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Autore: Adeia Di Elferas    02/03/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella stava rileggendo una delle lettere – destinate in realtà a suo marito Francesco – in cui si parlava dell'assedio che il Valentino stava portando a Ceri. Si occupava lei di quel genere di corrispondenza sia perché si riteneva maggiormente in grado di suo marito, il Marchese di Mantova, di comprendere i fini giochi politici di quel periodo, sia perché voleva tenersi impegnata per non pensare a cose che l'angustiavano molto di più.

L'Este aveva sempre di più il sospetto di essere incinta e la cosa, di per sé, non la metteva di cattivo umore, anzi, la speranza di partorire, nell'arco di qualche mese, un altro maschio le avrebbe tolto molti crucci. A ventinove anni avere solo due figlie femmine e un unico maschio la metteva in difficoltà. Se fosse successo qualcosa al suo Federico, chi avrebbe ereditato il marchesato?

Il riavvicinamento che aveva portato al concepimento della nuova vita che quasi per certo cresceva dentro di lei, non a caso, era stato frutto solo in parte di un desiderio spontaneo di riavere il Gonzaga per sé. Il calcolo, nel suo cercarlo, era stato preponderante e, assieme a quello, c'era stato il desiderio di riaffermare la propria superiorità rispetto alla cognata Lucrecia, la cui bellezza e giovinezza sembravano aver fatto breccia anche in Francesco.

Mettendo da parte la lettera che stava cercando di rileggere, la donna si premette una mano sulla fronte, sentendo un crampo allo stomaco. Possibile che fosse più gelosa di Pietro Bembo che non di suo marito Francesco?

Era possibile, possibilissimo... Specie perché il Gonzaga, appunto, era tornato a lei, negli ultimi mesi, dimostrandosi ben felice di accorciare di nuovo le distanze tra loro. Il Bembo, invece, aveva avuto il coraggio, in gennaio, di rifiutare il ritorno a Mantova che lei aveva cercato di imporgli.

L'Este aveva scritto a Pietro – e anche allo Strozzi, ma solo per gentilezza – di raggiungerla presto, avendo grande bisogno di vederlo. Il religioso, però, aveva risposto in modo netto, dicendole che non poteva lasciare Ferrara, perché troppe cose lo tenevano impegnato lì.

Da allora Isabella non aveva fatto altro che ardere di gelosia, ben sapendo quel che si diceva, ossia che Bembo fosse stato fulminato dall'infida bellezza della Borja, dalla sua finta innocenza e dai suoi modi da strega... Con che coraggio quell'uomo l'aveva rifiutata, pur di stare accanto a Lucrecia..?

Asciugandosi una lacrima di rancore e frustrazione, la Marchesa di Mantova si accigliò, sentendo dei passi di qualcuno alle sue spalle.

“Che ci fai qui?” chiese, vedendo Francesco che, come suo solito, avanzava nello studiolo come un pesce fuor d'acqua, quasi avesse paura dei libri e degli oggetti preziosi ivi custoditi.

“Il re di Francia mi ha riconfermato come suo vassallo.” disse l'uomo, chinando appena il capo: “E io ho appena dato disposizione per far partire centocinquanta dei miei stradiotti nel regno di Napoli... Per contribuire allo sforzo bellico.”

“Era ora che ti desse via libera...” sbuffò lei, che era stata la vera molla che aveva portato il Marchese a far di tutto pur di rientrare ancora una volta nelle grazie di re Luigi.

Siccome l'uomo restava immobile, osservandola da una debita distanza, dopo qualche secondo l'Este si infastidì e gli chiese cos'altro volesse.

“Mi chiedevo se ti andasse di passare un po' di tempo insieme...” fece lui, con tono burbero, rendendosi subito conto di aver avuto una pessima idea.

La moglie sollevò lo sguardo severo verso di lui e poi, indicando la corrispondenza che aveva davanti a sé, ribatté: “Il Valentino ha preso d'assedio Ceri, Venezia non ha licenziato il Baglioni, segno che il Doge ha in mente qualcosa, e tutta Italia è un gran calderone... E tu mi chiedi se ho voglia di passare del tempo con te?”

Il volto asimmetrico del Gonzaga si contrasse in un'espressione contrariata e poi, sollevando entrambe le mani, l'uomo ribatté: “Hai ragione, non posso distoglierti dai tuoi impegni, altrimenti l'Italia intera sprofonderà, se non ci sarai tu a sorreggerla...”

