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Autore: lainil    12/03/2023    0 recensioni
"Mio amato Takashi,
Quando questa lettera ti giungerà tra le mani, io potrei non esistere più, almeno nella tua memoria.
Questa guerra ci ha devastato e io non riesco ad andare avanti e a dimenticarti.
Sono l'ombra di me stesso e l'orrore vivente di questi anni.
La nostra storia rimarrà oltre le nostre tombe, anche quando i nostri corpi diverranno scheletri.
Le nostre anime saranno legate in eterno.
Tuo per sempre,
Ran Haitani
"
Genere: Angst, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haitani Ran, Hajime Kokonoi, Izana Kurokawa, Kazutora Hanemiya, Takashi Mitsuya
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Ciao a tutti!
La mia pigrizia (e il mio essermi dimenticata) mi ha impedito di ricordarmi di pubblicare questo capitolo una settimana fa, quindi vi chiedo scusa e spero di non rifare questo errore, pubblicando settimane prossima il secondo capitolo, senza ulteriori rimandi.

Inoltre volevo farvi sapere che ho creato un'apposita playlist questa storia che verrà costantemente aggiornata.
Buona lettura ♡

Twitter: Haitani_wh0re
Playlist Spotify: Canteranno di noi gli angeli caduti | RanMitsu

 


("Fishing Boats on the Beach at Saintes-Maries" by Van Gogh (1888))

 

 

We'll meet again,
don't know where,
don't know when,
but I know we'll meet again some sunny day

(“We’ll Meet Again” – Vera Lynn 1939)

 

Mio amato Takashi,
Le notti in cui mi sento vivo diminuiscono sempre di più; non c’è onda che si muova nel mare o vento che soffi che riesca a causarmi sentimenti forti al punto da scuotere la mia anima disperata e solitaria.
Non c’è ritorno nelle menti di chi non sogna e non c’è cura per i cuori malati e vuoti.
Ogni tanto mi soffermo a ricordare quanto fossero verdi i prati del tuo giardino e azzurri i cieli attorno alla tua residenza, ritrovandomi a pensare che, se avessi il privilegio di scegliere dove morire, vorrei avvenisse lì, tra il cespuglio di rovi e l’albero sul quale avevamo costruito quell’altalena piena di emozioni che rimarranno lì per sempre, congelate nel tempo, e che nulla potrà mai cancellare.
Quando il tuo pensiero si fa spazio nei meandri della mia mente, mi costringo ad annegarlo, anche con la forza.
E non sempre se ne va.
Non ho ancora imparato a convivere con il tuo ricordo.
Spero di potercela fare un giorno.
Per sempre tuo,
Ran Haitani

 

15 novembre 1938, Bordeaux

"L’avete visto il quadro presente ieri all’asta? È stato venduto per oltre dieci milioni di franchi, un vero spreco.“

“Il cavallo su cui tutti puntavano è arrivato solo quarto, le scommesse non sono più così facili.”

“Gradite una tazza di tè? Nella sala maggiore offrono la qualità migliore. Mi segua, da questa parte.”

Le voci delle persone disturbano quel silenzio e si susseguono nella mente di Mitsuya che prova un forte e troppo conosciuto senso di oppressione, che gli fa tremare una gamba dall’agitazione e sbarrare gli occhi, stringendo i pugni sui braccioli e chiudendosi nel suo corpo.

È a disagio.

Deve andarsene da quella stanza, tutto quel chiasso non lo fa sentire al sicuro, ma non trova via d’uscita, ogni porta è troppo lontana, e poi con che forza potrebbe mai muoversi e raggiungerla? Le sue gambe tremano, la possibilità di alzarsi e cadere subito dopo è molto alta. E poi le persone, le persone guardano, giudicano, attente e pronte al minimo errore per chiacchierare sulle sventure altrui, per criticare qualsiasi cosa non le riguardi, pronte come avvoltoi ad attaccare la sfortunata preda che nulla ha da spartire con il mondo dei predatori.

“Il ricevimento è finito.”

