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Autore: Puffardella    03/03/2023    1 recensioni
L’animo umano è come la terra sulla quale è stato messo per vivere. La sofferenza a cui a volte è sottoposto si può paragonare all’incendio che travolge un campo. Dopo la furia del fuoco apparirà desolato, e vuoto, e invivibile. Invece, proprio quel trattamento gli darà nuovo vigore, lo renderà più fertile.
Allo stesso modo, solo dopo aver provato un grande dolore ci si riaccosta alla vita con rinnovato entusiasmo, perché è quando hai perso molto che capisci quanto sia importante non dare per scontato le cose che hanno il potere di renderti felice.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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È arrivato novembre, e poi anche dicembre. È notte di Vigilia. Io e Rachele abbiamo cenato dai miei suoceri. Rachele si è addormentata presto. Non era il caso di svegliarla, così l’ho lasciata dormire dai nonni, per l’ennesima volta.
E ora sono sotto casa di Marina, di nuovo. Lo faccio ogni volta che posso, ogni notte che posso. Parcheggio la macchina sotto casa sua, e passo ore interminabili nel buio della mia solitudine, Adele nelle orecchie, l’immagine di lei davanti agli occhi. Alle prime luci dell’alba metto in moto e me ne torno a casa.
È quasi un’ora che sono fermo qui. La gente rientra ora dalla messa di mezzanotte. Si muove piano nell’oscurità, in silenziosa riflessione.
Le persone sfilano davanti ai miei occhi, a volte semplici coppiette, altre volte numerose famiglie, tutti religiosamente composti.
Da uno di questi gruppi più consistenti si staccano due figure ed entrano nel cortile. Mi drizzo a sedere un po’ a disagio, come fossi stato colto in flagrante a fare chissà che azione sconcia.
La signora Angela e suo marito si avvicinano al portone. Mi lanciano diverse occhiate, parlottano un po’, poi l’uomo inizia a trafficare con la serratura del portone, mentre Angela viene verso di me.
Tolgo le cuffiette prima che bussi al finestrino, e apro lo sportello in preda ad un infantile agitazione. Cerco una scusa ragionevole da rifilarle, ma lei mi sorride compassionevole.
«Santo cielo, ragazzo mio, hai scambiato questo cortile per la tua camera da letto?»
«Signora Angela, io non…» inizio a farfugliare.
«Lascia perdere. Vieni dentro a bere qualcosa di caldo. Dobbiamo parlare…»

«Che significa andata via? Via dove?» La voce mi è uscita dalla gola in un rantolo ed è giunta alle mie orecchie con una tonalità a me estranea. Angela fa spallucce.
«Da qualche zio in Germania. Mi ha incaricato di continuare a pagare il suo affitto, fino a che continuerà a spedirmi i soldi. Semmai dovesse smettere di mandarne vorrà dire che ha deciso di non tornare più.»
Ho cercato di controllare il tremore che mi ha assalito, non so fino a che punto ci sia riuscito.
Giulio, il marito di Angela, è comparso in quel momento nella sala. Ha la mia giacca in mano, e una busta di carta. Me le porge entrambe.
«Ha detto che i soldi non li vuole, che il dipinto ti è sempre appartenuto.»
Apro la busta di carta. Dentro c’è la banconota da cinquecento euro. Niente altro, solo la banconota. Guardo la giacca, ma la rifiuto.
«E questa appartiene a lei. Rimettetela fra le sue cose…» dico. Giacca e soldi. Manca una cosa .
«Non vi ha lasciato niente altro da restituirmi… Un telefonino, per caso?» chiedo speranzoso. Loro si guardano un attimo e iniziano a fare cenno di no con la testa. E questa notizia mi riempie di speranza. Mi rimetto in piedi. Li ringrazio di cuore. Abbraccio la gracile vecchietta, stringo la mano al marito e presto sono di nuovo all’aria aperta, sotto il cielo stellato di questa fredda notte romana.
Afferro il cellulare ed effettuo la chiamata. Lo so che è tardi, lo so che potrebbe essere a letto, ma non aspetterò un istante di più a sapere...
Le mani sono sudate, le labbra mi tremano dall’emozione. E quando il cellulare dà il segnale di chiamata, quel suono mi giunge agli orecchi come la melodia più dolce e struggente che io abbia mai udito. Nessuno risponde, ma non importa. Se il telefonino è carico e acceso, vuol dire che lei è dall’altra parte, che aspettava di essere chiamata.
Questo conta. Solo questo.

