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Autore: ClodiaSpirit_    12/03/2023    0 recensioni
[Un Professore]
[Un Professore][Un Professore]Simone e Manuel sono rispettivamente un principe elfo e un guerriero.
E' un AU FANTASY. Un po' ispirata a LOTR e un po' con licenza poetica.
- - -
Sei un elfo, sei un soldato, sei un comandante.
Si ripetè in testa prima di approcciarsi all'altra metà del suo stesso esercito. Invece che sciolto, Simone risultò rigido di fronte alla vista di quell'intero schieramento, composto da facce sconosciute, in aspettative, altre invece note perché di gente cresciuta nella sua Terra. Per la prima volta, avvertì dopo tanto tempo, la paura attraversargli ogni fibra del corpo dalla punta delle orecchie fino ai piedi sospesi perché in groppa alla sua fidata cavalla.
Sei anche un principe, aggiunse.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Aria di Guerra
PROLOGO.




 


Le mura di Boscoverde nel regno a nord della foresta al di là delle montagne Nebbiose di Arda, non erano mai state così in fermento, soprattutto all’interno del palazzo del Re degli elfi silvani, Elrohir.
Il palazzo del Re in fondo alla foresta, riceveva ospiti inattesi preannunciando l’arrivo di una tempesta.
Non era una tempesta fisica però: il cielo reggeva un blu intenso, non dando nessun segnale di imbruttimento e un’altra giornata sembrava lasciar scivolare la quiete e la pace, solo sentimenti e sensazioni pure tra i vari visi e volti, grandi e piccoli del luogo.
Bambini, donne, uomini riuniti per celebrare infatti, la sera precedente una festa che aveva sigillato un'unione, aveva portato gioia. Calici di vino, frutta, tavole imbandite avevano riempito gli spazi, con musica e balli, vesti leggere che volteggiavano al rumore dei flauti popolari.
Ecco anche perché sembrava che il buio fosse quasi obbligato a non presentarsi più sulla vita del popolo elfico dopo anni di incidenti e minacce.
Boscoverde era stato in pace per ben settanta ere se si escludevano episodi indelebili e che avevano segnato per forza di cose, la storia del popolo.

O di alcuni di loro.

La tempesta difatti, invisibile, si presentò come una minaccia che prendeva forma via via che il tempo passava e sarebbe risuonata ben presto in un altro modo dentro quegli stessi visi quesiti, saggi, bianchi candidi e pieni di speranza. Il popolo discendente dagli antichi elfi Nandor, amante della natura che da secoli abitava la foresta e viveva con le rispettive famiglie e prole, subì un duro colpo proprio in quel mese della seconda delle sei stagioni, del lor anno: il mese di Tuilë, cioè la fine della Primavera. Nessuno si aspettava che in quell’Aprile, delle guardie arrivassero correndo, quel tardo pomeriggio, in cui il sole stava toccando appena le foglie dei faggi, delle alte querce, aceri e latifoglie sempreverdi e anche le coltivazioni e i giardini di erbe e piante naturali delle case della comunità del bosco.
Solo qualche passante le vide ma passò oltre, con i cesti pieni di fiori, ed erbe fra le mani o pensando sicuramente a ben altro.
Le due guardie elfiche sui due cavalli scattanti neri, arrivarono e scesero - allo stesso modo in cui erano arrivate - , di fretta dai loro stessi animali e accolta la loro voce irrequieta dalle altre due guardie a protezione del Palazzo a due piani di Boscoverde, sorgente nella parte più lontana della foresta, furono lasciati passare attraverso le grandi porte in legno di quercia dell'edificio.
Nessuno si aspettava di essere svegliato dal suo sonno – o almeno quello che stava cercando di fare – mentre avvertiva che suo padre, il re, accogliesse qualcuno dentro casa.
O almeno, quella che doveva sembrare una di quelle, anche solo fisicamente.
Dalle finestre bifore e dalle vetrate ampie e frastagliate con una decorazione a rombi, una volta scostate le tende lunghe e chiare, la luce filtrò e la prima cosa ad esserne colpita fu la sua mano. Poi quella stessa fonte luminosa, gli carezzò piano uno dei suoi occhi riflettendosi dentro l’iride e con quello soltanto, Simone osservò due grandi cavalli sellati, muniti di morso appostati proprio ai lati della residenza reale. Qualche passo indietro lo portò a sistemarsi la piega della lunga tunica color miele con pochi gesti delle dita. Le dita si mossero delicate, mentre le lunghe maniche, che ricadevano all’altezza dell’addome, proprio quel giorno, gli davano più fastidio del solito.
Abbiamo ospiti, pensò riluttante.
Avrebbe dovuto fargli piacere, se solo non fossero personalità mandate per comunicazioni al Re, cioè suo padre. Avere veri ospiti era inusuale per quella immensa casa. Simone avrebbe preferito di gran lunga arrivare fino alla piccola stalla adiacente al palazzo e fuggire via in sella alla sua cavalla, bearsi del rumore della foresta e allontanarsi dalla facciata che doveva prestare a palazzo.