Il battito di mani per attirare l’attenzione e far calare il silenzio, seguito da quella voce piatta e seria, fa rilassare i muscoli di Takashi, che finalmente può tirare un sospiro di sollievo, alzando debolmente il viso e accennando persino un timido sorriso, godendosi quella pacifica calma forzata.

“Liberate la stanza il prima possibile.”

Aggiunge l’uomo che ha parlato, calcando con più violenza, suonando come un ordine, rispetto al gentile invito che sarebbe dovuto sembrare, facendo salire un brusio basso dal gruppo di persone che riempiono la sala, volutamente ignorato da colui che ha parlato.

Lo sguardo di Mitsuya si sposta dalle sue gambe e attraversa le ciocche argentee dei suoi capelli, incrociando la schiena dell’altro, che si porta le mani dietro questa, in un gesto elegante e di controllo, che trasmette la calma a cui Takashi è da sempre abituato e che da sempre necessita.

“Lasciamo che le persone abbandonino questa stanza, poi la riporterò in un luogo più sicuro.”

“Va bene, ti ringrazio.”

Si limita Takashi, sospirando per l’ennesima volta e appoggiandosi con la schiena al legno duro della sedia che non ha abbandonato durante tutta la serata. I ricevimenti, le feste in maschera, i grandi incontri, non gli sono mai piaciuti né interessati, ma per il ruolo che ricopre, è costretto a prenderne parte, pur essendo contro la sua volontà.

Fino a pochi anni prima, quando la maggior età ancora non pesava sulle sue deboli spalle, il padre era clemente e l’obbligo non esisteva, era una libera scelta ed era quasi divertente per Mitsuya decidere se disturbarsi a uscire dalla biblioteca per far contento l’uomo o nascondersi in soffitta, aspettando che lo trovasse.

Ora che ha appena superato i vent’anni, però, questa libertà può solo ricordarla come un amaro ricordo di giorni che non avrà più indietro perché, seduto davanti a quegli sguardi, Takashi ci va per obbligo, obbligo del padre che si è fatto freddo e violento con lui; obbligo della sua adolescenza ormai conclusasi e lasciata indietro, obbligo morale che sente di dover soddisfare per stare meglio con la sua anima e obbligo dei soldi che potrebbe guadagnare se, da bravo ragazzo ubbidiente come ormai è abituato essere, dovesse seguire ogni ordine senza lamentarsi o ribellarsi.

Non ha più occasione di ribellarsi, ormai neanche il pensiero lo sfiora.

“Andiamocene.”

Eppure c’è lui. La sua unica eccezione in quel mare di ordini e di compostezza. Solo con lui può dare ordini, solo con l’uomo che l’ha accudito e visto crescere dove il padre è stato assente, che rispetta, seppur occasionalmente, cercando sempre di capirli, quei suoi tentativi di libertà; solo su di lui, Mitsuya, sente di avere quel minimo controllo.

Quando però Wakasa Imaushi lo guarda, annuendo alla sua richiesta e porgendogli la mano come appoggio, ancora abituato a quando era solo un ragazzino bisognoso di affetto, Takashi non è in grado di dominarlo, di schiacciarlo con il suo potere e i suoi soldi, di affermarsi su di lui.

E si limita a prendergli la mano.

Questo perché Wakasa è la persona più pura e fraterna che ha lì dentro, che sente parte della famiglia. Non è come un amico o, almeno, Mitsuya pensa che lui non voglia rispondere a quella definizione che spesso ha letto sui dizionari. Lo definisce maggiormente come un alleato, un alleato ubbidiente, sottomesso alla sua famiglia e che Takashi considera al suo pari, perché non vuole e non può renderlo inferiore.

“Imaushi!”

Lo sguardo di Mitsuya si abbassa in automatico e la sua mano abbandona quella dell’altro che ricade sui suoi fianchi all’udire quella voce. Precisa, fredda e seria giunge alle loro orecchie quando, ormai entrambi vicini alla porta con Wakasa pronto ad abbassare la maniglia, questa si apre da fuori, rivelando il corpo massiccio del padre di Takashi che, autoritario come poche persone, secondo il modesto parere dell’uomo, osserva i due, portando uno sguardo apparentemente gentile su Wakasa, sorridendogli, nascondendo per bene il suo non apprezzarlo.