Isabella non controbatté oltre, benché avesse già per la mente cosa dire e come. Le interessava solo essere lasciata in pace, per pensare, per crogiolarsi nella gelosia e nella rabbia che provava per colpa del Bembo...

Capendo che non sarebbe riuscito a strapparle nemmeno una parola in più, il Marchese si allacciò le mani dietro la schiena e, sospirando, lasciò lo studiolo, chiedendosi come fosse possibile che un condottiero come lui, abituato a comandare un intero esercito, si trovasse così piccolo e indifeso dinnanzi a una donna come sua moglie.

 

“Fai sempre i tuoi esercizi?” chiese Caterina, guardando Galeazzo con attenzione.

Il ragazzo annuì e confermò: “Tutti i giorni.”

“Anche se ti piacerebbe poterti muovere un po' di più, immagino...” sospirò la madre, le mani l'una nell'altra, in grembo, in una posa che poco si addiceva a una donna come lei.

L'immobilità che governava buona parte della vita alla villa di Castello la stava annichilendo come, temeva, stava facendo anche con i figli che ancora vivevano con lei. Galeazzo, in particolare, a diciassette anni compiuti avrebbe avuto bisogno non solo di affinare le sue abilità con le armi e a cavallo, ma anche di avere una vita sociale degna di tal nome, di conoscere il mondo e i suoi meccanismi, di divertirsi... Invece diventava ogni giorno più compito e misurato, e, malgrado fosse vero che si esercitava costantemente, stava perdendo tempo prezioso per impratichirsi e tenersi aggiornato sulle tecniche militari più moderne.

Ma cosa avrebbe potuto fare la Leonessa, per permettergli di fare di più? Poteva fidarsi a mandarlo alla corte di qualcuno? E se sì, di chi? Avrebbe dovuto spedirlo al nord assieme a Ottaviano, per capire se fosse bravo come mediatore e diplomatico..?

E poi – questo impensieriva più di ogni altra cosa la Tigre – Galeazzo sarebbe mai riuscito a mettere in pratica qualcosa di quello che aveva imparato nel tempo? Avrebbe avuto un futuro degno di lui?

“So che non è molto – fece Caterina, con un sospiro, mentre il figlio stava ancora ritto davanti a lei, in attesa di consegne – ma se vuoi, più tardi posso raccontarti qualcosa sulla carica a cavallo... Ora immagino che ci siano già nuove strategie... Ma posso spiegarti quello che ho imparato io...”

Il Riario, che più di tutto voleva passare del tempo con la madre, oltre che apprendere da lei il più possibile, annuì subito: “Con molto piacere.”

“E magari discuteremo anche di questo assedio a Ceri di cui ci hanno dato notizia...” soffiò lei, indicando una lettera abbandonata sulla scrivania, arrivata quel giorno niente meno che da Forlì, dove, inaspettatamente, i suoi partigiani si stavano facendo ogni giorno più numerosi e più decisi a spalleggiarla in caso di bisogno.

Probabilmente proprio pensando a quell'ultima verità, che non era sfuggita alla mente agile e pronta di Galeazzo, il ragazzo si schiarì la voce e chiese: “Parleremo anche del futuro? Insomma, dei vostri progetti per Imola e Forlì?”

“Sì, sì, ne parleremo.” confermò la donna, con una certa cupezza, ben sapendo quanto la questione fosse difficile e quanto, di fatto, coinvolgesse suo figlio che, nel suo pensiero, restava il suo grande erede, almeno su quel fronte.

Il Riario stava per ringraziarla e per chiederle se anche Bernardino potesse unirsi a loro, dato che in quei giorni era di nuovo molto nervoso, quando frate Lauro entrò nella saletta, portando con sé una lettera.

“Da Roma.” disse lui, senza aggiungere altro, con il suo solito sorrisino dipinto sulle labbra.

La Sforza prese il messaggio e poi, mentre lo apriva, con un filo d'ansia, chiese a Galeazzo, con distrazione: “Pier Maria è con la balia o con Bernardino?”

“Con Bernardino.” rispose prontamente il Riario.

