro giusto da darmi.
Inconsciamente mi feci un po' più vicino.
Lessi il nome sul badge che anche lei aveva attorno al collo: Tooru Oikawa.
Tooru, mi echeggiò nella mente, come se lo avessi tenuto riposto in un cassetto che si era aperto all'improvviso.
Come se lo avessi pronunciato altre volte.
« Ho bisogno di una mano » Mi riscosse.
La guardai, lei - Tooru, Tooru, Tooru, Tooru - indicava il libro in uno scaffale troppo alto per entrambi. Vedevo la costina azzurra e il titolo in nero e lo spessore notevole.
« Non ci arrivo » Notai. Lei rise lievemente, anche la sua risata era roca e rasposa.
« Lo so » Poi indicò uno scalino a tre piedi appoggiato contro il muro sotto la finestra.
« Puoi salire su quello e prenderlo tu? »
Era una richiesta insolita, ma non domandai.
Presi il tre piedi e ci salii sopra senza difficoltà alcuna, sfilai il libro con una mano.
Era vecchio, usato, puzzava di muffa.
« Mi sono rotta un ginocchio anni fa »
Mi spiegò mentre scendevo i gradini, osservando il retro del libro.
Le guardai le gambe, indossava le calze.
« Lo studio medico » Commentai allora, ricordando di averla vista entrare nell'ambulatorio di ortopedia.
« Si » Ammise lei, afferrando i miei pensieri, poi ci guardammo.
Non sapendo che altro dirle ispezionai il libro.
Era corposo, non ricordavo di aver mai letto nulla di tanto voluminoso di mia iniziativa.
Feci scorrere velocemente le pagine.
« Non ti è mai piaciuto leggere »
Sollevai lo sguardo, lei mi stava osservando.
« Come? » Chiesi, chiudendo il volume con una sola mano, di scatto.
« Mi hai dato quell'impressione »
Aggiunse lei, chiarendo il suo intervento.
Le sue parole mi erano sembrate quelle di una persona che mi conosceva bene.
Ma noi due eravamo solo due estranei che si parlavano per la prima volta.
Ne ero certo. Eppure ...
« Ci conosciamo noi due? »
Lo domandai lo stesso, di nuovo.
Lei non mi diede la risposta che mi sarei aspettato. Osservandomi con quegli occhi tristi, mi domandò: « Perché continui a chiedermelo? » E io non me lo aspettavo.
Come la prima volta, avrei potuto gestire una risposta come: L'ho scambiata per un'altra persona. Mi dispiace.
Sarebbe stato normale. Scontato. Ma quella donna - Tooru - mi aveva posto quella domanda come se stesse cercando una risposta specifica.
Come se bramasse qualcosa.
« Perché non posso immaginare di aver conosciuto una donna come te e di non ricordarlo »
E perché ho come la sensazione che tu sia appena uscita da uno dei cassetti della mia memoria impolverata. Lei mi guardò come se avessi detto qualcosa di totalmente inaspettato, non quello che si aspettava. Ma qualcosa di assurdo.
Mi guardò come se l'avessi ferita.
E io mi domandai se non avessi sbagliato.
Satori mi diceva che alcune volte non avrei dovuto aprire bocca. Che non sapevo leggere le situazioni e che non si poteva dire sempre tutto quello che si pensava.
Io non ne avevo mai capito il motivo.
Dicevo solamente quello che vedevo. O quello che sentivo.
Ma forse quella volta avevo fatto male.
« Una donna come me? » Chiese invece lei.
Mi scrutò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Aveva delle belle mani.
Delle belle mani con una fede al dito.
« Sei molto bella » Le confessai, osservando l'anello infilato all'anulare della mano sinistra.
Era accompagnato da quella che doveva essere la fedina di fidanzamento.
« L'ho pensato anche all'ambulatorio »
« Allora chiedimi di uscire »
Tornai a guardarla, leggermente sorpreso.
« Non sai nemmeno il mio nome » Ammisi.
A lei però sembrava non importare nemmeno.
« Lo imparerò. Io sono Tooru »
Lo so. Ma non lo dissi.
Tooru non sapeva niente di me. Io non sapevo niente di lei. Avrei potuto farle del male, lei avrebbe potuto farne a me.
« Wakatoshi » Risposi invece.
Non sembrava importare a nessuno dei due.
« Ora chiedimi di uscire con te »
Insistette lei, quasi con urgenza.
Io le guardai di nuovo la fede al dito, le stava larga, sembrava che fosse sul punto di poterla perdere da un momento all'altro.
« Esci con me, Tooru. Per favore »
« Si. Si. Stacco tra qualche minuto »
Ero certo che se qualcuno avesse visto quella scena da fuori avrebbe potuto pensare che fossimo due matti. Che Tooru fosse una donna fuori di testa, una svitata disperata e io un povero idiota senza speranza. Non ci conoscevamo, eppure.
Eppure avevo come la sensazione che quella donna - Tooru -, fosse la persona che conoscevo meglio al mondo. Ripensai a Tanji, alle petite madeleine e guardai il libro che ancora stringevo tra le mani. Le memorie involontarie.
« Ti aspetto » Le dissi allora, a quella totale sconosciuta con una fede al dito di cui non mi importava, su cui non avevo ancora fatto domande. Ma ne avevo molte e gliele avrei fatte tutte, e Tooru avrebbe dovuto rispondere. Ad ognuna di quelle domande.
Perché volevo fargliele tutte, piano piano.
Volevo conoscerla intimamente e oltre.


Tornai da Shouyou Hinata con il libro.
Lei sorrise non appena mi vide.
Mentre segnava qualcosa al vecchio computer mi chiese: « Ha trovato la mia collega? »
Le sue unghie smaltate di rosa picchiettavano sulla tastiera rumorosamente.
« Si » Le risposi. Lei mi guardò da sopra lo schermo luminoso, gli occhi familiari.
« Bene » Si limitò a mormorare « Bene »

 
***


L'aria si era fatta frizzante.
Ci trovammo sul marciapiede affollato nel momento della sera in cui il cielo si tingeva di viola, cosparso di nuvole scure. Tooru era avvolta nello stesso cappotto nero in cui l'avevo vista la prima volta, con una sciarpa blu avvolta attorno al collo.
« Ho la macchina da quella parte » Le indicai lungo il marciapiede, verso il parcheggio sotterraneo in cui l'avevo lasciata prima di arrivare in Biblioteca.
Non eravamo vicini su quella strada, non ci sfioravamo nemmeno.
« Guidi la macchina? » Chiese lei e la guardai, non potevo evitare di notare la paura nel tono della sua voce. Gli occhi sgranati.
« Si. Ho la patente » Risposi.
Eravamo ancora fermi su quel marciapiede, davanti all'imponente entrata della Biblioteca.
« Ho pensato che potessimo cenare insieme al centro » Conoscevo un posto.
Ci andavo con Satori qualche volta, si mangiava bene, ma non sapevo se fosse adatto per un appuntamento.
Tooru si strinse una mano attorno al colletto del cappotto, come se tirasse vento.
« Guidi la macchina ... senza problemi? »
Mi chiese ancora, come se fosse rimasta fissa a quel punto lì. Era una strana domanda.
« Se ti stai riferendo alle mie prestazioni automobilistiche, sono nella media »
Lei non rispose e non si mosse nemmeno.
Rimase chiusa nel suo cappotto.
« Ho avuto un incidente, tre anni fa. Ma non lo ricordo, per cui non ho problemi a guidare. Ed è stato l'unico della mia vita » La informai, con voce serena. Lei ebbe come un sussulto, strinse la mano attorno al colletto fino a farsi sbiancare le nocche.
« Le macchine mi mettono a disagio »
Ammise alla fine, distogliendo lo sguardo dal mio. Io continuai a guardarla.
« Possiamo andare da qualche parte qui vicino, a piedi » Proposi allora.
Avevo già infilato una mano nella tasca del cappotto per stringere le chiavi nel mio pugno, ma lasciai la presa. Con l'altra stringevo ancora il libro sottobraccio.
Tooru scosse la testa, forzò un sorriso, con quelle rughe appena accennate attorno alle labbra prive di trucco.
« No, va bene. Posso fare un'eccezione »
« Il tragitto è di soli dieci minuti »
La rassicurai, cercando nuovamente le chiavi.
Lei annuì, muovendo il primo passo verso di me. Ci incamminammo insieme.