“Ti cercavo.”

“Mi avete trovato.”

Takashi stringe gli occhi con forza e si chiede con che coraggio l’uomo risponda con tale sicurezza al padre, quasi con quel tono di scherno che raramente gli ha sentito usare e, si augura, che stia semplicemente non controllando in quel momento, perché, se fosse una cosa voluta e desiderata, tutto sarebbe fuorché una scelta sicura per il suo restare in quella villa.

Il padre di Mitsuya appoggia con forza una mano sulla spalla dell’uomo, stringendola attorno alle ossa e Takashi trema all’immaginare quanto male possa fargli, ma Wakasa rimane impassibile, con lo sguardo attento e il corpo rigido, schiena dritta e braccia abbandonate ai fianchi, in attesa di istruzioni.

“Stanno arrivando ospiti e tu dovrai occuparti di accoglierli. Sono delle persone importanti, che vanno trattate con riguardo, e tu sai cosa intendo, vero?”

Imaushi annuisce accompagnando il tutto con un convinto: “Sì, signore.” che suona come un’annoiata abitudine che ha. Ma non quella di accogliere persone; Wakasa odia avere contatti con estranei, ma è ormai abituato ad accettare freddamente ogni richiesta che gli viene posta dall’uomo. Non ragiona sul contesto: se questo compito può permettere di alleggerire le responsabilità di Mitsuya, per lui sarà sempre un “Sì, signore.” e di quello Takashi ne è convinto, ha imparato a capirlo con il tempo, con l’esperienza e con tutte le volte che Wakasa si è preso i suoi compiti.

“Molto bene.”

Sorride l’uomo, portando lo sguardo su Mitsuya che ancora non ha alzato il suo da terra, sentendo gli occhi del padre a cui è tristemente abituato, che lo osservano con imbarazzo e fastidio.

“Lascia il ragazzo in mano a qualche massaio oggi presente. Oltre a pelare patate e pulire stanze non servono ad altro, magari riusciranno a dare un senso alla loro esistenza, ricoprendo un ruolo un minimo utile.

Raggiungimi nell’atrio principale entro una ventina di minuti. Non ammetto ritardi.”

“Sì, signore.”

Dopo questa frase, l’uomo li lascia finalmente soli, e il mondo sembra schiacciare un po’ meno il corpo di Mitsuya al suolo. La sua bocca si apre, sentendo i suoi polmoni chiedere il doppio dell’aria, e i suoi occhi cercare oggetti da identificare, per assicurarsi di non aver perso la vista in quei momenti passati fuori dal mondo, in una dimensione personale, estraneo a quella situazione, cercando di disintossicarsi dalla figura del padre.

“Dobbiamo andare.” Lo richiama Wakasa, guardandolo: “Inui Seishu dovrebbe essere in turno. Vi affiderò a lui, così sarete in buone mani.”

“Vorrei…”

“Non posso lasciarvi in altre mani, vi prego di non obiettare.”

Lo rimprovera Imaushi, facendo deglutire Takashi, immaginandolo sufficientemente teso per via di suo padre e del tono che ha usato nei suoi confronti. Decisamente non pronto ad un trattamento così improvviso.

L’uomo lo anticipa, camminando a passo sicuro verso le cucine, dove Seishu spesso lavora, molte, troppe ore al giorno, a dire di Takashi.

“Taiju in questo momento non è in servizio. Se Seishu non fosse disponibile, potrebbe presentarsi un problema e dovrei affidarla a qualche lavoratore mediocre e decisamente poco fidabile. Mi auguro che un giorno, vostro padre, sarà in grado di concludere un accordo senza creare danni e sprechi inutili di soldi alla vostra famiglia?” Poi fa una breve pausa, guardando Takashi mentre gli tiene aperta la porta: “Nulla che la riguardi, ovviamente. Voi non c’entrate con le decisioni e con il ruolo di vostro padre.”

Takashi alza timidamente le spalle, abbassando lo sguardo, incapace ancora solo di pensare di reggerlo con una persona così autoritaria come è sempre stato Wakasa, nonostante la loro vicinanza.