In effetti il Feo passava molto tempo con il nipote. Da un lato gli ricordava i momenti in cui aveva potuto giocare e prendersi cura di Giovannino neonato e dall'altro lo teneva impegnato, distogliendolo un po' dalla propria innata inquietudine.

Caterina fece un breve sospiro e si immerse nella lettura, quasi che Galeazzo non fosse più lì con lei. La lettera era autografa di Bianca e, per quanto molto breve, era anche molto rassicurante.

Le diceva che era andato tutto bene, senza scendere in alcun dettaglio, e che ora lei e il marito si erano stabiliti nel palazzo 'del Cardinale cugino nostro'. La Tigre nel leggere ciò sollevò un sopracciglio, pensando che quel palazzo era mille volte più di sua figlia Bianca che non di Raffaele Sansoni Riario. La giovane poi si chiedeva quanto ancora avrebbero dovuto sopportare Roma, confidando, comunque, di poter raggiungere presto l'Emilia.

Faceva anche un cenno particolare a fatto che 'entrambi' stessero bene e alla Sforza bastò poco per capire che non si riferiva a se stessa e a Troilo, ma a se stessa e al bambino che portava in grembo.

Una volta di più, insomma, sua figlia le faceva capire che la gravidanza non era più solo un sospetto, ma una certezza e che comunque, malgrado le difficoltà che avrebbe comportato, lei ne era felice.

Bianca chiudeva chiedendo notizie del 'cucciolo', e anche questa volta alla madre fu sufficiente una frazione di secondo per capire chi fosse il cucciolo di cui si parlava, ossia Pier Maria.

La Sforza avrebbe voluto dedicarsi immediatamente alla stesura di una risposta a quella lettera che, nel profondo, le aveva scaldato il cuore. Malgrado tutte le perplessità che ancora nutriva nei confronti della delicata situazione di sua figlia – non l'avrebbe ritenuta in salvo finché non l'avesse saputa lontana dai Borja – poteva riconoscere nel suo messaggio una felicità pura e concreta, e tanto le bastava per essere a sua volta felice.

Tuttavia sapeva che se avesse messo subito mano alla penna, probabilmente si sarebbe lasciata andare a più parole di quante non fossero necessarie, quando, per ora, voleva restare stringata e fare molta attenzione ai panegirici usati per rispondere con altri sottintesi ai sottintesi della figlia.

Perciò, soprattutto per darsi il tempo di ponderare una risposta che fosse precisa, stringata e di difficile comprensione per un eventuale intercettatore, la donna guardò Galeazzo, che restava in attesa e disse: “A Roma tutto a posto, tua sorella sta bene ed è andato tutto bene...”

Il ragazzo sorrise, rinfrancato da quella bella notizia, e fece solo un breve commentò riguardo al fatto che Bianca si meritava ogni bene.

“Parliamo adesso, di Imola e Forlì.” decise, repentinamente, la Tigre.

Nulla, pensava, più di quello avrebbe distratto la sua mente e, dopo aver sviscerato a fondo quell'annosa questione, avrebbe potuto dedicarsi alla risposta per Bianca senza più quel ribollire frenetico che le ingarbugliava lo stomaco.

Il Riario annuì subito e, invitato dalla madre, si sedette davanti a lei, e lasciò che fosse lei a iniziare il discorso. Caterina fece una rapida carrellata della situazione generale e poi passò a elencare i loro possibili sostenitori, i loro maggiori detrattori, i metodi a cui aveva pensato per procurarsi armi e soldi, e le strategia a suo avviso migliori per tirare la popolazione romagnola dalla loro parte.

“Certo – concluse, dopo che Galeazzo ebbe fatto qualche domanda puntuale su questa o quella criticità – sarà necessario trovare qualcuno di capace e, soprattutto, di motivato, per guidare l'esercito... Non posso affidarmi a un mercenario. E io... Non credo di essere più in grado di mettermi alla testa dei soldati... Senza contare che non me lo permetterebbero, immagino.”

Era difficile dire se la Leonessa si riferisse ai Borja, ai francesi o direttamente ai forlivesi e agli imolesi, ma a Galeazzo poco importava. Ciò che gli premeva era altro.

Lui per primo non desiderava che la madre tornasse in guerra. Era invecchiata, era più fragile e lui non avrebbe sopportato di saperla in pericolo, contando, anche, che sarebbe stata una preda tanto ambita da doversi guardare le spalle il doppio di una qualsiasi generale.