E invece, quel giorno, non scelse quella opzione.
Come sempre, la curiosità si trovò a divorarlo anteponendo la libertà al dovere. In questo caso però il dovere sarebbe stato mascherato: avrebbe cercato di capire senza farsi vedere. Il sentimento di curiosità gli divorò il viso con un'espressione dubbiosa e poi, dall'interno, creando quasi una specie di ballo dentro al suo stomaco.
Quelle maniche lunghe della veste che gli cadeva addosso una tunica morbida, ricaddero all’opposto sulle braccia come un macigno, nonostante ormai ci fosse abituato. Simone non pensò dunque fosse dovuto unicamente a ciò che indossava, ma per lo più da una sensazione presente da un po’ di anni ormai. Perciò, sospirò e lasciò la sua stanza per recarsi al piano di sotto.
Simone attraversò il corridoio in pietra. Scese la lunga scala sinuosa e a chiocciola, senza davvero gran fretta. Calcolò ogni passo, controllando il respiro – come aveva imparato fin da piccolo - , finché fermo a metà, non si sentì colpire di un calore intenso, lì, proprio sulla nuca scoperta e dove i suoi capelli neri non arrivavano. Il sole stava facendo capolino da un’altra delle finestre bifore alta, incastonata nel muro. Sorrise verso la sorgente di luce, ma per qualche piccolo secondo, beandosi e vivendo addosso un’illusione effimera che così com’era nata, scomparve: come se quel sole potesse giovargli per qualche breve attimo il peso di qualche pensiero in meno.
Una volta attraversata la piccola sala inferiore, notò la porta della sala del trono lasciata socchiusa. Simone sbirciò: due guardie stavano discutendo con suo padre, seduto al centro sul suo trono.
Dalla mano sul mento e dallo sguardo chiuso e serio – non che Simone gliene avesse conosciuto altro addosso per anni – doveva essere una questione abbastanza importante. Le guardie lo portarono ad annuire, gesticolando appena e tutto quello che Simone sembrò cogliere perché uno dei due uomini non usò più un tono basso fu:

« Sire Elrohir, è richiesto il vostro aiuto »

Simone colse il sospiro di suo padre. Si alzò dal suo trono, le mani raccolte sul grembo, la corona d’oro e a spirale rovesciata sul capo, la barba e i suoi occhi consapevoli. La lunga veste verde scura, bordata oro, toccava terra e rendeva la figura del Re ancora più severa. Elrohir annuì, ponendosi di fronte ai suoi ascoltatori ed emissari.
L’udito di Simone fece il resto del lavoro, un occhio osservò dallo spiraglio ancora libero e suo padre, in un tono rispettoso e profetico quasi come stesse trattando di qualcosa di irreversibile, pronunciò la fine di quel mistero:

« Non mancherà la mia risposta a questa chiamata. Da ora, do l’ordine di radunare un adeguato numero di truppe, gli Elfi del Sud e dell'Est. Qualsiasi numero, non baderò a spese, se risponderanno tanto meglio. Risponderò, ma non andrò io. La mia età e le mie mani non sono più quelle di un tempo, non è mio compito. Dovrò parlarne con mio figlio »

Mio figlio.