La sbirciai con la coda dell'occhio mentre mi immettevo nella strada trafficata.
Era seduta in modo rigido, schiacciata contro la portiera, quasi al margine del sedile.
La posizione era tesa, con una mano si teneva al gancio sulla sua testa, non aveva voluto indossare la cintura, scusandosi.
Pensai che forse non avrei dovuto forzarla.
Non che lo avessi fatto, ma forse non avrei dovuto lasciare che si sforzasse.
La macchina non era la stessa dell'incidente.
Quella si era accartocciata su se stessa, la parte retrostante non esisteva più. O almeno, così mi era stato raccontato. Era nuova e profumava di pulito, di asettico.
La usavo poco ed era impersonale, anonima.
Tooru osservava la strada di fronte a noi con espressione concentrata, tesa.
Andavamo a passa d'uomo per via del traffico consistente sulla strada principale.
Forse si era pentita di essere salita in macchina con me, uno sconosciuto.
« Ti piace il pesce? » Domandai.
Lei sussultò appena, senza distogliere lo sguardo dalla strada di fronte a se.
« Si » Rispose appena.
« Nel ristorante dove stiamo andando fanno un'ottima frittura »
Non ero bravo a fare conversazione. La guardai di nuovo.
Lei dovette sentirsi il mio sguardo addosso.
« Wakatoshi, ti prego, guarda la strada »
E mi sorprese. Mi sorprese davvero il modo in cui pronunciò il mio nome, il modo in cui impostò la frase, l'intonazione, la confidenza.
Strinsi le mani attorno al volante e tornai a guardare dritto di fronte a me.
Mi venne di nuovo una sensazione di déjà vu.
Guidai per un po' in silenzio, lentamente, tra il traffico. Ci stavamo mettendo ben più di dieci minuti, ma non correvamo con la macchina.
« Hai parlato di un incidente ... » Fu lei a spezzare il silenzio, qualche minuto più tardi.
Sorpreso, tornai a rivolgerle uno sguardo.
Non era qualcosa che nascondevo.
« Si. Tre anni fa. Stavo andando in vacanza da solo e ho avuto un incidente »
Misi la freccia e svoltai lentamente a destra, immettendomi in un vicolo secondario che avrebbe allungato la strada, ma almeno ci avrebbe risparmiato altro traffico seccante.
Tooru fece un respiro pesante. Roco.
Non ci avevo fatto molto caso fino a quel momento, ma la sua voce sembrava spezzata. Come se avesse le corde vocali rotte, vibranti, rovinate.
« Da solo ... » Mormorò.
« Non sono sposato. Non ho nessuno »
Le feci sapere, per poi rivolgere una velocissima occhiata alla fede che lei portava al dito, sulla mano stretta a pugno e sbiancata dalla tensione, sulla sua coscia.
« Nessuno eh? »
Il semaforo a pochi metri di fronte a noi scattò sul rosso, fermai la macchina.
Tooru chiuse gli occhi durante la frenata, come se stesse cercando di non vomitare.
Io la guardai. Era comunque bellissima.
« Soffro di perdita di memoria retrograda di tipo transitorio »
Nel silenzio dell'abitacolo buio, con il cielo che si era fatto scuro sulle nostre teste e le sole luci della città a illuminarci, la mia voce sembrò sorprendentemente forte.
Tooru aprì gli occhi, ma non mi guardò.
« Ho perso la memoria per via dell'incidente. Vent'anni circa della mia vita. Pensavo di dovertelo dire » Alcune delle donne che avevo frequentato in quei tre anni si erano scoraggiate alla notizia. E Satori mi aveva suggerito di non nasconderlo.
Ero sicuro che la mia vita non sarebbe cambiata molto se mi fosse tornata la memoria, ma "costruire una relazione sulla menzogna non va bene, Wakatoshi!"
« Non mi importa » Sussultai.
Tooru mi stava guardando e non riuscivo a decifrare il suo sguardo. Era malinconico.
« Voglio conoscere l'uomo che ho davanti adesso » E a quel punto mi sorrise appena.
Non avevo mai visto prima qualcuno sorridere senza mostrare alcun calore.
Io, ad esempio, non sorridevo quasi mai.
Scattò il verde, ripresi a guidare.
Tooru si tese di nuovo, tornando a guardare la strada. Successe poco prima di parcheggiare.
Eravamo arrivati a destinazione.
Ero concentrato. Ebbi come un flash.
Fu solamente un istante.
Mi sembrò di trovarmi su una strada soleggiata, d'estate, di guidare con il finestrino aperto e una mano fuori. Che alla radio passasse una canzone, e che qualcuno stesse cantando accanto a me. Una donna con una bella voce melodiosa.
Un bambino rideva nel sedile posteriore.
Durò il tempo in cui chiusi gli occhi e li riaprii, frenando bruscamente nel posto del parcheggio. La macchina oscillò.
Io rimasi con le mani aggrappate al volante.
Fissavo la parete con i rampicanti davanti a me, nel buio. Delle dita ruvide mi toccarono le nocche della mano destra.
« Wakatoshi ... »
« Il bambino! » Sbottai io, girandomi di scatto verso il sedile posteriore.
Ma ovviamente era vuoto, perché non c'era mai stato nessun bambino nella mia vita.
Mi passai una mano sulla fronte, aggrottando le sopracciglia - avevo mal di testa.
Al mio fianco, Tooru mi guardò come se fosse sul punto di mettersi a piangere.
Ma nei suoi occhi lessi anche terrore. Dovevo averla spaventata per niente.
« Scusami. Non so cosa ... »
Scossi di nuovo la testa, scacciando quelle sensazioni dalla mia mente.
Lasciai andare la presa sul manubrio - le dita formicolarono con il ritorno della circolazione del sangue -, e aprii lo sportello, lasciando entrare l'aria fredda della sera nell'abitacolo.
« Andiamo » Le intimai.
Non volevo indugiare troppo sull'accaduto.
Temevo che lei si sarebbe tirata indietro.
E non volevo, perché mi piaceva.
Sembrava una donna intelligente, interessante, arguta. Di quelle che sarebbero andate lontano se gliene avessero lasciato la possibilità. Inoltre, la sentivo mia.
Feci un bel respiro profondo quando misi i piedi a terra, osservando il cielo scuro, i lampioni nel parcheggio e il ristorante rumoroso con la sua attività frenetica.
Mi girai verso la macchina, credendo che anche lei fosse scesa, e invece era ancora seduta al suo posto. La luce interna la illuminava, accesa per via della portiera aperta. Tooru fissava il sedile posteriore con occhi spenti, ma quello era irrimediabilmente vuoto.
Non sapevo che cosa stesse cercando.
« Tooru » La chiamai, con voce ferma.
Lei mi fissò e per un momento non mi vide.
Poi parve mettermi a fuoco, i suoi occhi tornarono vivi, accennò quel sorriso spento.
« Arrivo » Scese dalla macchina.
E io non feci altre domande.


« Portami a casa tua »
Mi porse quella richiesta durante il viaggio di ritorno in macchina.
Era stata una cena piacevole. Avevamo parlato, molto, e riso qualche volta.
Ed era stato come se lo avessimo fatto da sempre, parlare e ridere insieme.
Anche se non ci conoscevamo. Almeno non in quella vita.
Distolsi lo sguardo dalla strada buia per rivolgerle una veloce occhiata.
Tooru non era meno tesa dell'andata, ma sembrava decisamente più rilassata di prima.
« Tooru, non so se - »
« Voglio venire a casa tua »
Non era quello che volevo da lei. Almeno non quella sera. Non subito.
Volevo fare le cose con calma, per una volta, e non volevo che lei pensasse -
« Voglio passare la notte con te » Strinsi le mani attorno al manubrio.
Mi stava rendendo le cose difficili.
« Non è quello che pretendo da te » Dissi.
La strada era buia, poco illuminata. La stavo riaccompagnando a casa, all'indirizzo che mi aveva dato - familiare -, io vivevo dalla parte totalmente opposta.
Se proprio voleva, non capivo perché non potesse essere da lei, e poi ripensai alla fede.
Non le avevo chiesto niente di quella.
Forse perché mi era mancato il coraggio.
« Lo so. Ma lo voglio. Tu no? Non mi trovi abbastanza attraente? »
« Tooru, sei la donna più bella su cui io abbia mai posato i miei occhi »
« Allora andiamo a casa tua. Adesso »


Feci retromarcia l'istante successivo.

***


Ci baciammo nell'ingresso di casa, con la porta che ancora si chiudeva alle nostre spalle.
Ci baciammo come due adulti che avevano una certa età. Una certa esperienza.
Ci baciammo come se lo avessimo già fatto. Incespicando sui passi mentre arrancavamo verso un letto, spogliandoci dei nostri vestiti un pezzo alla volta.
E ci toccammo come se sapessimo esattamente dove mettere le mani, dove posare le labbra, dove sfregare. Come se anche quella fosse un'abitudine.
Tooru era bellissima, nonostante la sua età.
Il suo corpo era una mappa di cicatrici che parlavano di un passato che non conoscevo.
Faceva l'amore con un certo impeto.
Faceva l'amore come se stesse per morire.
E fece morire me più volte nel corso della notte.
E mai una veglia mi era apparsa tanto breve, tanto intensa. Tanto significativa.
Durante uno dei nostri amplessi tentai di sfilarle via la fede dal dito.
Lei strinse la mano, chiuse il pugno, fermò le mia dita. Mi muovevo su di lei e avevo l'affanno, lei si muoveva sotto di me e aveva l'affanno. E mi sembrò di rivivere un altro déjà vu.
In un altro letto, in un'altra casa. Come era successo nella macchina.
Tooru tenne la fede per tutto il tempo.
E pianse tutte le volte che la toccai.
Non le chiesi mai il perché.


« Sono sposata »
Lo mormorò lei ad un certo punto della notte, mentre ci trovavamo tra la veglia e il sonno.
Era stesa su di me, interamente.
I suoi capelli mi solleticavano il mento, i suoi seni erano schiacciati sul mio petto.
Le nostre gambe sfregavano tra di loro.
Le lenzuola non coprivano i nostri corpi, aggrovigliate alla base del letto.
« E ho due figli » Tooru mormorava, disegnando con un dito l'aureola del mio pettorale sinistro. Io rimasi in silenzio. Avevo visto quell'anello dal primo momento.
« Ma loro non sono con me »
Spostai lo sguardo dal soffitto per guardare la sommità dei suoi capelli scombinati.
« Non sono con te? » Ripetei. Lei scosse la testa.
Aveva una voce sottile, minuscola, crespa.
« Mio marito è in un posto lontano, e lì ha portati con sé. Non posso raggiungerli »
Immaginai che fossero divorziati. O che si stessero separando.
Un po' come era successo ai miei genitori.
Immaginai che lei non avesse ancora lasciato andare, per via della fede.
Immaginai che io potessi essere un passatempo.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto.
« Dovranno mancarti molto » Lei sollevò la testa e poggiò il mento sul mio petto, sollevandosi leggermente per guardarmi negli occhi.
Alzai una mano e le accarezzai rudemente uno zigomo spigoloso.
« Tanto che a volte mi manca il fiato » Mormorò lei, toccandomi le labbra con le dita.
Anche nel buio della mia camera da letto asettica, con la sola luce della luna, riuscivo a vedere i suoi occhi tristi e distanti. Ora capivo: le mancava un pezzo di cuore.
Come a me mancavano vent'anni della mia vita. Ma non poteva essere la stessa cosa.
A lei mancava qualcosa che io non avrei mai potuto darle. Non ne avevo la presunzione.
Eravamo due estranei che si erano sfiorati appena.
« Posso fare qualcosa per aiutarti? »
La mia voce era forte e bassa anche nel silenzio delle ore che precedevano l'alba.
Fuori dalla finestra si sentivamo gli uccellini.
Tooru non mi diede una risposta, continuò a toccarmi le labbra e disse: « Sto facendo il possibile per riavere indietro almeno una parte. Anche solo una parte di quello che avevo »
E io rimasi in silenzio.
I suoi figli, pensai.
Per riavere indietro almeno loro, probabilmente. Chissà quale battaglia stava combattendo quella donna bellissima entrata nella mia vita solo dodici ore prima.
Io combattevo contro la mia memoria, lei contro dei fantasmi.
Non le dissi niente, e avvolsi le mie braccia attorno alle sue spalle, stringendola a me.


All'alba l'accompagnai sotto casa.
Mi guardò dal portone appena aperto, il respiro che le usciva condensato dalle labbra appena schiuse per via del freddo.
Mi sorrise e io alzai una mano per salutarla.


Da quel giorno diventammo amanti.