“Potrei essere un figlio migliore e aiutarlo, forse dovrei iniziare a consigliarlo.”

“Non è compito vostro.” Lo corregge Wakasa: “Limitatevi a correggerlo nel caso sbagli, ma non assumetevi responsabilità che non ricoprite. Fate già abbastanza per prepararvi a subentrare nel suo posto quando la situazione lo imporrà.”

Mitsuya non risponde, si limita ad annuire e a seguire l’uomo in quella nuova sala.

Le cucine sono un luogo infernale, nel quale Mitsuya vuole passare il meno tempo possibile. Sono piene di rumori, di piatti sbattuti, pentole che cadono, uomini e donne che si scontrano. E poi grida, parolacce, insulti, ordini.

Le orecchie di Takashi tremano e vorrebbe solo premerci sopra le sue mani, ma sa che gli è impossibile fare quella scena e certe cose è costretto a farle affogare dentro di sé, consapevole che, prima o poi, sarà costretto a buttarle fuori in qualche modo e questo non sarà mai un qualcosa di piacevole. Al contrario sarà un qualcosa di così distruttivo da rovinargli lo stomaco e, le notti più calme sono conferme di questa paura del non saper controllare i sentimenti, così tanto trattenuti nel profondo fino a tornargli indietro e uscire nei momenti meno adatti.

“Seishu.”

La voce di Wakasa, come sempre d’altronde, lo riporta alla realtà, lasciando che i suoi problemi rimangano lì, promettendosi che se ne occuperà in un altro momento, seppur consapevole che mai lo farà, spostando lo sguardo sul giovane uomo che, contando abilmente quante porzioni di condimenti serviranno, sta curando più di una padella di fronte a lui.

Inui li guarda, con un’espressione seria e priva di reale emozione, muovendo il viso per spostarsi i ciuffi biondi al viso, fermando poi il fuoco dei vari fornelli e mescolando per l’ultima volta il cibo, rivolgendosi finalmente a loro.

“In questo momento sarei impegnato.”

Si contraddice nel dirlo, sciogliendosi il nodo del grembiule, sapendo perfettamente di non avere il potere, il ruolo e, soprattutto, la voglia di contraddire una persona più potente di lui, trovando anche una certa rassicurazione nel prendersi cura di Takashi, piuttosto che di inutile cibo, consapevole di non esserne davvero portato

“Lascia il tuo lavoro a qualcun altro.” Risponde immediatamente Wakasa, non sentendo ragioni: “Devi occuparti di Takashi. Il signor Mitsuya mi ha chiamato e non posso essere al suo fianco per il resto del pomeriggio. Ora è compito tuo.”

Inui sospira senza nascondere minimamente la noia che prova, ma, con professionalità e senza commenti ulteriori, si sfila il grembiule e i guanti, assicurandosi che i presenti notino il modo in cui sta abbandonando la sua posizione, occupandosi immediatamente del cibo abbandonato.

“Subito…”

Commenta con noia, riservando uno sguardo gentile e un accenno di sorriso a Takashi, che ricambia, assicurandogli che non prova davvero quel sentimento negativo nello stargli vicino, ma che è il lavoro, in generale, a renderlo così annoiato.

“Datti una sistemata, non farti vedere così ad affiancare Takashi.”

Lo sgrida Wakasa e Seishu annuisce, guardandosi il corpo con sguardo confuso, essendo il lavoro per cui viene pagato a ridurlo così, non avendone davvero colpe, limitandosi a stirarsi i pantaloni e l’uniforme con le mani, guardando poi il più grande rivolgersi a Mitsuya.

“Rimanete con lui finché non avrò concluso di aiutare vostro padre con gli ospiti, poi vi raggiungerò e potremo passare il resto della giornata insieme a fare ciò che più ritenete interessante.”

Mitsuya annuisce ubbidiente come sempre all’uomo che l’ha accudito e cresciuto per lunghi anni, che con un semplice inchino lo saluta e si dirige, velocemente, verso l’uscita delle cucine, diretto alla sala dove quell’uomo spaventoso che è il padre di Takashi lo aspetta, contando ogni singolo minuto e non ammettendo ritardo.