Simone si strinse alla collana che portava al collo, afferrò la pietra al centro. Poi, vedendo o meglio, spiando per un’ultima volta i due uomini intenti a inchinarsi davanti a suo padre, diede le spalle alla sala del trono e risalì di corsa le scale con passo agile, avvertendo questa volta - il peso inesistente e causato dalla sua velocità, della veste leggera che portava indosso.
 
 
 
 
 
Chiamato, qualche ora dopo, Simone si presentò nella sala del trono, incontrando lo sguardo inchiodante di suo padre, Elrohir. Il suo arrivo gli disegnava come novità due tondi come occhiali, due lentine che portava appena visibili realizzategli apposta da un elfo artigiano, proprio sopra la punta del naso. Li usava per leggere, infatti aveva un tomo tra le mani, chiuso di scatto, una volta che Simone varcò la soglia della stanza. Lo accolse con un cenno del capo e posò il tomo da parte in equilibrio sul bracciolo del trono. Simone si fece avanti, raccolse del coraggio che aveva costruito nel corso di ere, le mani in grembo, una vaga aria di formalità come prassi abitudinaria.

« Padre, mi cercavate... posso sapere il motivo di tanta urgenza? »

Anche se sospettava il perché dopo aver spiato quella conversazione nel primo pomeriggio, Simone non aveva idea di cosa potesse essere successo in sole ventiquattro ore. La sera prima c’era stata aria di festa e adesso veniva convocato in chissà quali segreti o informazioni.

« Simone, siediti, per favore » il Re gli indicò la tavola lunga e arcuata in legno di quercia a lato destro della stanza, rivestita con una tovaglia leggera ricamata e qualche calice per bere e candelabro sopra « Hai fatto tardi » aggiunse.
« Chiedo scusa ero uscito per una passeggiata a cavallo » concluse il figlio.

Il silenzio aleggiò fin troppo a lungo prima che il Re riprendesse posto sul trono, lontano anni luce da suo figlio, annuendo di conseguenza.

« Non mi avete mai andato a chiamare se non prima di cena, cos’è successo? » chiese Simone con un filo di voce e abbastanza curioso.
Il Re corrugò le labbra in una smorfia, le cui labbra superiori erano appena nascoste dalla barba curata e con qualche filo bianco al suo interno.

« Hai ragione, se l'ho fatto è per una questione di estrema urgenza. E di sicuro, potevi avvertire le guardie o aspettare prima della tua passeggiata. »

Quel tono appuntito e spigoloso era solo l'inizio che preannunciava una fine.

Calma, Simone.


Simone annuì lentamente serrando appena la mascella. Una mascella simile a quella del padre, contratta nello sforzo di mantenere l’equilibrio instabile di un’aria già tesa. Suo padre non lo stava nemmeno davvero guardando. Non lo faceva davvero da anni, non lo faceva da quando erano rimasti soli entrambi. E se i suoi occhi indagatori si posavano, usavano un filtro sociale e formale: Simone non si sentiva considerato nel modo normale in cui si considerava un figlio.
Anche le pareti di pietra davanti a lui quindi, sembrarono cogliere di la sua presenza più che il suo stesso padre.
O forse era meglio chiamarlo solo Re.

« Voci di corridoio di giorni fa si sono rivelate vere. Non volevo crederci e pensavo fossero solo dicerie tra popolani, ma mi sono sbagliato. Sono venuti due messaggeri oggi a riferirmi di una minaccia incombente a nord delle terre dei mortali, » cominciò Elrohir con voce seria e importante « prossima meta saranno gli uomini dell’Ovest e del Vespro, non rimane molto tempo prima che questa minaccia si sposti sui nostri territori. Dobbiamo muovere le nostre truppe, al più presto e agire di conseguenza. »

Il volto di Simone si rabbuiò all'istante voltandosi verso gli occhi di suo padre, che questa volta sì decisero a pesare dentro ai suoi.

« State parlando di una... una guerra? »

Il Re annuì, si massaggiò appena le tempie liberando una mano, che alzandosi lasciò penzolare la lunga manica dell'abito. Le orecchie a punta erano nascoste dai lunghi capelli neri, ricadenti sulle spalle.

Guerra.

Il sapore gli risuonò amaro e nuovo in bocca al tempo stesso.
Simone non aveva mai conosciuto la guerra. Forse solo una guerra interna e il cui scrigno veniva aperto solo quando la nostalgia e mancanza erano troppo forti da sopportare.