 
***


Avevo un noioso lavoro d'ufficio.
Me la cavavo. Ma non avevo sempre fatto quello, nella vita.
Ero un avvocato penalista, prima dell'incidente, uno di quelli che non perdevano mai, spietati. Senza scrupoli. Non ricordavo niente nemmeno di quello.
Avevo dovuto cambiare professione per necessità di cose. Imparare d'accapo.
I miei orari erano fissi, fastidiosi.
Ma non mi impedivano di incontrarmi con Tooru quando potevo.
Andavo a trovarla quasi tutti i giorni in Biblioteca.
Mi mettevo seduto al solito tavolo con Alla ricerca del tempo perduto tra le mani, leggevo qualche pagina cercando me stesso tra quelle righe e aspettavo che finisse il turno.
Poi andavamo via insieme. Passeggiavamo mano nella mano.
O andavamo a fare qualche commissione.
Cenavamo da qualche parte, o a casa mia, cucinando insieme.
Lei restava per la notte e facevamo l'amore.
Io le feci una copia delle chiavi, da tenere con sé per venire e andare via quando voleva.
E le comprai uno spazzolino di riserva, mentre lei dimenticava ogni volta qualcosa a casa mia, come un rossetto, una maglietta, una vestaglia, dei prodotti per il corpo.
Nel week end andavano spesso fuori città.
Tooru imparò a sopportare la mia guida.
E prima che ce ne rendessimo conto le stagioni erano mutate e noi con esse.
Quattro mesi e non ricordavo di aver mai vissuto tanto intensamente in vita mia.
Quattro mesi in cui imparai a conoscerla.


Tooru aveva delle abitudini e delle paure.
Le piaceva farsi le coccole alla fine di un rapporto, ad esempio, oppure mettere tre cucchiai di zucchero nel caffè, mangiare i panini al latte, che le massaggiassi i piedi.
E aveva paura delle macchine e delle vasche da bagno. A casa mia ne avevo una.
La prima volta che l'aveva vista le era venuto un attacco di panico violento.
Avevo scoperto quel giorno che ne soffriva.
E aveva paura quando mi allontanavo troppo.
La notte si svegliava in preda agli incubi.
Non chiamava mai i suoi figli davanti a me.
E qualche volta, nel week end, spariva da qualche parte senza dirmi dove andasse.
Io non le chiedevo mai niente.


Fare l'amore con lei era una cosa che mi piaceva. Non sempre era stato così.
Non tutte le volte, almeno.
Non con altre persone. Ma con Tooru mi piaceva. Era nella familiarità della cosa.
Era forse nell'amore che provavo per lei.
Era nel modo in cui mi toccava, con dolcezza, facendomi capire senza parole che anche lei mi amava. Era nella complicità.
Non lo facevamo sempre, ma quando succedeva non mi stancavo mai di guardarla.
Come quella sera.
A volte parlavamo, per ore e ore, nella notte.
Ero ancora tra le sue gambe, dentro di lei, che mi sfregava i fianchi con movimenti lenti.
Avevo il mento appoggiato tra i suoi seni e la guardavo, e lei guardava me, accarezzandomi con i polpastrelli delle dita alcune ciocche.
Con una mano le accarezzai la coscia fino a raggiungere il ginocchio, che strinsi nella presa della mia mano, sentendo la pelle liscia e granulosa al di sotto.
Mi aveva detto che se lo era rotto, spezzato.
Non aveva potuto camminare per mesi e si era operata cinque volte per riprendere almeno a zoppicare. Si stancava nell'arco di poche ore e ogni tanto doveva sedersi.
Quando era umido le faceva male.
Durante il sesso non potevamo fare alcune cose, altrimenti si sarebbe fatta male davvero.
Non mi aveva detto come se lo fosse rotto.
Non avevo chiesto. Forse da ragazza. Ma quello non era l'unico segno sul suo corpo.
Restando dentro di lei mi tirai a sedere.
Lei rimase calma, tranquilla sotto il mio sguardo attento, con le braccia rilassate oltre la testa e il busto che si alzava e abbassava a ritmo di un respiro sereno.
Le passai un dito in mezzo ai seni e percorsi il solco lasciato da quella che sembrava essere stata una brutta ferita da penetrazione.
Poco sotto l'ombelico, fino a sfiorare il taglio di un cesareo nella zona del pube.
« Hai molte cicatrici »
« Anche tu »
Tooru sollevò una mano e mi toccò la tempia, dove avevo il segno dell'operazione subita.
E poi lo zigomo, dove mi era rimasto il graffio di una scheggia di vetro del parabrezza.
E la coscia, dentro cui si era infilato qualcosa di metallico che non ricordavo cosa fosse.
Satori me lo aveva detto, forse.
Ma ebbi come l'impressione che non stessimo più parlando di qualcosa di fisico.
« Hai avuto un parto cesareo » Notai, accarezzandole di nuovo la cicatrice.
Dentro di lei si stava bene e sentivo che avrei avuto ancora poca resistenza prima di richiedere ancora una volta la sua attenzione.
Lei allungò un braccio e mi toccò la mano, lasciando le schiacciassi le dita proprio lì.
« Mi si ruppero le acque troppo presto e il bambino andò in sofferenza fetale »
Mi raccontò, guardandomi negli occhi.
Le nostre dita si erano intrecciate sulla sua cicatrice. La sua pelle era calda e sudata.
« Tuo marito si sarà spaventato »
« Ha dato un pugno nel muro e si è rotto una mano. Non è una persona emotiva, ma quella volta ebbe paura » Mi sembrava di poter capire quella reazione.
« Ma andò tutto bene. Lui nacque, era minuscolo, stette un po' in incubatrice ... »
« Un maschio? » Domandai.
Non sapevo spiegarmi perché, ma l'idea che avesse un figlio maschio mi rendeva ... felice.
Lei annuì, continuando a fissarmi.
« E il secondo? » Mi aveva detto di avere due figli. Distolse lo sguardo.
« Un altro maschio » Mormorò.
La vidi spostare distrattamente la mano libera sul ventre, sulla seconda cicatrice, quella da penetrazione accanto all'ombelico.
« Hai due maschi. Come si chiamano? »
Lei si morse il labbro inferiore, e mi resi conto che stava per mettersi a piangere.
Non avrei dovuto parlare dei suoi figli.
« Potremmo non parlarne? » Mormorò.
« Certo » Sussurrai, muovendomi nuovamente sopra di lei con dolcezza.
Tooru tornò a guardarmi con quegli occhi tristi che non avevo visto sorridere mai.
« Vuoi un figlio da me? » La domanda mi colse del tutto impreparato.
La guardai negli occhi, impassibile.
« Sei incinta? » Le domandai.
Avevamo entrambi quarantadue anni, nati nello stesso anno con un solo mese di differenza. Non eravamo giovani. Non sapevo se lei potesse o meno, non glielo avevo chiesto, e con la mia condizione non ci avevo mai pensato a dei figli.
Non sapevo se volerne o meno.
« No » Lei scosse la testa lentamente.
« Un figlio da te » Ripetei, solo per sentire come suonava detto ad alta voce.
« Potresti darmene uno? » Indagai, accarezzandole il ventre con le dita.
Lei scosse la testa, le lacrime che le cadevano sulle tempie, mentre si mordeva le labbra per non lasciarsi andare ai singhiozzi.
« No » Disse, la voce strozzata.
Io rimasi in silenzio, in attesa.
« Ho avuto un'isterectomia totale anni fa »
Si asciugò gli occhi con i palmi delle mani.
Non sapevo bene come prendere quella notizia. Non sapevo che cosa dirle.
« La seconda gravidanza ... scusami. Se vuoi un altro figlio da me non posso dartelo »
« Tooru, no » Si era schiacciata le mani sugli occhi e io gliele tolsi « Non voglio un figlio »
Lei mi fissò, lo sguardo annebbiato di lacrime.
« Non importa se non possiamo »
Le asciugai rudemente il viso con le dita troppo grandi delle mie mani.
Lei si tranquillizzò.
Poco dopo, facemmo di nuovo l'amore.


Qualche ora più tardi eravamo di nuovo svegli. Di nuovo pigri, nel week end appena cominciato, la luce dell'aurora che filtrava dai forellini della persiana abbassata.
« In questi tre anni hai avuto altre donne prima di me adesso? »
Anche quella domanda arrivò inattesa.
Ormai avevo imparato che con Tooru potevano succedere cose del genere.
Lei era strana. Io ero strano.
Avevamo fatto le cose con una velocità inedita, ma non lo trovavo sbagliato.
Sapevo che io ero per lei e lei era per me.
Ci eravamo solo incontrati un po' più tardi.
Io amavo Tooru e lei amava me, non c'era voluto davvero molto tempo per nessuno dei due. Ma a volte mi chiedevo se fosse normale quello che provavo, se fossi normale io.
Se fosse normale provare quell'ansia e quella smania di possesso ogni volta che la toccavo o la guardavo. Non volevo che nessun altro la sfiorasse, nemmeno suo marito.
Forse per lei era lo stesso.
Ma avevo il timore di scoprire che quel desiderio dentro di me provenisse da qualcosa di malato nel mio passato che non ricordavo. O non volevo ricordare.
« Qualcuna. Non molte »
Risposi distrattamente, osservando il soffitto familiare in penombra sopra la mia testa.
I movimenti alla mia destra mi riscossero. Guardai Tooru, si era voltata dall'altra parte e ora mi dava la schiena, le lenzuola che la coprivano fin sotto il seno.
Era l'alba e forse voleva dormire, dopotutto.
« Tu hai - »
« No » Mi interruppe « Solo mio marito »
Quella consapevolezza un po' mi sorprese: ero il primo uomo per lei dopo suo marito, il padre dei suoi figli. Mi allungai per toccarle una spalla: « Tooru, tu - » Lei mi scostò il braccio non appena la sfiorai e si mise a sedere sul materasso.
« Vado in bagno » Disse, tirandosi in piedi.
La osservai prima che sparisse oltre la porta.
Tornai ad osservare il soffitto, domandandomi che cosa significasse quello le avevamo e la fretta con cui lo avevamo avuto. Entrambi forse eravamo soli. Disperati.
Io non ricordavo chi ero.
Lei voleva solo dimenticare qualcosa.
Decisi di raggiungerla, per abbracciarla.
Mi accostai alla porta per bussare, ma non lo feci mai.
Un rumore catturò la mia attenzione. Era un suono strano, soffocato, come se qualcuno stesse gridando con un panno sulla bocca. Poi mi resi conto che era così.
Che a gridare era Tooru. Nel bagno.
Gridava e piangeva, soffocando le lacrime.
Feci per aprire la porta di scatto, ma ancora una volta mi fermai, attratto dall'arrivo di un messaggio sul cellulare di lei, abbandonato dalla sera precedente su una cesta di vimini.
Non avrei dovuto leggere, ma lo feci:


Hajime - Dove cazzo sei sparita?!


Aggrottai le sopracciglia.
Sullo sfondo dello schermo aveva una foto di se stessa con un infante tra le braccia, ma non potevo vederlo per via della notifica, apparsa proprio sulla sua faccia.
Hajime era il marito?
Quel nome mi sembrava familiare ...
Lui le parlava davvero in quel modo?
Successe come nella macchina, la prima sera che eravamo usciti insieme.
Arrivò all'improvviso, un'immagine estranea.
Il viso di un uomo che non riconoscevo, delle risate bonarie, una pacca sulla spalla.
E di nuovo la risata di un bambino.
Scossi la testa, cercando di cacciare via quelle immagini.
Mi misi a sedere sul cesto di vimini, le tempie tra le mani, il mal di testa.
Nel tempo che ci misi per riprendermi Tooru aveva smesso di gridare.
Nel bagno sentivo lo scrosciare dell'acqua nella doccia.
Non entrai e la lasciai in pace.
Non volevo sapere chi fosse Hajime.
Non volevo sapere perché urlasse.