Ciò che gli premeva era farle capire che lui c'era e ci sarebbe sempre stato, ma prima ancora che potesse dire una sola parola, la donna si sporse un po' verso di lui e gli posò una mano sulla sua, chiedendo, con una serietà che quasi lo spaventò: “Se ci fosse una possibilità... Se venissimo nelle condizioni di provarci, intendo di provarci davvero... Tu saresti pronto, ma nei fatti, bada bene, non a parole... Saresti davvero, davvero pronto a prendere le armi per me?”

Sentendo uno strano formicolio in tutto il corpo, percependo l'entità della promessa che stava per fare, il Riario chinò appena il capo e rispose: “Sì.”

Caterina, data la solennità della risposta, non si sentì in dovere di aggiungere altro. Aveva sempre saputo che Galeazzo, tra tutti i suoi figli, era quello più ligio al dovere e, soprattutto, più adatto a quel genere di carriera. Le spiaceva solo non essere riuscita a offrirgli uno Stato in eredità, come avrebbe meritato, e di dovergli chiedere un sacrificio come quello che lui aveva appena accettato.

Anche se era certa, nell'intimo, che suo figlio sarebbe stato bravo e capace, sapeva anche che iniziare da una campagna così complicata sarebbe stato complesso e rischiosissimo. Poteva davvero permettersi di perdere un figlio per quel motivo?

La donna si stava ancora ponendo quella domanda, quando il Riario, dopo essersi morso le labbra, chiese: “Non credete che vorrà farlo Ottaviano?” prese fiato un istante e precisò: “Io voglio servirvi come posso, ma conosco mio fratello...”

La Leonessa si fece pensierosa. In effetti era plausibile che il suo primogenito avrebbe voluto quel ruolo per sé, ma solo se fosse stato certo di ottenere soldi, onore e cariche senza dover scendere davvero in prima fila contro il nemico...

“Non permetterò mai che Ottaviano guidi il mio esercito.” tagliò corto lei: “Se mai ci capiterà di avere un'occasione per riprenderci quello che è nostro, sarà un'occasione unica e non intendo sprecarla dando l'incarico a quell'incapace di tuo fratello.”

“Però adesso c'è lui al nord, a occuparsi della diplomazia...” fece notare il Riario, con un velo di risentimento che stupì la madre.

“L'ho mandato al nord solo per non averlo qui.” gli spiegò, accigliandosi, incredula nell'accorgersi che Galeazzo avesse avuto la sensazione di essere stato scavalcato: “Di fatto in Emilia sta solo spendendo denaro che non ha in donne, vino e vizi di ogni genere... Ma finché non combina disastri troppo grandi, meglio averlo là che qua.”

Galeazzo annuì un paio di volte e poi chiese, colto da un dubbio quasi puerile, ma che gli toglieva il fiato: “Siete davvero sicura che io sarei in grado di guidare il vostro esercito?”

Nelle sue parole c'era un'intonazione molto particolare. Il giovane non stava chiedendo alla madre se lo ritenesse capace di guidare un esercito e basta. Le stava chiedendo se lo ritenesse in grado di guidare il suo esercito, come se quel dettaglio facesse tutta la differenza del mondo.

Accarezzandogli la guancia un po' ruvida per via della barba che iniziava a crescere via via sempre più fitta e veloce, Caterina guardò con un sorriso il figlio e gli disse: “Sì, sono sicura.”

Quella conferma fece sì che nel petto di Galeazzo scoppiasse un putiferio di orgoglio, misto a intraprendenza e voglia di mettersi alla prova. Pur non dando a vedere l'agitazione che lo stava prendendo, quando la madre lo congedò, il ragazzo era ancora carico come il bocchettone di una spingarda e, nel raggiungere la sua stanza, non si trattenne dal fare qualche tratto di corsa.

Era quasi a destinazione, quando sentì dei passi e, per non farsi riprendere da nessuno, essendo sempre considerato pacato e misurato in ogni suo gesto, rallentò, cercando anche di calmare il respiro. Non poteva far nulla per le guance imporporate, ma sperava che chi stava arrivando dietro l'angolo non gli facesse comunque troppo caso.

Quando si trovò pressoché dinnanzi alla serva che tanto spesso aveva guardato da lontano, sospirando per lei, si trovò a schiudere le labbra, quasi per dire qualcosa.