« Non possiamo rispondere a questa minaccia se non con le armi. Il nostro popolo va difeso. »

« Sapete già di che si tratta? Chi la sta muovendo, chi ci sta minacciando? »

Elrohir spiegò quello che gli era stato riferito poche ore prima.

« Ci sono state delle razzie. Case bruciate, raccolti distrutti, sangue e molte famiglie di mortali hanno dovuto abbandonarle e rifugiarsi presso alcuni conventi e chiese. Sono diventati degli sfollati. Il fenomeno si sta spostando e in fretta. Questa cosa è potente, » continuò suo padre con un tono pieno di odio proveniente da un passato ancora vivido. Simone pensò a qualcosa che avrebbe dovuto sopprimere, ma ritornò comunque a galla « non è opera di un uomo né stregone. Nessun uomo oserebbe così tanto o sarebbe così vendicativo con la sua stessa specie. Qualsiasi sia il torto subito. No, questa è di sicuro la mano di un esercito di orchi, mostri e anche numeroso. »

Orchi.

Simone non ne aveva mai visti per sua fortuna o sfortuna in vita sua. Quelle strane creature le ricordava solo nelle storie raccontategli dagli elfi anziani o tramite le leggende o storie dei suoi genitori. D'altra parte, suo padre in giovane età, aveva affrontato varie battaglie, ma in nessuna di queste Simone aveva preso parte. Si limitò ad annuire.

« Quindi... dobbiamo...dovete partire? »

Non sapeva esattamente cosa sarebbe successo, ma sicuramente il palazzo non sarebbe stato più un luogo sicuro per loro. Per lui.
Il Re si alzò dal trono e di conseguenza Simone si sentì in dovere di alzarsi dalla seduta e porsi di fronte a suo padre. Toccò gli anelli vistosi che portava alla mano sinistra e desta.

« Sei un principe Simone » esordì Elrohir « e come tale è giunto il momento di prenderti le tue responsabilità. »

Simone cominciò a tremare e per tenersi calmo, coprì una mano che stava già sul grembo sopra l'altra. Annuì, senza effettivamente dare voce al pensiero nefasto che aveva appena formulato la sua mente.

« La mia età non mi permette di partire e attraversare più di una parte del confine. Non sarei di certo una mano d'aiuto a chi sacrificherà la sua vita per questa causa. Come mio erede, sarai tu a partire e prenderti carico delle truppe, dell'esercito. Tu, figlio mio, » e così gli si avvicinò ma senza toccarlo « andrai in guerra.»

Simone chinò il capo. Bisbigliò quasi.

« Decidete per me un cammino per cui non sono pronto, padre. »

Il Re sospirò esasperato, mantenne però la calma nel suo tono che suonò piatto, privo di emozioni.

« Così come non lo sei per il matrimonio? »

Non potete trattarmi così.

« Padre

« Simone la mia non è una richiesta. Ho interrotto la ricerca di una compagna che potesse favorire la successione del nostro sangue proprio perché non ne eri pronto. Questo è un dovere da cui non puoi sottrarti.»
Elrohir posò le mani sui fianchi, cercando di tenere se stesso saldo.

« Vi ho detto che non sposerò chi non conosco o chi non amo! » precisò Simone fermo, risoluto. « Io non sposerò qualcuno solo per continuare una linea di sangue reale o solo perché siete voi a deciderlo per me! »

Gli occhi del Re si riempirono di rabbia, mista a delusione. Serrò la mascella, indurendo ancora di più la sua espressione. Lasciò cadere il silenzio e si indirizzò al lungo tavolo di legno, dov’era seduto ancora il figlio. Il re afferrò un calice decorato pulito e ne verso all’interno del liquido porpora già pronto: vino.