Le giornate si erano fatte calde.
Tooru mi appariva bellissima nel suo abito floreale.
Eravamo andati a fare una delle nostre solite gite fuori porta.
Mi voltai nella sua direzione quando mi resi conto che era rimasta indietro.
Si manteneva con una mano al muro, mentre con l'altra massaggiava il ginocchio rovinato.
Io la guardai, lei mi guardò.
« Sediamoci, facciamo colazione »
Le allungai una mano, Tooru la prese.
Ci eravamo alzati molto presto per visitare il castello in cima alla montagna che sovrastava il paesino. La mia proposta non sarebbe risultata strana. E poi era una cosa nostra.
I primi tempi mi preoccupavo, poi avevo capito che a lei dava fastidio, così avevo smesso.
Ora facevamo in quel modo. Ci comportavamo come se niente fosse.
Il bar dove ci fermammo era grazioso, poco affollato. Io ordinai un caffè, Tooru una tisana.
Su un vassoio ci portarono anche un piattino di dolci da accompagnamento.
« Oh, le petite madeleine » Commentò Tooru, osservando un pasticcino alla forma di conchiglia allungata, mentre sorseggiava la sua tisana alle erbe.
« Le memorie involontarie » Mormorai io. Lei mi guardò, abbassando la tazza.
Io distolsi lo sguardo dal dolce e tornai a girare il mio caffè macchiato.
« Il mio neurologo. Mi ha parlato delle memorie involontarie il giorno in cui ci siano incontrati per la prima volta io e te » Le spiegai, bevendo un sorso.
Era buono, forte. Leggermente speziato.
Tooru appoggiò la tazza graziosa nel piattino.
« Le chiamò le petite madeleine, non sapevo ancora che cosa fossero »
« Alla ricerca del tempo perduto »
La osservai dal bordo della tazzina, lei mi sorrise, appoggiando il volto nei palmi delle mani. Aveva una ciocca di capelli fuori posto.
« Lo hai letto » Indovinai.
« Molti anni fa » Confermò « E ne hai avute, di memorie involontarie? »
Non conoscevo una risposta a quella domanda.
Se pensavo a quel pozzo nero dei miei ricordi mancanti, non trovavo niente.
Ma ultimamente ...
« Non lo so. Ma mi sono reso conto che ... da quando ti ho incontrata non mi importa più. Ho un'amnesia retrograda transitoria, potrei riavere indietro i miei ricordi, prima o poi. Forse non voglio ... prima si, lo volevo. Ma ora ... non mi importa più. Sto bene, con te »
Posai la tazzina vuota nel piattino.
Tooru mi guardava, e come sempre non riuscivo a capire che cosa stesse pensando.
Probabilmente per lei era lo stesso.
Avrei voluto chiederle perché stesse con un uomo senza memoria, senza passato.
Altre donne ne sarebbero state spaventate.
Ma lei no. Lei era rimasta subito.
Tanji mi aveva detto che avrei trovato la mia petite madeleine. Non mi importava più.
Avevo timore che il mio passato potesse allontanarmi da Tooru.
« Sono buone sai? Mangiane una » Disse lei alla fine, prendendone una dal vassoio.
Sembrava fresca, spugnosa.
Diede un morso da usignolo, poi la allungò nella mia direzione perché assaggiassi.
Io le afferrai il polso e diedi un morso generoso. Aveva ragione, era buona.
Quella petite madeleine era buona.


« Ho conosciuto una donna »
Lo confessai a Tanji qualche giorno dopo, nella solita visita mensile.
Non glielo aveva detto in quelle precedenti.
Lui non mi diede una risposta pronta, come al solito. Lo guardai dal lettino su cui ero sdraiato. Era seduto dietro la scrivania, con le mani intrecciate davanti a se e mi fissava.
« Una storia seria? » Domandò alla fine.
Io pensai a Tooru. Sapevo poche cose di lei.
Niente, in realtà. Della sua vita non sapevo niente, non ero mai stato nemmeno da lei.
« Si. Credo di si » Risposi, tornando a guardare il soffitto in penombra.
« Insomma, credo di amarla. Non mi ricordo di essermi mai sentito così prima. Lei è ... indescrivibile. Almeno, io non conosco le parole adatte. Non sono bravo con queste cose » Ancora una volta Tanji rimase in silenzio per più tempo di quanto non facesse di solito.
Allora tornai a cercare il suo sguardo. Sorrideva, forse un po' amaramente.
« È una cosa che non va bene? » Chiesi, incapace di capire quella sua espressione.
« No, è una cosa bella Wakatoshi. Stavo solo pensando ad una persona che mi è cara ... »
Tanji fece un sospiro e poi mosse la mano davanti al viso, come se stesse scacciando via un insetto « Lascia stare. Non è una cosa che ti riguarda. È una responsabilità di questo vecchio e delle sue scelte » Non risposi.
Non avevo idea di che cosa stesse parlando, in realtà. Tanji fece un respiro, pareva stanco.
« Mi domando ... cosa farai se ti tornerà la memoria? »
Era una cosa a cui avevo pensato, ma la sua domanda era strana.
« Non ho nessuno nella mia vita, me lo avete detto tu e Satori. Non dovrebbe cambiare molto ... no? » Cercai il suo sguardo.
Tanji non lo distolse, mi guardò.
« Hai ragione » Disse solo, massaggiandosi il ponte del naso con indice e pollice.
Non lo avevo mai visto in quello stato, prima.
Mi misi a sedere sul lettino con un movimento agile, pensando che forse fosse meglio che andassi via. Ero l'ultimo paziente ed erano le otto passate di sera.
« Sei stanco, torno a casa e ... »
Lui scosse la testa, facendomi segno di restare seduto dov'ero con un gesto secco.
« Resta, Wakatoshi. Non ho finito »
Feci come mi aveva ordinato, restai, in attesa.
« Lei sa della tua condizione? » Mi interrogò.
« Si. Ne è consapevole »
Tanji sollevò un sopracciglio.
« Non si è preoccupata? Non ti ha chiesto niente? »
C'era della sorpresa nel suo solito tono burbero. Intrecciò le dita sulla scrivania.
« No, se ti riferisci all'incidente, non mi ha chiesto i dettagli. Ha solo detto di voler conoscere l'uomo che sono adesso » Tanji rimase ancora una volta in silenzio.
« Sorprendente » Commentò semplicemente.
« Lei è ... una donna misteriosa, se vogliamo metterla così. È sposata »
« Come? »
« È sposata, con un uomo che non conosco. E ha due figli, ma non mi parla mai di loro. Credo che si stiano separando e lui le impedisca di vederli ... ho letto per sbaglio un messaggio che le ha mandato sul cellulare e sembrava un tipo violento, rude »
Raccontai quelle cose guardando le mie stesse mani intrecciate sulle gambe.
Non mi ero reso conto di aver bisogno di parlarne con un amico così tanto.
« Wakatoshi » Mi chiamò Tanji con voce ferma, lo guardai « Tu conosci la persona che hai accanto? Non ti starai cacciando in una brutta situazione? Nella tua condizione non va bene » Era un rimprovero quello.
Perfino io ero in grado di capirlo. Capivo fosse preoccupato.
Tanji era come un padre per me, quello che avevo perso - apparentemente - qualche anno prima del mio incidente.
Ma nemmeno quello ricordavo: il dolore immane e disumano di quella perdita.
Capivo le sue preoccupazioni.
Era vero, non conoscevo molti aspetti della vita di Tooru, ma ero sicuro di una cosa: il suo amore. Ero sicuro del suo amore.
« Va tutto bene, Tanji. So quello che faccio »
Lo tranquillizzai. Prima di annuire, lui mi guardò dritto negli occhi, io ressi il suo sguardo. Alla fine fece un altro sospiro e si massaggiò di nuovo gli occhi, annuendo.
Prese a sistemare le mie carte mediche.
« Tooru è - » Non riuscii a terminare la frase.
Tanji aveva fatto cadere qualcosa di pesante sulla sua scrivania, interrompendomi.
Mi fissava come se avesse visto un fantasma.
« Come si chiama la donna? »
Lo fissai.
« Tooru » Risposi dopo un po'.
Tanji fece silenzio per qualche secondo ancora, fissandomi con gli occhi vacui.
Poi si ricompose, mettendosi a sistemare la scrivania con movimenti lenti ma decisi.
« Un bel nome » Si limitò a dire.
Io lo osservai. Non sembrava diverso da prima che pronunciassi quel nome.
« La cono- »
« Parlane anche con Satori, lui vorrà saperlo. È il tuo migliore amico, dopotutto. E questa è una notizia importante » Mi interruppe lui, come se non mi avesse sentito parlare.
Io ci misi qualche secondo per rispondere.
« Si, lo farò »

 
- Tooru -


La mia vita era felice prima di quel giorno.
Avevo tutto quello che una persona potesse desiderare, o quanto meno, tutto quello che io potessi desiderare.
Poi c'era stato l'incidente. Un attimo.
Era stato un attimo, un istante appena.
In un secondo solo, un secondo appena, dove Wakatoshi aveva distolto lo sguardo dalla strada per sorridermi e tutto era cambiato.
Ci avevo pensato spesso a quel misero secondo. Ossessivamente.
Io ricordavo ogni singolo attimo di quel momento, come se fosse impresso a fuoco nella mia memoria. Nei miei incubi.
Era come se qualcuno si fosse preso gioco di noi. Io non potevo dimenticare.
Wakatoshi invece non ricordava niente.
C'erano stati giorni, i primi tempi, in cui lo guardavo con invidia. Con odio.
Vorrei essere al posto tuo!
Dovresti starci tu al posto mio!
Dovresti soffrire tu in questo modo!
Era stata la follia di un istante, la morsa del dolore che mi soffocava, la mente annebbiata.
La lucidità era arrivata lentamente, e con essa la consapevolezza che lui fosse ormai l'unica certezza del mio universo: il fulcro.
Eravamo solo io e lui.
Era diventato la mia unica ragione di vita.


Prima di quell'incidente la mia vita era come la fiamma splendente di una candela, era bastato uno schiocco di dita perché si spegnesse. Come se non avesse mai brillato.