La giovane, il cui sguardo tradiva indubbiamente una maggior dimestichezza di quella che aveva lui con la vita, lo fissò per qualche istante e poi, siccome lui restò in silenzio, andò oltre senza dir nulla.

Il Riario rimase immobile qualche istante, la bocca asciutta e il cuore che batteva impazzito. Si chiese dove fosse finita tutta la sua baldanza, tutto il coraggio che aveva sentito scorrere nelle vene fino a poco prima... Mentre riprendeva a correre, questa volta per scappare da se stesso e dall'imbarazzo che provava, il Riario si diede da solo del codardo.

'Come potrei guidare un esercito – si chiese, angosciato, mentre si chiudeva in stanza – se non riesco nemmeno a salutare una donna che mi piace..?'.

 

“Voi siete mio zio, siete il fratello di mia madre... Questo legame dovrà pur valere qualcosa...” la voce di Maria Giovanna Della Rovere era poco più di un sussurro, ma Guidobaldo Maria da Montefeltro la sentiva anche troppo bene.

Era rimasto perplesso quando la nipote aveva chiesto di vederlo e lo era stato ancora di più quando il suo uomo di fiducia, Giovanni Andrea Bravo, si era volontariamente messo in mezzo per fargli pressioni affinché accettasse quell'incontro facendolo passare come un suo desiderio al fine, aveva detto il soldato, di non suscitare scomode domande da parte della suocera della donna, ossia Giovanna Malatesta.

“Nipote mia...” disse Guidobaldo, accigliato, mentre la giovane restava immobile davanti a lui, occhieggiando di quando in quando verso Bravo, la cui presenza era stata richiesta espressamente dalla Della Rovere: “Capisco il vostro desiderio di ricongiungervi a vostra madre, ma...”

La madre di Maria Giovanna, ossia Giovanna Montefeltro, aveva da poco trovato rifugio a Mantova, lasciando invece che il figlio, Francesco Maria, proseguisse in direzione della Francia, dove, sembrava, avesse paradossalmente trovato rifugio alla corte di re Luigi, assieme ad altri giovani rampolli in difficoltà, come i fratelli Foix, Gaston e Germaine, rimasti da poco orfani.

“Vi prego... Qui con mia suocera sono destinata all'oblio e alla disperazione...” implorò di nuovo Maria Giovanna, arrivando a giungere le mani.

La richiesta della Della Rovere, però, di riunirsi alla madre a Mantova, suonava ancora strana al Montefeltro. C'era qualcosa, in quella preghiera disperata, che non lo convinceva affatto.

“Dovete capire che la situazione è molto complicata e non potrei garantirvi di arrivare sana e salva a destinazione...” provò a dire l'uomo, sempre più in difficoltà: “L'Italia è tutto un fermento e nessuno sa cosa ne uscirà... Vi basti pensare che il Doge non ha nemmeno voluto concedere il congedo a Bartolomeo d'Alviano: significa che teme di doversene avvalere a breve... Il Trivulzio, minacciato a Milano dagli svizzeri, ha sabotato le sue stesse artiglierie nascoste a Mesocco per paura che cadessero in mano degli stranieri... Per non parlare di quel che sta succedendo a Ceri!”

“Che sta succedendo, a Ceri?” questa volta a parlare era stato Bravo, che, facendo un passo avanti, si era tolto dal suo cono d'ombra e fissava in ansia il Montefeltro.

Guidobaldo Maria sospirò e rispose: “Il Valentino è corso là a dare manforte al suo luogotente, il Corella... Con loro ci sono anche Ludovico della Mirandola e Ugo di Moncada... Sembra che per far cadere le difese guidate da Giulio Orsini, il Duca di Valentinois abbia chiamato presso di sé il Maestro Leonardo, quello che viene da Vinci, per capire come prendere la città senza sprecare inutilmente uomini e armi...”

Il silenzio che seguì a quel breve resoconto non avrebbe avuto nulla di strano, se non fosse stato per lo sguardo in tralice che Bravo e la Della Rovere si scambiarono. Il Montefeltro lo notò all'istante e altrettanto in fretta cominciò a sudare freddo.

Poteva essere vero..? La sua fantasia era troppo vivace o, semplicemente, quell'occhiata svelta e clandestina l'aveva appena aiutato a mettere assieme tutti gli indizi raccolti in quelle settimane?