« Prima o poi, dovrai sposarti, Simone e questo lo sai bene. La nostra stirpe dovrà continuare e dovrai regnare una volta che io me ne sarò andato o non ne sarò più in grado. E’ tuo dovere garantire tutto questo, come io l'ho garantito a te e mio padre a me. » continuò ore più il Re che il padre, duro e rigoroso.
Simone si accigliò. Sembrava inutile provare a respingere la posizione ostinata di suo padre, nonostante le proprie continue opposizioni. Suo figlio, l’unico che aveva. L'unico su cui verteva la linea di sangue, la responsabilità di negare se stesso o ciò che voleva veramente. L’unico che non gli avrebbe dato un nipote. Simone ne era sempre più sicuro. Molti degli elfi silvani – perché allontanati o per volontà - si distaccavano dalla comunità d’appartenenza per andare via e vivere in libertà. Se suo padre avesse continuato, lui stesso avrebbe preferito una vita lontana dalla sua stessa terra, pur di liberarsi da quella che sembrava sempre più una prigionia.

« Elanor, tua cugina, ne ha dato un esempio giusto ieri » continuò suo padre, nello stesso tono quasi di rimprovero « Siete sempre stati vicini fin da ragazzi, forse dovresti ascoltarla di più, dovresti seguire le sue orme o quanto meno cominciare a capire il peso della corona che porti sul capo. »
Il peso. Quel peso sono io per te, padre.
« Il tuo futuro, non è cosa di poco conto, figlio. » aggiunse poi, con tono saggio.
Il mio futuro, non il vostro.

« Vorrei ricordarvi che Elanor si è unita in matrimonio per amore, padre. E’ stata una sua scelta, così come è stato un caso fortuito che si sia unita a un conte. »
Non ha dovuto scegliere per la volontà di altri.
Simone avrebbe continuato a parlarne, a dire quanto Elanor non avesse subito il peso dei suoi genitori, di come la sua anima fosse stata lasciata libera di scegliere e scindere certe imposizioni sociali. Avrebbe voluto raccontargli che lei aveva svolto il suo lavoro di padre fino al momento delle nozze, perché lui non avrebbe mai capito suo figlio.
Simone era rimasto da solo a combattere quella battaglia.
« In ogni caso sembra avere più buon senso del mio stesso figlio » borbottò tra sé e sé Elrohir, ma il tono di voce non servì a non essere sentito da Simone.
Le loro orecchie erano fatte per ascoltare, per ricevere più attentamente i suoni, anche i più spiacevoli.
I suoi occhi si abbandonarono infatti poco dopo, serrandosi, concedendosi la poca forza che ancora possedeva in corpo, per non crollare davanti a quell’uomo. Inutile dire che il vuoto li avrebbe presto riempiti gli occhi di Simone, una volta conclusa quell’ennesima arringa inutile e formale. Il Re abbandonò riluttante il tentativo di forzatura, ondeggiò con il capo e riprese da dove aveva interrotto. Mosse il calice e ne mandò giù un sorso, poi lo posò e voltando le spalle al figlio, parlò:

« Ne riparleremo presto. Fin quando sarò in vita risponderai a me e solo a me. Ne riparleremo, ma non è questo il giorno. La nostra risposta è stata data, figlio. La nostra gente non dovrà gridare alla devastazione e alla morte. E’ già stato deciso ed entro oggi mi muoverò di conseguenza per organizzare la spedizione: tu andrai in guerra
Simone serrò i pugni lungo i fianchi dando libero sfogo alla sua voce anche questa volta.

« Padre sapete benissimo che non sono pronto! » Simone inghiottì saliva per proseguire, la paura nella voce lo sovrastò « Mi catapultate da un giorno all’altro in qualcosa che non conosco. La guerra…credo sia qualcosa di troppo grande. Chi sono io per poterne far parte? Io non ho le basi, non ho mai guidato un intero esercito di uomini o mai segnato o pianificato piani di conquista, non ho mai istruito nessuno, né ho mai attraversato il confine o sono uscito dai confini della foresta dopo la morte di... » il tono gli fece tremare la voce e si spezzò nell'esatto momento in cui fece la sua comparsa l'unica donna della sua vita che gli abbracciò il pensiero « la morte di mia madre » il tono gli fece tremare la voce e si spezzò nell'esatto momento in cui fece la sua comparsa l'unica donna della sua vita che gli abbracciò il pensiero.