Satori mi venne a cercare in Biblioteca.
Quel luogo non era solo il mio posto di lavoro, ma era anche il mio rifugio dal mondo.
Mi stavo preparando per il concorso pubblico riguardante quella posizione quando avevo conosciuto Wakatoshi, appena ventenne.
Lì dentro era cominciato tutto, per noi.
Era pieno di ricordi felici e io mi ci ero rifugiata come dentro ad un bel sogno, per sfuggire alla realtà. Anche quando lui - dimenticatosi di me e dei vent'anni di vita che avevamo trascorso insieme - aveva smesso di venire a prendermi finito il lavoro.
Wakatoshi era rimasto tra quelle pareti.
Tra le pagine dei libri ingialliti, seduto ai tavoli silenziosi, dietro gli angoli degli scaffali.
Ritrovarlo lì dopo lo spazio vuoto di quei dannati tre anni non mi aveva sorpresa.
Lui non se n'era mai andato dal mio cuore.


Sapevo che Satori sarebbe venuto a cercarmi.
Wakatoshi doveva avergli parlato di me, alla fine.
Mi sorprese scoprire che ci avesse messo così tanto per farlo.
Stavo sistemando alcuni libri che ci erano stati restituiti quando era arrivato.
Erano ordinati in file impilate su un carrello che mi portavo sempre dietro, comodo.
Ne stavo sistemando uno nel suo spazio, leggermente piegata in avanti, quando mi sentii afferrare con una certa violenza per il colletto del vestito che indossavo.
La stoffa, tirata all'indietro, mi premette contro la trachea, lasciandomi senza fiato.
Seguii la trazione del movimento inciampando nei miei piedi mentre indietreggiavo.
L'istante successivo un paio di mani mi sbatterono con violenza contro lo scaffale secolare, inchiodandomi.
Andai a sbattere con la nuca contro il legno, mi feci male le ossa sporgenti della schiena.
Una mano ruvida e grossa si strinse attorno al mio collo. Ma io rimasi tranquilla.
Non urlai nemmeno, nonostante la sorpresa.
« Tooru! » Ringhiò una voce familiare.
Satori aveva il viso pigro distorto dalla rabbia.
Avevo riconosciuto la sua stretta ancora prima di vederlo, perché non era la prima volta che mi afferrava in quel modo violento. Era successo anche tre anni prima, il giorno in cui lui e Tanji mi avevano detto che sarei dovuta uscire dalla vita di Wakatoshi.
Quel giorno non ero stata calma come in quel momento, avevo tirato un pugno a Satori sulla mascella: No, tu non puoi! Non puoi farmi questo! È mio marito! Mio marito!
La mia furia di allora, il mio dolore di allora, ogni cosa che avevo provato allora si era anestetizzato dentro di me. Hajime l'aveva chiamata rassegnazione.
« Che cazzo stai facendo?! Ti avevo pregata di non tornare nella sua vita, non ancora! »
Ruggì lui con violenza, scuotendomi forte.
Io mi limitai a guardarlo stanca.
« Sono passati tre anni, Satori. Tre. Wakatoshi non vuole ricordare. Non vuole ricordare me, Akihiko, il bambino a cui non siamo nemmeno riusciti a dare un nome. I barbiturici che ha inghiottito o la vasca da bagno. Ma io sono stanca. Così stanca »
Appoggiai le mani sul polso di Satori e lo avvolsi nelle mie mani ossute, senza avere nemmeno la forza di stringere.
« Lui non ricorda niente, ma io si. Io ricordo ogni cosa, Satori. Wakatoshi è la mia unica ragione di vita. Non posso più tollerare di non averlo con me, al mio fianco » Satori strinse il pugno attorno alla mia gola, soffocandomi per qualche secondo, ma poi lasciò andare.
Prese a camminare avanti e indietro come un'anima in pena, le mani sui fianchi, agitato.
Tu non hai più un marito.
Le parole di quel giorno mi risuonarono in testa come un martello pneumatico.
« Tooru, Tanji ti ha spiegato bene cosa può succedere se la memoria - »
« Lo so! » Lo interruppi, massaggiandomi il collo dolorante. Sospirai.
In quei tre anni io non avevo mai smesso di seguire Wakatoshi nell'ombra.
« Non gli ho detto niente e non lo farò. Ma voglio stare con lui. Mi basta stare con lui. Noi due siamo ancora sposati! Dei vostri imbrogli legali non mi interessa »
Satori si fermò, le mani sui fianchi, lo sguardo allucinato di un folle.
« L'ho fatto solo per il suo bene »
« Ora basta. Basta! Io e te abbiamo sempre avuto un concetto molto diverso di cosa fosse giusto fare per il suo bene »
Rimasi schiacciata contro lo scaffale e feci un sospiro, volevo massaggiarmi le tempie.
Avevo male al ginocchio, moltissimo.
Satori si prese il ponte del naso tra le dita.
« Se gli succede qualcosa - »
« Sta zitto, Satori. Zitto. Tu hai solo paura »
Lui mi guardò come se gli avessi letto nell'anima. La paura della verità.
A me invece tornarono in mente le parole che avevo lasciato scritto su un biglietto rosa, in un libro a casa di Wakatoshi.
Non sapevo se le avrebbe mai lette.


Stavamo andando in vacanza quel giorno infausto.
Due settimane al mare, niente di nuovo.
Akihiko era legato nel seggiolino, dormiva.
Il bambino nel mio grembo - ero di cinque mesi - si muoveva agitato.
Lo avevo detto a Wakatoshi, mentre mi accarezzavo la pancia per cercare di calmarlo, pigra. Avevo sonno.
Lui mi aveva sorriso, e si era voltato a guardarmi per un solo secondo. Solo uno.
Il cervo era spuntato dal nulla.
Io avevo gridato, Wakatoshi sterzato.
Poi non ricordavo bene. La macchina si era ribaltata su se stessa, aveva rotolato fino a schiantarsi contro il guard rail, che aveva trascinato con sé giù per il dirupo.
Di quel momento io ricordo solo il casino.
Il mio corpo sballottato, le botte, gli scossoni.
Akihiko era morto sul colpo, incastrato sul retro accartocciato della macchina, ma noi ancora non lo sapevamo. Io avevo il ginocchio spezzato a metà, ma non sentivo ancora il dolore forte.
Le mie mani sporche di sangue scivolavano sulla sbarra di metallo del guard rail che mi si era conficcata nelle budella, poco sotto l'ombelico.
I soccorsi erano arrivati dopo ore.
Wakatoshi non aveva perso la memoria in quel momento, come gli era stato raccontato.
In modo del tutto fortuito, lui non aveva riportato ferite gravi in quell'occasione, solo un pezzo di metallo conficcato nella coscia e qualche taglio da detrito sul corpo.
Era successo mesi dopo.
Io non camminavo ancora senza stampelle, distrutta. A malapena sopravvivevo.
Lui era un uomo senza anima.
Non avevamo avuto modo di affrontare il lutto, non ce n'era stato il tempo.
Avevo provato una volta a cercare lo sguardo di Wakatoshi, a cercare la sua anima in quegli occhi vuoti, vacui. Nella mia sofferenza di madre, di moglie, di donna lo avevo cercato.
Mi sentivo dilaniata, estraniata dal mondo, senza un pezzo di corpo, straziata e lo avevo cercato. Avevo cercato l'unico amore che mi rimaneva, ma non lo avevo trovato in quegli occhi. Wakatoshi era morto con le nostre creature, con quelle che non avremmo mai avuto, e lo avevo capito, il giorno in cui mi aveva detto quelle parole che mi avrebbero perseguitata per sempre guardandomi dritto negli occhi: Ho ucciso i miei figli.
E io non avevo saputo rispondergli.
Non avevo saputo cosa dirgli. Cosa dire a me.
Così non avevo detto niente e quella era stata la fine. Wakatoshi non parlava, non esternava mai niente, i sentimenti erano creature sconosciute per lui, li soffocava.
Io avrei dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Avrei davvero dovuto saperlo.
Quel giorno la casa era silenziosa.
E io ero entrata nel bagno zoppicando sulle mie stampelle solo per caso.
L'acqua rossa era stata la prima cosa che avevo notato.
Il corpo ammollo in una posizione innaturale la seconda.
Wakatoshi non si era tagliato le vene, come avevo pensato mentre un grido strozzato e disperato mi lasciava la gola.
Wakatoshi aveva assunto dei farmaci, poi era scivolato nella vasca mentre perdeva conoscenza e aveva sbattuto la testa sul bordo di porcellana, violentemente.
Di quel momento io ricordavo le mie urla, che sembravano non finire mai.
Hajime - che era da noi - precipitarsi nel bagno e sollevare con fatica il corpo di Wakatoshi fuori dall'acqua.
Le mie mani sporche di sangue tra i suoi capelli bagnati mentre gridavo e gridavo.


Non eravamo stati capaci di andare avanti.
Non eravamo stati capaci di accettare.
Non eravamo stati capaci di aiutarci.
Non eravamo stati capaci di ascoltare.


E alla fine non era rimasto nemmeno il tempo per aggiustare le cose: perdita di memoria retrograda di tipo transitorio.


Ricordavo ancora quando Tanji me ne aveva parlato per la prima volta, nel suo studio.
Non è una condizione permanente, Tooru.
Wakatoshi ha avuto un trauma cranico senza dubbio, ma l'emorragia è rientrata bene.
Potrà recuperare la memoria, prima o poi.
Io lo avevo ascoltato, senza ascoltare davvero. Ero morta. Ero morta dentro.
Ma temo che sarà un processo lungo e doloroso. Temo che lui non voglia ricordare.
Al posto suo nemmeno io avrei voluto.
Nemmeno io avrei voluto quei ricordi.
Anche io avrei voluto dimenticare tutto.
E poi me lo avevano chiesto, di uscire dalla sua vita. Se mi avesse visto, se avesse ricordato tutto forzatamente, le conseguenze sarebbero potute essere disastrose per lui.
Io mi ero opposta. Mi ero opposta così ferocemente: È mio marito. Mio marito!
La mia vita, tutta la mia vita.
Akihiko e il secondo bambino senza nome ormai erano dentro di lui. Lui era tutto.
Wakatoshi li aveva portati con sé da qualche parte e io volevo raggiungerli.
Quella era stata la prima occasione in cui Satori aveva alzato le mani su di me con forza: Wakatoshi ha cercato di uccidersi, Tooru! Lo capisci quello che ha fatto?!
Il punto era proprio che lo capivo.
Wakatoshi aveva cercato di ammazzarsi come se non avesse ancora me, come se la sua vita fosse finita e di me non gli importasse. Come se io non fossi un motivo sufficiente per continuare a respirare.
Io avrei vissuto negli incubi di quel momento per sempre. Nella possibilità che se avesse ricordato avrebbe potuto rifarlo, era solo per quel motivo che avevo concesso la resa.
E per tre anni lo avevo seguito in silenzio.


Ma quel silenzio era finito.
Avevo un conto con il passato, e l'avrei pagato io. Lo stavo pagando io.
Wakatoshi era tutto quello che volevo indietro. Tutto quello che mi rimaneva.
Tutto quello per cui avevo continuato a sopravvivere. A respirare.
Tutto.