Walter si è affacciato circospetto. Mi ha trovato in piedi davanti ad una scatola di cartone aperta piena a metà.
In mano ho una foto di me e Sara di oltre dodici anni fa. Ci eravamo appena conosciuti. Ero al mio secondo anno di università. Avevamo entrambi vent’anni e tanti sogni nel cassetto.
Sopra il comò c’è il suo biglietto d’addio. È aperto, senza più timore di essere letto.
Walter si fa una panoramica della stanza defraudata da tutte le immagini della figlia. Sposta lo sguardo sul foglietto spiegato, vi fa indugiare gli occhi appena un attimo, infine li posa su di me. Sono pieni di affetto, ed io sento di amare quest’uomo più che mai, in questo momento.
«Ci stavamo preoccupando. Stiamo aspettando te per il pranzo di Natale. Al telefono non rispondevi, così…» si interrompe. Resta in silenzio a lungo.
«Vuoi che ti aiuti?» mi chiede infine.
«No. Devo farlo da solo…» rispondo. Marina aveva ragione, nessuno può farlo al posto mio. Sara apparteneva a me. Gli attimi vissuti insieme a lei erano solo nostri.
È tempo che io ne viva di nuovi con la donna che amo in questo presente, e per poterlo fare devo prima riporre questi. Ma è una faccenda personale. Mia e di Sara, e di nessun altro.
Marina non potrà mai prendere il suo posto. Non ho bisogno di lei perché riempia il vuoto che mi ha lasciato Sara. Nessuno può. Quel vuoto resterà per sempre, ora lo so. E al tempo stesso Sara non può invadere il posto occupato da Marina.
Il cuore è un organo dallo spazio infinito e Marina, in questo spazio, ha trovato un angolo tutto suo, una zona riservata che appartiene solo a lei.
Desidero che vi resti a lungo. Di più, vorrei vi rimanesse per sempre. È stata la paura di perderla definitivamente che mi ha dato la forza di agire. Walter annuisce.
«Dirò agli altri che ci raggiungerai per cena» dichiara comprensivo, e se ne va. Io mi soffermo ancora un po’ sul viso di Sara. Accarezzo la superficie liscia del vetro. Ripongo la cornice nella scatola e la chiudo con convinzione, una volta per tutte.

Prima di avviarmi dai miei suoceri ho riletto il messaggio di Sara, un’ultima volta. Quelle parole resteranno sempre impresse nella mia mente e nel mio cuore, ma Rachele non dovrà mai conoscerle. Le fraintenderebbe, le procurerebbero dolore.
Sara, in quel biglietto, diceva che amarmi le era venuto spontaneo, era stata la cosa più naturale del mondo. Amare Rachele, invece, no. Non si era sentita all’altezza. Si era rifiutata di parlarmene perché sapeva che avrei provato a dirle che si sbagliava.
Con quel biglietto aveva tentato di farmi comprendere il suo stato d’animo spiegandomi che lei amava la pittura, ma non sapeva dipingere. Amare l’arte non le era servito a niente, non le aveva magicamente insegnato a farlo.
Allo stesso modo amava Rachele con tutta se stessa, ma era convinta che questo non sarebbe bastato a fare di lei una brava madre.
Aveva ragione solo in una cosa: avrei cercato di farle cambiare idea.
Alla fine del messaggio mi chiedeva perdono per il dolore che sapeva mi avrebbe inflitto, che avrebbe inflitto a tutti noi.
Mi chiedeva di stare attento alla scelta della donna che avrebbe avuto l’opportunità di crescere nostra figlia.
Mi supplicava di dimenticarla e di rifarmi una vita, perché aveva bisogno di credere che avrei trovato la forza e la volontà di guardare oltre. Solo così riusciva a sperare in un perdono da parte mia.
Lei chiedeva a me di concederle il perdono che per tutto questo tempo ho così disperatamente cercato per me. Tuttavia, cosa dovrei perdonarle? Sara soffriva di uno squilibrio ormonale, il suo non fu il gesto di una donna egoista.
Ma mentre non ho mai avuto dubbi sull’innocenza della sua terribile azione, che mai avrebbe compiuto se fosse stata in sé, nel mio caso solo leggendo il suo messaggio ho finalmente ottenuto la redenzione. Non sono stato io la causa della sua disperazione, né avrei mai potuto rendermi conto di quanto grande fosse il suo disagio. Nessuno se ne era accorto, nemmeno Amelia. Aveva saputo nasconderlo bene.
Mi sono avvicinato al camino col messaggio in mano e ho dato fuoco ad un angolo del biglietto. L’ho tenuto stretto a lungo fra l’indice e il pollice, e quando non ne è rimasto che un pezzetto non più leggibile, l’ho lasciato cadere.
E mentre quel biglietto si disgregava nell’aria in decine di sottili coriandoli carbonizzati, ho sentito nella mia mente prendere forma un pensiero, e quel pensiero uscire dalle mie labbra in un sospiro: «Addio Sara…»

Ho mandato un messaggio a Marina stasera. Le ho augurato buon Natale e le ho detto che il suo dipinto ora è nella mia camera. E che, se lo desidera, tutta la mia casa attende di essere riempita da lei. Il mio cuore lo è già.
Non mi ha risposto, non mi ero aspettato lo facesse. Volevo solo farle sapere che da questo momento in poi sono pronto ad amarla senza riserve, e che ho bisogno di lei per colmare il vuoto che la sua assenza, e non quella di Sara, ha lasciato dentro di me.
Non le manderò altri messaggi, ma continuerò a chiamarla ogni giorno, più volte al giorno, perché lei impari a fidarsi di me, perché capisca che io non le farò mai del male, obbligandola a lunghe attese davanti ad un telefono. E quando sarò riuscito a dissipare tutti i suoi dubbi e i suoi timori, tornerà da me.
Ecco perché continuo a chiamarla regolarmente, ostinatamente, fiduciosamente…