« Sarà quindi un onore conoscere il mondo e farne esperienza dopo tutto questo tempo. Metterò a tua disposizione le mappe del regno di Arda, in modo che tu possa studiarle in questi giorni, verrai preparato a dovere dai migliori maestri elfi della guerra che abbiamo qui » suo padre cercò di addolcire il suo sguardo e solo per quel poco, Simone sembrò non riconoscere la scorza rigida e austera a cui si era abituato. « La mia non è una condanna, » precisò Elrohir corrugando la fronte « è mio compito lasciare che tu capisca davvero cosa significa essere a capo di un popolo, una comunità. E’ anche un’opportunità Simone, di capire, crescere, comandare. Hai l’età giusta. »
Parlava come se fosse una divinità onnisapiente, più parlava e più Simone pensava di voler scappare.

« Lo dobbiamo a chi ci rispetta, ci guarda, chi difendiamo. Il nostro popolo ha bisogno di una guida, fuori da queste mura, conta sulla nostra risposta. E tu, adempierai a questo grande compito come elfo e come reale. »

Simone cercò di controbattere alle parole del padre, ma sapeva che non ci sarebbe stato nulla in grado di fargli cambiare idea. Tantoché il Re emise l’ultima sentenza proprio lasciandolo a bocca aperta.
« Altri giovani come te, si uniranno alla missione. »
Il suo destino, era già segnato. Simone avrebbe lasciato la sua Terra e tutto ciò che amava. Forse però, la lontananza da quelle mura di pietra del palazzo gli avrebbe permesso di allontanarsi da tutto quel mondo che si era imbruttito, chiuso, come sporcato di nero dopo la scomparsa di sua madre. Il Valar Mandos gli era stato appena mandato come sicario e giudice e suo padre, il Re, ne aveva appena preso le veci e le sembianze. Non poteva avere altro ruolo migliore, date le sue inclinazioni.
Simone chinò dunque il capo a quelle due identità così ignote, di cui una visibile e fisica, e l’altra invisibile e leggendaria.

Sono un tuo sottoposto, non tuo figlio.

« Se pensate che io ne sia in grado, cercherò di fare del mio meglio e impegnarmi. Cercherò di non deludervi. »
Sembrò recitare quelle parole senza una punta di sentimento, ma solo per inerzia poiché Simone lasciò il posto al suo ruolo sociale, cancellando la sua persona. Avrebbe voluto ricevere un credo in te, ma sarebbe stato troppo. Suo padre aveva smesso di dirglielo e ripeterglielo tanto tempo fa.

Invece Elrohir si limitò a un breve cenno del capo e a una leggera smorfia, forse, un sorriso. Ma non poteva scommettere che fosse perché sentito, ma solo perché costretto dalla responsabilità.

« Molto bene, Simone, vedrò di far sbrigare i preparativi per la partenza » rispose Elohir. « Dirò a Fëanor e Beren di darti altre informazioni in questi giorni. Loro partiranno con te. Avrai bisogno di una qualche forma di protezione. »

Fëanor e Beren, sono loro i miei genitori adesso?
Il principe però non rispose stizzito, né con delusione, si limitò ad annuire verso quella figura sempre più lontana e assente dall’immagine paterna e congedandosi, ritornò di sopra, salendo le scale e chiudendosi nella sua stanza.
 
 
 

 
**
 
 
 