 
- Wakatoshi -


La notte avevo cominciato a fare sogni strani.
Sogni di un'altra persona.
Non ne avevo parlato con nessuno.
Dopotutto, non avrei saputo come spiegare quella sensazione, la sensazione di vivere nei panni di qualcun altro e al contempo sentire che fosse tutto così reale.
Era il principio dell'estate di quell'anno.
Con il senno di poi, pensai che fosse stato il destino stesso a darmi una scossa.
Avevo dormito e dimenticato a lungo, e forse era arrivato il momento di prendermi le mie responsabilità. Io non avevo idea all'epoca.
Non ero un lettore, come avevo detto.
Ma possedevo pochi libri in giro per casa.
Quello che urtai con la gamba era poggiato sullo spigolo del tavolino in salotto.
Cadde a terra e si aprì a metà, dal suo interno uscì un foglietto di carta rosa che non ricordavo di aver mai visto prima.
La casa era sporca e in disordine, come sempre.
Volevo pulire, ma quel foglietto mi distrasse. Con un piccolo sforzo mi inginocchiai a terra e lo raccolsi - era caduto a faccia in giù -, la carta era ruvida e doppia.
Non riconobbi la calligrafia, ma leggendo sapevo - per istinto - chi avesse scritto:


Ti porto a cena con me.
Ho un conto aperto con il passato, che pagherò io, perché il tuo futuro non sia un inganno.


Mi misi a sedere a terra, sul tappeto.
Lessi e rilessi senza capire.
Alla fine presi il cellulare dalla tasca retrostante dei jeans, il numero era il primo nel registro delle chiamate in entrata.
Squillò solo due volte prima di sentire la sua voce: « Wakatoshi, amore »
Mi nacque un sorriso accennato sul volto, spontaneo. Mi piaceva essere chiamato così.
« Dove sei? » Le domandai, diretto.
Sentivo dei rumori in sottofondo, poco chiari.
« A casa. Sto cucinando. Ti va di fare qualcosa? » Guardai di nuovo il bigliettino.
« Sto venendo da te » Le annunciai.
Si sentì lo schianto di qualcosa in soffondo, come di una pentola o una padella, metallico.
« Ma - »
« Sarò lì in pochi minuti »
Chiusi la comunicazione senza darle il tempo di rispondere.
Non mi importava se da lei ci fosse il marito quel giorno, non mi importava scoprire che mi aveva mentito, magari. Pochi minuti dopo ero per strada, diretto verso la macchina, il foglietto nella tasca posteriore dei jeans, insieme al cellulare.


Tooru era nervosa quando mi aprì la porta di casa.
Rimase sulla soglia e mi guardò come se temesse qualcosa da me, una reazione.
Scrutava il mio volto con aria preoccupata.
« Ehi. Perché sei venuto così - »
Aveva cominciato a parlare, nervosa, con la porta ben chiusa dietro le sue spalle e io non la feci finire. Le presi il viso tra le mani e la baciai con dolcezza.
Tooru trattenne il respiro, colta di sorpresa.
Indietreggiando appena urtò la porta, che si aprì lentamente, rivelando un ambiente ampio. Non so perché, ma mi distrasse. Separandomi da lei mi guardai attorno.
« Wakatoshi » Tooru mi toccò una guancia. Tornai a guardarla, passandole il pollice della mano sinistra tra le rughe di preoccupazione in mezzo alle sopracciglia.
« Scusami, è che questo ambiente ... »
Non terminai la frase, scuotendo la testa.
« Questo ambiente cosa? » Insistette lei.
Nei suoi occhi lessi l'urgenza di una risposta che mi sorprese davvero.
« Mi sembrava familiare. Tutto qui »
Lei si fece indietro, abbassando lo sguardo.
Indossava un vestito largo, per casa, azzurro.
I capelli erano semi raccolti dietro la nuca in una sorta di crocchia leggera, allentata appena.
Io chiusi la porta di casa alle spalle.
Sembrava sola, gli unici rumori venivano dal giardino e dall'estate fuori che sbocciava.
« Scusa che sono piombato qui da te »
« È successo qualcosa? »
Tooru si grattò un braccio, in imbarazzo, mentre io entravo nel salotto ampio, elegante.
« No, io - » Estrassi il bigliettino mentre parlavo, prima di essere interrotto dal rumore di un cellulare che squillava violentemente.
« Scusami, ma devo rispondere » Tooru si morse il labbro inferiore mentre osservava lo schermo luminoso, preoccupata, nervosa.
« Fai pure » Le concessi, senza domandare chi fosse. Senza domandare niente.
Lei annuì e si incamminò verso il corridoio, in quella che doveva essere la zona notte della casa. Rispose prima di chiudersi la porta scorrevole alle spalle.
« Che cosa vuoi, Hajime? No, ti ho .... »
Non sentii altro. Scrutai ancora una volta il bigliettino tra le mie mani, aprendolo perché lo avevo piegato in due parti.
Che cosa vuol dire?
Ero andato fin lì solamente per chiederglielo.
Solo nel salotto, mi guardai intorno curioso, ma non troppo.
La prima cosa di cui mi resi conto, con sorpresa e forse anche con vergognosa gelosia, fu della presenza di suo marito ancora dappertutto.
Non sarebbe stato facile intuirlo, eppure ...
Nella libreria da parete, incassata al muro, se ne stavano oggetti e libri inequivocabili.
Mi avvicinai: volumi di giurisprudenza, libri di legge, di diritto.
Anche una laurea, da quello che vedevo, chiusa in una cartellina trasparente tutta graffiata.
Non riuscivo a leggere niente, e non la toccai per scoprire se il nome di suo marito fosse davvero "Hajime". Ero geloso, ma non tanto da violare la sua privacy personale.
Nel giardino vedevo degli attrezzi e degli abiti maschili, appesi nel capanno con la porta aperta. Mi mossi appena, affacciandomi nella cucina moderna e confusionaria.
Una tazza era capovolta sul ripiano del lavandino, una padella spenta stava sul fornello e sul tagliere una cipolla tritata a metà. Del sugo, un coltello abbandonato.
Anche la cucina mi era familiare, in modo strano. Feci un sospiro e raggiunsi di nuovo il salotto, mettendomi seduto sul divano davanti alla libreria.
Il televisore enorme era spento, lo schermo nero che rifletteva la luce del giardino.
Lo sguardo mi cadde sul tavolino, sul telecomando moderno, su una rivista del cucito, una candela viola mezza consumata, il centrotavola con dentro dei fiori secchi e una piccola fotografia messa a faccia in giù.
Mi venne spontaneo farlo.
Allungare una mano e sollevare la foto, pensando che fosse caduta o qualcosa del genere.
Un gesto automatico, che non aveva la malizia della curiosità.
Avevo sempre pensato che nella vita ci fossero dei momenti, dei momenti in cui tutto smetteva di scorrere. Dei momenti in cui tutto cambiava.
Momenti in cui ci si guardava indietro e nulla sarebbe più stato come prima.
Io non ne avevo idea quando sollevai la foto.
Non avevo idea che sarebbe stato uno di quei momenti.
La guardai, semplicemente.
Era una foto di famiglia, nulla di complicato.
C'era Tooru, bellissima, con un sorriso che non le avevo mai visto in viso, vivo.
Era incinta, ma di pochi mesi, si vedeva.
E c'ero io, che le poggiavo la fronte sulla tempia sorridendo appena, più giovane di come non fossi in quel momento nel presente.
E avevo in braccio un bambino, che assomigliava a me e a Tooru.
Presi la foto e la portai davanti al viso, toccando con il pollice la faccia del bambino.
Akihiko.
Gli avevo dato io quel nome, quando era nato d'urgenza e avevo potuto stringerlo tra le braccia solo dopo mesi, con la mano rotta, perché l'avevo tirata nel muro per la rabbia e la preoccupazione.
Ero io. Per tutto quel tempo Tooru aveva parlato di me.
Mi tornarono in mente le parole di Tanji: Esistono anche le memorie involontarie, ne hai mai sentito parlare?
Sono ricordi che emergono inconsciamente dagli stimoli del nostro quotidiano.
Troverai la tua petite madeleine.
E io l'avevo trovata, in quella casa - la mia casa - e in quella foto.


La mia memoria involontaria.

 
- Tooru -


Non riuscivo a concentrarmi sulle parole di Hajime dall'altra parte del telefono.
Il pensiero che Wakatoshi si trovasse da solo nell'altra stanza mi terrorizzava.
Avevo avuto solo poco tempo per mettere via le cose più pericolose, come la sua laurea in giurisprudenza, la foto del nostro matrimonio, la sua tazza, che non avevo mai buttato.
Almeno, mi tranquillizzava sapere che non avrebbe messo piede nella zona notte della casa, perché lì non avevo avuto la forza di toccare niente.
I suoi vestiti, la stanza di Akihiko, le tutine e i giocattoli per il bambino che non era nato vivo.
Avevo lasciato tutto fermo e immobile, come se non fosse mai cambiato niente. Come se stessi ancora aspettando il ritorno a casa di qualcuno o qualcosa che non sarebbe mai tornato.
Ero andata da uno psicologo i primi tempi dopo il tentativo di suicidio di Wakatoshi.
Ci ero andata per un paio di mesi, ma in me il rifiuto era troppo forte, e alla fine non ero riuscita a farmi aiutare. Akihiko dormiva ancora nella sua culla, al sicuro nella sua stanza, il secondo bambino a volte si muoveva ancora nel mio ventre.
Wakatoshi mi dormiva accanto, nel letto.
« ... stai esagerando. Mi ascolti, Tooru? »
La voce di Hajime mi rombò nelle orecchie.
No, non lo stavo ascoltando. Da un po' di tempo, ormai. Da mesi non lo ascoltavo.
« Si, si, ti ascolto Hajime. Si » Il mio sguardo tormentato era fisso sulla porta chiusa della camera da letto, mentre mi mordevo nervosamente l'unghia del pollice.
Volevo tornare da Wakatoshi.
Nella cornetta Hajime sospirò, esasperato.
« Va bene. Ti lascio andare, ci vediamo domani. Io e Nana ti aspettiamo a cena ... »
« Uhm, va bene. Si, a domani » Chiusi la chiamata e gettai il cellulare sul letto senza nemmeno aspettare che lo schermo si oscurasse.
Mi precipitai in soggiorno, ripensando al motivo per cui avevo tanto insistito a non far venire mai Wakatoshi in quella casa. La nostra casa.
Era troppo piena di ricordi.
Troppo piena di memorie. Di reliquie.
Una tomba della nostra felicità, un mausoleo di cui mi ero presa cura per tre anni.
« Wakatoshi, scusami, io - » La voce mi morì in gola.
Il salotto era vuoto, esattamente come lo era stato prima che arrivasse a farmi visita.
Ma alcune cose erano fuori posto.
La porta di casa era socchiusa, ed ero piuttosto sicura che fosse stata chiusa.
Sul divano vi era invece una fotografia che avrebbe dovuto trovarsi sul tavolino, malamente capovolta dalla fretta. Barcollando mi avvicinai, ma non ebbi il coraggio di prenderla.
La conoscevo a memoria. Era stata scattata una settimana prima che la nostra vita cambiasse per sempre e ineluttabilmente.
Mi portai una mano tremante alla bocca, il panico che mi cresceva nel petto.
Wakatoshi? Il colore scarlatto dell'acqua.
Wakatoshi! La sua mano che sporgeva pendente dal bordo della vasca.
WAKATOSHI! Le goccioline d'acqua che cadevano ritmicamente dalla punta delle dite.
Mi si serrò la gola, non potevo respirare.
Non riuscivo a respirare. Soffocavo.
Mi accasciai sul tappeto, appoggiandomi al bracciolo del divano, una mano attorno alla gola mentre cercavo di non morire.
« Ha-Hajime » Rantolai, piangendo.
Hajime! HAJIMEEEEE!
Il passato e il presente si confondevano.
Quel giorno mi ero lacerata le corde vocali.
Avevo gridato così tanto che me le ero lacerate, e poi non avevo più potuto parlare per mesi e alla fine la mia voce non era nemmeno più la stessa di prima.
Fu a quel punto che mi accorsi del fogliettino rosa, caduto tra le pieghe del tappeto.
Lo riconobbi immediatamente, era stato piegato in due parti. Con dita tremanti mi sporsi in avanti e lo afferrai, sapendo perfettamente che cosa vi avrei trovato scritto dentro.
« Wakatoshi » Rantolai, stringendo il pugno della mano attorno al foglio di carta, che si accartocciò fin quasi a sparire.