 

È passato un anno dal giorno in cui conobbi Marina. Stanotte nell’aria avverto la stessa magia di allora.
Rachele è da Monica. Spesso si ferma a dormire da lei nei fine settimana. Gioca volentieri con Veronica, sua cugina. Si vogliono bene come sorelle.
Vedere mia figlia felice mi riempie di un caldo sentimento paterno. Non è più solo un calcolato, freddo, meccanico senso del dovere che mi spinge a prendermi cura di lei. Rachele è la mia gioia e il mio conforto. Sarò presente nella sua vita non perché glielo devo, ma perché la amo con tutto me stesso. E questo miracolo lo ha compiuto Marina. Lei mi ha risvegliato dal mio torpore. Lei ha dato una scossa ai miei sentimenti. Lei mi ha riportato alla vita.
Questo sto pensando mentre attraverso il viale alberato che costeggia la ferrovia.
C’è un silenzio riposante ora che la città dorme, interrotto solo dal segnale di chiamata del telefono che tengo premuto all’orecchio.
Mi piace il suo suono. È diventato il mio appuntamento con lei. E anche se so già che non risponderà, sono altrettanto consapevole che in questo momento è da qualche parte con in mano il cellulare, e sorride con amore.
Ogni chiamata che effettuo è un passo in più nella sua direzione. Questo è il modo in cui la ricondurrò da me, lo so.
Mi fermo davanti al portone di casa sua. L’ultimo treno di mezzanotte sta ripartendo in questo momento. Chiude le porte sbuffando come al suo solito, si avvia lentamente per poi acquistare velocità, e in un attimo si allontana nella notte portando con sé cigolii e lamenti, le ultime chiacchiere della giornata, quelle che per una vita hanno fatto compagnia alla mia fatina.
Ho ancora il telefonino incollato all’orecchio e ci metto un po’ a realizzare che lo squillo che ora sento non è lo stesso che proviene dal mio apparecchio.
Lo scosto un po’ per ascoltare meglio. È lo squillo di un cellulare che taglia il vuoto d’aria che mi circonda. Riecheggia tutto intorno a me. E quando interrompo la chiamata, anche quel suono cessa di esistere.
Guardo con rinnovato interesse il portone e non mi sorprendo di trovarlo socchiuso. Sorrido, e sospiro, e sorrido.
Entro nell’androne delle scale, mentre torno a chiamare Marina. E di nuovo, insieme al mio cellulare, anche l’altro riprende a squillare.
Ormai non ho più dubbi. L’eco dei battiti del mio cuore si unisce al rimbombo dei miei passi che si affrettano su per le scale e ai cellulari che suonano all’unisono, impazienti, sempre più ansiosi.
Anche la porta di casa è socchiusa. La spingo piano per aprirla. In testa si vanno affollando mille pensieri, nel cuore un’infinità di emozioni.
Lei è lì, sopra il davanzale della terrazza, con indosso la mia giacca sulla pelle nuda, le ginocchia sollevate, le braccia intorno alle gambe.
Guarda con trasporto il cellulare che continua a suonare ai suoi piedi.
Interrompo la chiamata. Lei si volta e solleva i suoi occhi su di me. Sapeva che sarei venuto da lei, stanotte. Lei lo sapeva già.
Mi sorride raggiante. Dio, quanto mi era mancato il suo sorriso, quanto mi era mancato tutto, di lei. Mi godo questo istante un momento, prima di andarle incontro.
E mentre lo faccio, mi ritrovo a pensare che l’animo umano è come la terra sulla quale è stato messo per vivere. La sofferenza a cui a volte è sottoposto si può paragonare all’incendio che travolge un campo. Dopo la furia del fuoco apparirà desolato, e vuoto, e invivibile. Invece proprio quel trattamento gli darà nuovo vigore, lo renderà più fertile.
Allo stesso modo, solo dopo aver provato un grande dolore ci si riaccosta alla vita con rinnovato entusiasmo, perché è quando hai perso molto che capisci quanto sia importante non dare per scontato le cose che hanno il potere di renderti felice.
Quell’incendio dentro di me lo aveva già estinto lei mesi fa. Ora il campo del mio cuore è pronto per una nuova semina. Quali frutti darà, chi può dirlo? Certamente diversi da quelli che avevo ottenuto con Sara, ma questo è solo ovvio. Marina è un’altra storia. Io e lei siamo un’altra storia. Questa che sta iniziando oggi è la nostra storia, la storia di noi due, così simile a tante altre e così diversa da tutte.
Le luci della stazione si spengono in questo momento. Marina mi porge la mano.
«Vuoi vederlo un bello spettacolo?» mi dice con candore. Le vado vicino e le metto una mano sul viso, il cuore mi scoppia di felicità.
La guardo intensamente, per imprimermi bene questo momento nella mente e non dimenticarlo mai più.
Mi chino per baciarla, e prima di farlo le sussurro piano: «Lo sto facendo già.»

 
   
 
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