Era appena sicuro di aver cominciato a lasciarsi dietro di sé un altro pezzo della sua esistenza o quella che era stata la parte iniziale di quella che poteva chiamare tale.  Questa volta però, non pianse, anzi, come se una pietra si fosse incastonata tra il petto e il cuore, Simone osservò il buio coprire come un manto il cielo e insieme a lui, inglobare la luce che poteva essere rimasta.
Se mi avessero detto di dover andare prima in guerra, probabilmente sarei scappato.
Simone era uscito dopo cena, volendo assentarsi da quella piccola recita re-figlio come se non avesse saputo da qualche giorno cosa lo avrebbe aspettato da lì a un mese. Una parola a proposito e in lingua gli risuonava nelle orecchie, sentita dalle labbra delle guardie a palazzo: Lothron.
Era stato scelto il mese di Maggio per dare il via alla spedizione e lui aveva poco meno di due settimane per prepararsi a tutto quel nuovo universo. Tutto ciò che si era concesso per quel momento, erano brevi pomeriggi imparando le prime strategie di combattimento da grandi caporali che avevano combattuto per anni, memorizzato a malapena i nomi degli uomini – oltre che i nomi degli mezz’elfi ed elfi come lui (tra cui alcuni che non aveva mai conosciuto e sicuro di altri territori) che avrebbero eseguito ogni suo comando, ordine e volere.
Lui, che l’unico desiderio che ricercava lo avrebbe voluto riscattare nello sguardo si suo padre.
E’ per lui che sono in questa situazione.
Mamma, papà non era così anni fa.
Lui, che l’unico desiderio che ricercava era fargli capire che voleva scegliere per sé come condurre la sua vita.
Aveva rinunciato ad imparare o quanto meno, rifiutava le sessioni di lezioni con la spada. Il suo arco e le sue frecce erano gli unici strumenti con cui era cresciuto. Era riuscito a padroneggiarli nel momento in cui aveva compiuto i cinque anni: non li avrebbe sostituiti di certo con altro. Se il caso lo avesse richiesto, solo allora avrebbe impugnato una spada o avrebbe chiesto a qualcuno di insegnarglielo. E sarebbe stato difficile, perché una spada, era sinonimo di crudeltà, di sangue versato, di qualcosa che indossava con fierezza o con orgoglio solo per chi riusciva ad uccidere.
Io non ho mai ucciso nessuno.
Se non si teneva conto della caccia stagionale o di qualche uccello che sfrecciava nel cielo, Simone non aveva mai davvero ucciso. Non a sangue freddo, non un altro essere umano.
Si guardò le mani pulite, l’anello al mignolo e qualche altro sparso. Osservò la sua pelle chiara e intoccata, pensando a come si sarebbero riempite di cicatrici – sopportabili è chiaro, l’arco e le frecce gliene avevano segnate di piccole lungo i polsi o le braccia nel corso del tempo – ma soprattutto, si sarebbero macchiate inevitabilmente del sangue di qualcun altro, che si meritava quella fine, ma che sarebbe caduto attraverso un suo gesto, un’azione scaturita dal suo corpo, dai suoi nervi, dal istinto.
Lui che era abituato a controllare tutto ormai da troppo tempo.
Lui che si era fortificato dentro le mura del castello e che aveva vissuto solo attraverso le piante, le cavalcate, le poche chiacchierate con poche facce amiche del posto o con sua cugina prima che si sposasse.
"Sembra avere più buon senso del mio stesso figlio" – il tono di suo padre gli risuonò nelle orecchie appuntite e ben esposte alla brezza serale.
Buon senso sarebbe stato non partecipare proprio a quel matrimonio se avessi saputo che me lo avresti rinfacciato ancora una volta, pensò.
La pace e la gioia che trasudava da un viso innamorato e felice, quello di Elanor e del suo sposo – due personalità così diverse caratterialmente ma capaci di unire un filo rosso invisibile - forse non gli sarebbero mai appartenute come sentimenti.                                                                                      
Forse Simone avrebbe sempre affidato se stesso alla ragione, perché il verbo amare era un concetto un po’ impolverato e accartocciato come pergamene antiche con parole che si confondevano per creare un senso logico.
Lui che la parola amore la conosceva, la aveva conosciuta, ma gli era stata portata via troppo presto.
O comunque, si disse tra sé e sé, se fosse realmente successo, di trovare un briciolo di pace, di conforto, di fiducia in altri occhi, suo padre non glielo avrebbe mai concesso.
Simone si trovava quindi, seduto e perso nella frescura serale della foresta accanto a quella quercia secolare, distante dal castello e dal centro abitato, distante dalle luci delle case o da occhi indiscreti.
Distante dal suo Mandos.
La testa proseguiva come una spirale e andava via via percorrendone l’insolita struttura vorticosa e di risucchio. Le gambe erano portate al petto, la veste color pastello si era appena piegata e una mano, cercava di rilassare il corpo intero nel toccare la ruvidezza di un germoglio inumidito verde appartenente a un rampicante che stava crescendo proprio accanto a quell’albero. Simone lo guardò meglio: era una pianta di gelsomino. Ricordò che la prima fioritura stava pian piano accumulandosi lungo le zone più nascoste della foresta, insieme a tanti altri tipi di fiori ed erbe medicinali. Per l’estate quel rampicante sarebbe stato colmo di piccoli fiori profumati, simili a tante piccole fragili stelle fiorite sulla terra invece che in cielo.   Simone sospirò riluttante e stringendo gli occhi. Sarebbe voluto diventare una pianta, connettersi al terreno, trasformarsi in qualsiasi altra cosa e lasciare la sua stessa natura, il suo ruolo. Il pensiero di dover abbandonare il verde che lo circondava, i sorrisi della poca gente vicino al castello che non lo avevano mai fatto sentire un peso, un difetto, un errore. D’improvviso, un muso bianco e peloso si chinò con la sua criniera, giocoso e proprio davanti i suoi occhi, gli scompigliò i capelli ricci con i grossi denti e scuotendo appena il capo. Brontolò quel poco per manifestare l’evidente disappunto. Almeno, in tutto quello non era solo. Simone allungò una mano ad accarezzarne il pelo sopra il muso, proprio in mezzo ai due occhi neri e bisognosi di attenzione e affetto.