Quel conto con il passato era troppo salato.
Anche per me.

 
- Satori -


Nella vita avevo molti rimpianti.
E lungo la strada due o tre decisioni sbagliate.
Avevo temuto a lungo l'arrivo di quel giorno. Lo avevo aspettato. Eppure non ero pronto.
Non lo sarei mai stato davvero.
Perché sapevo. Sapevo che Wakatoshi sarebbe venuto da me per delle spiegazioni.
La cosa però mi colse di sorpresa.
Non sospettai niente.
Wakatoshi non sapeva farle quelle cose di nascosto, non era tipo da sotterfugi.
Io andai al nostro solito bar con l'aria spensierata che mi contraddistingueva.
Con il senno di poi, Wakatoshi non lo aveva fatto di nascosto.
Aveva mandato un messaggio a me, e poi ne aveva mandato uno a Tanji, probabilmente.
Solo che era strano, di solito non veniva da lui.
Un invito del genere era più cosa da me.
Compresi che qualcosa non andava solo quando mi imbattei nel vecchio neurologo, mio complice nella montagna di bugie che avevo costruito ad arte in quei tre anni per il mio migliore amico. Io e Tanji cercammo di attraversare la porta del bar nello stesso momento.
Ci fissammo, del tutto sorpresi.
« Satori » Mi salutò lui, dandomi una pacca amichevole sulla spalla.
« Tanji, cosa fai qui? » La sua voce era burbera come al solito e così il suo tocco.
« Devo incontrare Wakatoshi »
« Anche io » Ci guardammo di nuovo.
Era passata l'ora di pranzo da qualche tempo.
Nella tasca del pantalone il cellulare prese a vibrare, lo presi e guardai lo schermo.
Il nome Tooru lampeggiava ininterrotto.
Non risposi, chiusi la chiamata.
Wakatoshi era seduto ad un tavolo appartato.
Fissava la scatoletta piena di zucchero come se fosse ipnotizzato, le mani nelle tasche dei jeans e le gambe divaricate sotto il tavolo.
« Ohi Wakatoshi, ciao » Lo salutai allegro.
Lui sollevò appena lo sguardo su me e Tanji mentre ci mettevamo seduti davanti a lui.
« Inaspettato da parte tua questo invito » Disse il vecchio, sollevando le maniche del maglioncino leggero che indossava, nonostante fosse appena cominciata l'estate.
« Mi sono preso la briga di ordinare »
Fu il suo commento, mentre ci osservava.
« Hai fatto bene, amico » Risposi.
Lo schermo del suo cellulare, appoggiato sul tavolino a faccia in su, prese ad illuminarsi e vibrare contemporaneamente: Tooru.
Wakatoshi osservò senza fare niente.
« Non rispondi? » Domandò Tanji.
Wakatoshi distolse lo sguardo per concentrarsi nuovamente su di noi.
« Chiamerò mia moglie più tardi » Il mio cervello ci mise qualche secondo a realizzare le sue parole, e probabilmente anche quello di Tanji.
Quando sollevai lo sguardo di scatto, occhi sgranati, non ebbi modo di dire niente, perché arrivò un cameriere con un vassoio.
Due caffè macchiati, un ginseng e un piatto di quelle che sembravano delle petite madeleine.
« Wakatoshi - » Cominciai, non appena l'uomo se ne fu andato, lasciandoci soli di nuovo.
Lui mi interruppe.
« Non avevo mai mangiato una madeleine prima. Non ho mai amato i dolci, è stata Tooru a farmene provare una »
« Ragazzo - » Provò Tanji.
Wakatoshi interruppe anche lui.
« Voglio solo guardarvi negli occhi mentre mi spiegate perché avete pensato di mentirmi. Voglio guardarvi negli occhi mentre ascolto le vostre stupide ragioni »
Wakatoshi non stava urlando mentre diceva quelle parole e mi guardava negli occhi.
Ma ci conoscevamo dal liceo e sapevo che era arrabbiato, furioso, nervoso.
Aveva ritrovato la memoria.
Era assurdo.
Non riuscivo a pensare al fatto che ce l'avesse con me, perché non capivo come si sentisse. Cosa stesse provando.
Una volta lasciato quel tavolo avrebbe provato ad ammazzarsi di nuovo?
Ancora mi ricordavo del sangue ... scossi la testa. Come facevo a spiegargli che tutte le decisioni sbagliate le avevo prese solo perché fondate sul terrore e sulla paura?
Come potevo spiegargli che avrei preferito saperlo smemorato per sempre, piuttosto che vivere con il terrore che lo rifacesse?
« L'ho fatto per il tuo bene »
Mormorai alla fine, abbassando lo sguardo sul caffè macchiato che non avrei mai bevuto.
« Mi hai detto che non avevo nessuno nella mia vita per il mio bene » Ripeté Wakatoshi con voce atona « Mi hai fatto credere di essere una persona normale, con un passato comune, per il mio bene » Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non trovai le parole.
Si, l'ho fatto. Ho costretto Tooru ad uscire dalla tua vita perché non volevo ricordassi.
Non volevo che rivivessi quell'inferno.
La colpa. Il dolore. Meglio l'oblio, piuttosto.
« È stato per mia volontà, Wakatoshi »
Intervenne Tanji, arrivando in mio soccorso.
Wakatoshi spostò quel suo sguardo mostruoso su di lui. Freddo. Vuoto.
Tutto quello che non era stato in quei tre anni.
« Ho chiesto io a Satori di mentirti. Se avessi saputo la verità, tutta la verità - non mi riferisco alla natura dell'incidente -, avresti potuto subire un trauma peggiore di prima. Volevo che tu ricordassi gradualmente »
Non è vero, pensai. Non era stata un'idea di Tanji.
Almeno, non quella di far uscire Tooru dalla sua vita. Ero stato io a chiederglielo.
Perché avevo sempre creduto che fosse lei la causa di tutte le sofferenze del mio migliore amico. Mio fratello non di sangue.
Me l'ero presa con lei e la volevo fuori.
Tooru, che mi aveva chiamato poco prima per avvisarmi, probabilmente.
« Ma non ho ricordato niente. Finché Tooru non è rientrata nella mia vita »
Lo stroncò Wakatoshi, tornando a guardare me. Io mi passai una mano nel colletto della camicia, tirando leggermente la stoffa.
Mi sentivo soffocare in quel bar grazioso.
« Siete stati voi ad allontanarla? »
« Wakatoshi, tu non eri in grado! » Intervenni con urgenza, quasi in lacrime « Hai tentato di ucciderti! Questo te lo ricordi?! »
« Satori » Mi rimproverò Tanji, prendendomi una braccio con la sua mano rugosa ma ferma. Wakatoshi mi fissò atono.
« Me lo ricordo » Si limitò a rispondere.
Io strinsi il pugno della mano destra.
« Non volevo che lo rifacessi di nuovo! »
« E in che modo Tooru avrebbe potuto influire sulla cosa? Averla al mio fianco anche in questi tre anni, così che fosse più facile »
« Tu non capisci! » Sbraitai, attirando lo sguardo di qualche curioso all'interno del locale « Tooru non poteva starti accanto! Con quel gesto tu l'hai distrutta! Ha gridato così tanto che si è lacerata le corde vocali, era fuori di testa, Wakatoshi! Matta! Tu - »
« Satori! » Scattò Tanji e io tacqui.
Ero un disastro annunciato. Un mostro.
Lo ero davvero, come mi dicevano quando era solo un bambino. Un mostro incompreso.
Incapace di provare amore o empatia.
Feci un sospiro e mi portai un pugno della mano in fronte, premendo con forza.
« Eppure è stata lei a cercarmi. Mi ha cercato, perché aveva bisogno di me. Senza dirmi niente, senza chiedere »
Spostai il pugno e guardai Wakatoshi, arreso.
« Abbiamo pensato solo al vostro bene ... » Mormorai di nuovo, ma non ne ero convinto.
Non sapevo nemmeno quello che dicevo.
« Satori » Mi chiamò Wakatoshi e io sollevai la testa di scatto « Che cosa hai provato ogni volta che ti venivo a dire che andavo a letto con una donna diversa sapendo che Tooru era da qualche parte a piangere i nostri figli, me, da sola? »
Il cellulare di Wakatoshi, sul tavolino, prese di nuovo a squillare.
Lui non lo guardò nemmeno, mentre io mi sentivo un po' morire di vergogna dentro.
« Hai provato un po' di senso di colpa? »
« Wakato - » Lui ebbe uno scatto nervoso, che mi zittì.
Buttò a terra il piatto con le petite madeleine.
Al bar tutti si voltarono a guardarci, i camerieri si fermarono, sorpresi.
Io deglutii.
« Dove sono? » Trasalii quando lui parlò di nuovo. Non capivo che cosa intendesse.
« Chi - » Provai a balbettare.
« I miei bambini. Dove sono? »
Non risposi, non ce la feci. Non potevo.
« Al cimitero fuori città. Tooru li ha fatti seppellire lì » Fu Tanji ad intervenire, sereno.
Wakatoshi non aggiunse altro, si alzò.
Prese il telefono e proprio mentre si avvicinava il cameriere - palesemente in difficoltà -, se ne andò passandoci accanto.
Io tentai di fermarlo, ma mi mancò la voce.