“Andreste a Mantova da vostra madre, se vi ci mandassi senza di lui?” chiese Guidobaldo alla nipote, indicando il veronese con l'indice.

Maria Giovanna sbiancò e il soldato fece per dire qualcosa, ma il Montefeltro zittì entrambi, prima che potessero dire troppo.

“Non voglio sapere nulla.” affermò, improvvisamente livido in volto: “Voglio solo che nessuno mai ne sappia nulla... Se avete un briciolo di intelligenza in quelle teste, sapete cosa va fatto.”

I due amanti rimasero in silenzio, fino a che la Della Rovere non provò un ultimo, accorato, tentativo: “Mandatemi da mio zio, Giuliano! Lui capirà! Mio padre era il suo fratello adorato! Non mi caccerà, mi terrà con sé e mi permetterà di sposare Andrea!”

“Quanto si vede che non lo conoscete...” ribatté mesto il vecchio signore di Urbino: “Per vostro zio, vedova come siete, valete oro... Potrebbe farvi sposare chiunque, per soldi, potere o per qualche voto in più al prossimo Conclave, quando mai ci sarà...”

“Non è vero, mio zio tiene a me.” fece, quasi con ferocia, la giovane.

“Ci tiene così tanto che se non fosse stato per me – le fece presente il Montefeltro, gli occhi inespressivi che puntavano dritto in quelli di lei – voi sareste morta assieme a vostro marito Venanzio chissà quanti mesi fa.”

La giovane, ormai sull'orlo delle lacrime, strinse i denti e anche i pugni, ma non contraddisse in alcun modo lo zio.

Convinto di aver portato alla ragione non solo la giovane Della Rovere, che doveva essere comprensibilmente confusa, in quel periodo, ma anche Giovanni Andrea Bravo, Guidobaldo fece un respiro profondo e promise: “Io non dirò mai nulla di quello che ho saputo oggi, nulla di voi, né di nient'altro, ma da questo momento in poi sta a voi due far sì che questo scivolone non diventi un problema...”

I due innamorati annuirono all'unisono e poi il soldato ebbe il coraggio di chiedere: “Posso restare a servizio a casa di Giovanna Malatesta?”

La domanda era stata posta in modo intelligente, secondo il Montefeltro: in quel modo l'uomo lasciava intendere di aver sì capito che non fosse il caso di essere ancora l'amante della fresca vedova Varano, ma allo stesso tempo esprimeva il suo amore sincero nel voler continuare a proteggerla e starle vicino, benché ufficialmente al servizio della suocera.

“E sia.” concesse Guidobaldo: “Ma al primo sgarro o anche solo al primo dubbio, sarà mio dovere richiamarvi al mio servizio.”

Nessuno dei due obiettò, e quando il Montefeltro si congedò dalla nipote, si raccomandò una volta di più con Bravo affinché facesse esattamente quello che si erano detto che andava fatto.

Il soldato ribadì il suo impegno e poi scortò, com'era suo compito, Maria Giovanna fino al palazzo che era la dimora momentanea della suocera Giovanna Malatesta. Costei, com'era prevedibile, chiese alla nuora il perché della convocazione dello zio e la Della Rovere recitò benissimo la sua parte, dicendo che l'uomo aveva voluto incontrarla per metterla a parte degli ultimi spostamenti di sua madre, a Mantova, e di suo fratello, in Francia.

Con un'espressione annoiata, la Malatesta aveva commentato che, in effetti, era comprensibile tenerla informata su quel genere di cose, benché ormai lei fosse una Varavano, vedova di un Varano e madre di ben tre piccoli Varano.

Maria Giovanna si morse la lingua appena prima di aggiungere qualcosa di spiacevole e poi lasciò che la giornata lenta, inutile e noiosa – così come erano tutte le giornate lì a Venezia – scorresse implacabile verso la sera.

Sceso il sole sulle calli, come sempre, in barba alle reprimende di Guidobaldo Maria da Montefeltro, Giovanni Andrea Bravo scivolò silenzioso come un'ombra nella stanza della sua amata e la Della Rovere poté dimenticarsi per qualche ora ancora dei fantasmi del suo passato, dell'inutilità del suo presente e dei pericoli che incombevano sul suo futuro.

   
 
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