« Lossë » pronunciò lento, sfoggiando un piccolo sorriso. « Hai ragione, sono così perso nei miei pensieri, ma non mi sono certo dimenticato di te »

La cavalla sbuffò in stato di felicità appena riacquisita dal suo padrone. Simone poggiò il palmo della mano nello stesso punto del suo pelo bianco candido e sospirò di sollievo, poi tolse la mano e ci stampò sopra un piccolo bacio.

« Domani dobbiamo allenarci , sia mai che un “principe come voi cada da cavallo mentre è in battaglia” » sbuffò Simone, mentre la cavalla si strofinava con il muso contro la sua guancia. Il padrone provò un leggero solletico, incurvò la bocca creando due pieghe per via di un tenero sorriso e portò delicatamente la cavalla a scostare il muso e a guardarlo.

C’è lei.

« Beh, se non altro saremo insieme ad affrontare questa cosa. Almeno la mia compagna di avventure, ho potuto sceglierla »
La cavalla nitrì in risposta, come a suggerirgli un convinto.

« Mellon nîn » le sussurrò il principe strofinando il naso sul suo pelo provocando alla cavalla quasi lo stesso solletico.

Amica mia.

Poi Simone guardò il cielo: la luna era tagliata a metà, uno spicchio di un intero, un’unità divisa, proprio come la sua volontà. Carezzava ora la guancia di Neve, che si beava sbuffando di quei piccoli tocchi. La mano libera si portò al collo, sfiorò la pietra cristallizzata che quasi brillò ancora di più proprio quando Simone proferì parola, agganciando sempre i suoi occhi a quel corpo celeste fisso in cielo:

« Lo sai vero, che lei è l’unica cosa che ho adesso? »

Simone non credeva di essere pazzo. O forse era solo il primo Elfo di Boscoverde ad essere totalmente impazzito: sarebbe stato un ottimo motivo per sfuggire alla sua responsabilità. Anche se fosse sembrato pazzo, per lui era diventata un’abitudine comunicare in quel modo, cercare una via di scampo a quel mondo, invece che urlare fino a perdere la voce. O al posto di correre con il suo cavallo e sentire il vento accogliere la sua figura e la sua euforia.

« Ti prometto che farò ciò che posso » gli occhi ancora rivolti alla luna, le dita stringevano la pietra irregolare come il talismano più prezioso. « Per renderti fiera. Per renderlo fiero. »
Simone sembrò cercarci dentro e disperatamente, tutta la calma e la forza che il suo corpo o la sua anima non riuscivano più a trattenere. Eppure poteva dirsi in apparenza a una prima occhiata, solo e soltanto una pietra.

« Tu però non dimenticarmi. Cerca di indicarmi la strada, perché da solo non ce la farò, mamma »

Era qualcosa di più, era un ricordo, era una persona. La cosa più importante della sua vita, prima di Neve che ora gli si era accovacciata accanto, zoccoli ripiegati e fronte equina contro quella del suo padrone, in modo da poter stare comoda insieme a lui. Era stata la cosa più importante riassunta in un’unica stella.

Cora.
   
 
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