Avevo molti rimpianti nella vita e lungo la strada due o tre decisioni sbagliate.
Prese tutte per amore.


Sperai solo che lungo quella strada qualcuno potesse perdonarmi. Chiunque.

 
- Wakatoshi -


Erano insieme, nella stessa lapide.
Tooru aveva scelto un bel colore, marmo bianco, con qualche venatura di grigio e nero.
Circondata dal verde degli alberi e dai colori dei fiori circostanti. Avevo sempre pensato fosse una sorta di contraddizione la pace che emanavano quei posti.
Per chi restava vi era solo il dolore, eppure.
Osservai il nome di mio figlio e la data troppo breve della sua esistenza, davvero troppo breve perché potesse essere accettata. E quella ancora più breve di suo fratello, che nemmeno era venuto al mondo.
Era strano il modo in cui i ricordi erano tornati ad occupare quegli spazi vuoti della mia mente. Avevo sempre immaginato quelle scene da film, dove avrei rivissuto un trauma terribile, sarei crollato sul pavimento con la testa tra le mani.
Non era stato affatto così.
Era stato piuttosto come chiudere e riaprire gli occhi. Prima non c'era niente, poi tutto.
E stavo ancora ricordando, lentamente.
Ricordavo alcune cose mentre le vedevo o le pensavo, per puro caso.
Per esempio, mi ricordai di come avessimo avuto paura di non poter avere un altro figlio.
Akihiko aveva solo due anni quando avevamo cominciato a provarci.
Il suo parto era stato difficile, lui era vivo per miracolo e anche Tooru.
L'idea di rivivere quell'incubo ci terrorizzava, ma volevamo un altro bambino.
E lui era arrivato un anno dopo, con gioia.
Avevamo appena scoperto il sesso: maschio.
Io volevo una bambina.
Tooru mi aveva detto che il terzo tentativo sarebbe stato quello buono.
La lapide era pulita, curata, i fiori freschi.
Questo sabato non ci sono, ho un impegno.
Mi tornarono in mente le parole di Tooru, quelle che mi aveva rivolto qualche volta in questi mesi in cui si eravamo frequentati.
Allora non lo sapevo. Non ricordavo ancora.
Lei veniva qui. Qui, dai nostri figli.
Tooru. La mia Tooru. Mia moglie.
Mi misi a sedere sul bordo della lapide, fredda.
Allungai le dita tremanti verso il nome di mio figlio, lo accarezzai appena.
Avevo voluto dimenticarmi di loro.
Avevo voluto dimenticare tutto.
Non volevo ricordare. Ero scappato.
Ma ora ricordavo tutto. Ogni cosa.


Mi ero distratto per un secondo, solo un secondo.
Il cervo era spuntato sulla strada inaspettatamente, per scansarlo avevo sterzato e la macchina si era ribaltata. La caduta mi era sembrata infinita.
I vetri mi avevano tagliato in più punti, avevo un pezzo di metallo conficcato nella coscia, zoppicavo, ma stavo relativamente bene.
Scesi dalla macchina fumante, lo ricordo.
Mi girava la testa, sentivo il corpo in fiamme.
Ma avevo chiamato Tooru e non mi aveva risposto, e Akihiko non piangeva.
Non riuscivo nemmeno a vederlo, perché il tettuccio della macchina si era sfondato.
« Tooru » Avevo chiamato, spalancando la portiera dal suo lato del passeggero.
Lei mi aveva guardato, ma non riusciva a parlare. Almeno era viva, avevo pensato.
I suoi occhi intelligenti, grandi, bellissimi erano spalancati dal terrore, pieni di lacrime.
Avevo visto la sbarra conficcata nel suo ventre, le sue mani scivolose che la stringevano, il sangue che le colava dappertutto. Mi avevano ceduto le gambe.
Mi ero aggrappato alla portiera per non cadere.
« Va - va tutto bene. Chiamo i soccorsi »
Le avevo detto, cercando il cellulare nella tasca dei pantaloni, lei piangeva. Forte.
Il cellulare era solo graffiato, prendeva.
Avevo chiamato, stringendole la mano sporca di sangue fresco, inginocchiato nell'erba.
La macchina era rotolata alla fine di un dirupo. Non sapevo dove.
Dall'altro, qualcuno che ci aveva visto cadere gridava, chiamava.
Ma io stringevo solo la mano di Tooru, cercando di spiegare quello che ci era successo.
« A-Aki- Akihiko » Aveva rantolato lei.
Io mi ero precipitato dietro, avevo cercato di farmi strada, ma non ci riuscivo.
La gamba bruciava, il corpo bruciava, gli occhi.
« Akihiko! Akihiko, sono papà! Akihiko! »
Lui non si era lamentato, non aveva risposto.
Io ero caduto nella disperazione.
Zoppicando ero tornato da Tooru.
Lei aveva chiuso gli occhi, la testa rovesciata all'indietro, come se stesse dormendo.
Aveva perso molto sangue.
« Tooru! Tooru no! Sveglia! » Le avevo preso il viso tra le mani, l'avevo scossa violentemente. Lei aveva sollevato le palpebre a fatica, febbricitante.
Si era portata una mano lenta e tremante sotto il ventre.
« Non lo sento » Aveva mormorato e io sapevo.
Sapevo che stava parlando del bambino, del suo corpo.
L'avevo stretta tra le braccia, senza farle male. Lei era scoppiata di nuovo a piangere.
I soccorsi erano arrivati dopo ore.


Ricordo tutto il resto in maniera confusa.
Le cure mediche, le urla, la gente che arrivava di corsa. Io che mi agitavo per raggiungere Akihiko e Tooru. La notizia del decesso del bambino, quella della isterectomia di Tooru.
Il suo ginocchio distrutto.


Ci avevo provato. Davvero.
Ci avevo provato a non farmi spezzare dal senso di colpa. Ci avevo provato.
Ci avevo provato ad aiutare Tooru quando non mangiava, non parlava, e non si muoveva.
L'avevo presa di peso e ci avevo provato.
Non mi ero lamentato, ci avevo provato.
Fino a quando poi non ci avevo provato più.
Ho ucciso i miei figli.
Era il pensiero fisso nell'angolo della mia mente. Ero stato io. Mi ero distratto io.
Guidavo io quella macchina. Ero io.
Dovevo esserci io sottoterra, non loro.
Ero io. Io. Io. IO. IO. IO.
Non avevo pensato a Tooru quando lo avevo fatto. Non avevo pensato a lei.
Avevo pensato a me e a come fare per uscirne fuori.
Per lasciarmi quella sofferenza alle spalle, quella colpa, perché non sapevo come avrei potuto sopravvivere.
Non avevo pensato a lei mentre ingerivo quelle pillole, in piedi nella vasca da bagno.
Doveva essere successo a quel punto.
Dovevo aver perso la memoria allora.


« Non ho pensato a vostra madre »
Mormorai, tornando al presente.
« Lei sarebbe dovuta essere il mio unico pensiero, ma ho preferito dimenticarla. Dimenticare voi » Tolsi le dita dalle fredde incisioni nel marmo, strinsi il pugno.
« Lei però non mi ha dimenticato. Anche quando sarebbe stato più semplice lasciare andare ... » E quello mi scaldava il cuore.
Era l'unica cosa che mi dava pace.


Ho un conto aperto con il passato, che pagherò io, perché il tuo futuro non sia un inganno.


Ero andato per chiederle delle spiegazioni, ma ormai non ne avevo più bisogno.
« È ora di tornare a casa »

 
- Tooru -


Wakatoshi mi aveva chiamata prima che potessi davvero uscire fuori di testa.
Ero in Biblioteca, a piangere disperata tra le braccia di Shouyou.
Lo avevo cercato, ovviamente, andando fin dove le mie gambe potevano portarmi.
Il ginocchio mi stava dando il tormento.
La sua voce al telefono mi era apparsa serena. Ero corsa a casa, zoppicando.
E mi trovavo ormai di fronte a quella porta aperta - Wakatoshi doveva essersi ricordato dove tenevamo il paio di chiavi di riserva, che io non avevo mai toccato.
Entrai senza esitazione, con il fiatone.
Lui era seduto sul divano, con la foto tra le mani. Mi fermai, una mano sul cuore.
« Wakatoshi » Lo chiamai, distrutta.
Lui sollevò lo sguardo. Mi guardava in un modo ... avevo davanti un uomo consapevole.
Avevo davanti di nuovo mio marito.
« Tooru » Mi chiamò semplicemente, e mai sentire il mio nome dalla sua bocca, pronunciato in quel modo, mi aveva toccato così tanto il cuore.
Presi un respiro profondo e mi resi conto che non respiravo tanto liberamente da anni.
Da quando avevo preso la sua testa insanguinata tra le mani e mi ero imbrattata tutta del suo sangue. Mi avvicinai al divano zoppicando, e mi misi seduta sul bracciolo, accanto a lui.
Entrambi guardammo la fotografia della nostra famiglia felice, quella famiglia che non avevamo più. Noi eravamo gli unici pezzi rimasti, quelli rotti e malandati.
Intrecciai le mani tra le cosce, tra le pieghe del vestito che non avevo nemmeno cambiato quando ero uscita a cercarlo.
Dovevo sembrare una pazza. Forse lo ero.
Forse lo ero diventata tra quella caduta nel vuoto e quella vasca scarlatta.
Wakatoshi posò la foto accanto a se, sul divano, poi si chinò nella mia direzione e seppellì la testa nel mio grembo.
Io non esitai nemmeno a liberare una mano e passargliela tra i capelli a me familiari.
« Perché non mi hai lasciato perdere? »
Mormorò, e la sua voce mi vibrò dentro.
« Perché non mi hai lasciato indietro dopo quello che ho fatto? »
« Perché la nostra vita era bella. E non volevo perderla per quel solo istante di immenso dolore » Sorrisi appena, amaramente, mentre gli accarezzavo la testa in modo rassicurante « E poi, tu sei ancora qui. Noi due siamo ancora qui »
Ed era semplice, era poca cosa. Era banale.
Avrei potuto avere mille ragioni per voler morire: Wakatoshi era l'unica per cui vivevo.
Era l'unica per cui non ero impazzita.
« Scusami, amore. Mi sono arreso » Lui aveva la voce soffocata mentre pronunciava quelle parole, io mi chinai in avanti per baciargli la testa. Lo strinsi.
« Si è solo interrotta la strada, abbiamo ancora tempo » Sussurrai, cullandolo come se fosse un bambino « Abbiamo ancora tempo per ricominciare da dove ci siano fermati: piangere i nostri figli insieme » Wakatoshi annuì contro il mio grembo e non parlammo oltre.
Non aggiungemmo parole.
Rimanemmo così per un po', abbracciati.
A piangere insieme, perché lo avevamo fatto poco.



 
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.


( Natalia Ginzburg - Memoria )
  
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