“Comprendo sia poco educato chiederlo, ma vi andrebbe di attendermi in camera mia mentre mi lavo? Se devo darmi una sistemata non basterà riordinarmi manualmente l’uniforme.”

“Non è necessario.” Assicura Takashi, fermandolo: “Non avete niente che non vada. State lavorando, è giusto che siate un minimo disordinato. Non fatevi questi problemi.”

“Non me li faccio, infatti.”

Risponde prontamente Inui, pulendosi infatti le mani della giacca, per poi passarsele tra di loro per sistemarsele ulteriormente.

“Wakasa però mi ha ordinato di farlo e io devo rispettare gli ordini.” Lo fissa negli occhi, con una tale serietà da far deglutire Takashi: “A meno che voi che non me ne diate altri. Se voi mi darete l’ordine di rimanere in questo modo, io vi ubbidirò.”

Mitsuya distoglie lo sguardo, incapace di reggere gli occhi freddi di Inui che lo mettono in soggezione da sempre, spaventandolo anche per via della cicatrice che gli circonda l’occhio sinistro, così misteriosa e, al contempo, così affascinante.

“No, io… Va bene così. Ascoltate Wakasa e sistematevi. Almeno potrò pensare a cosa fare più tardi.”

Inui sa benissimo che Takashi sta mentendo, che ha sicuramente già in mente come occuparsi il resto della giornata e ha solo troppa paura di mettersi contro Wakasa – fatto che non accadrebbe visti i loro ruoli asimmetrici –, ma non commenta la cosa, limitandosi ad alzare le spalle e indirizzarlo nella sua camera, offrendogli gentilmente il posto alla scrivania che ha.

“Impiegherò pochi minuti. Il tempo di riordinarmi. Più tardi mi laverò per bene, ora devo lavorare ancora diverse ore, è inutile che anticipi qualcosa.”

“Va bene. Aspetterò.”

Si limita a rispondergli nonostante, in cuor suo, non capisce perché debba sempre avere compagnia, perché sembra non poter mai stare da solo, ma sempre circondato da persone che lavorano per suo padre o, in quei rari momenti di libertà, dai suoi amici.

Sembra che non gli sia permessa la solitudine, che possa averla solo la sera chiuso nella sua stanza, dove il sonno è troppo forte, però, per consentirgli altre azioni in solitario.

È come se non vivesse mai. Sicuramente mai da solo. Privandosi di tante esperienze che, sicuramente, i suoi amici hanno già vissuto più volte.

Anche perché, d’altronde, ha passato così tanti anni aspettando che gli altri facessero, agissero, decidessero per lui e ormai è succube di quel modo di fare che sa bene non essere sano, ma nessuna decisione di suo padre lo è, all’uomo del suo bene interessa relativamente poco. Non abbassa quella barra ad un “niente” solo perché la sua vita permette entrate di soldi, ma se Mitsuya non fosse usato come ennesimo canale di guadagno, allora il suo ruolo in quel mondo sarebbe inutile.

Seduto alla scrivania di Inui, Mitsuya non prova assolutamente nulla, nessun sentimento di ribellione si fa spazio in lui e, allo stesso tempo, nessun sentimento di resa. È come se fosse spettatore di se stesso, così debole chiuso nella gabbia a quattro mura che è la sua mente, dentro la quale suo padre l’ha schiacciato al punto da togliergli il respiro e la libertà di pensiero. Subisce, riceve, patisce tutti gli stimoli esterni in totale silenzio, consapevole che non c’è modo di ribattere, di provarci, di tentare di affermarsi su qualcuno.

È un cane al guinzaglio, che ha smesso di lottare ancora prima di venire incatenato al suolo.

Il suo sguardo si muove pigramente, studiando velocemente la camera spoglia di Seishu, notando come sia estremamente vuota, anche gli scaffali lo sono, l’armadio, parzialmente aperto, rivela solo le uniformi da lavoro, come se non avesse interesse alcuno nel mondo esterno o nella sua figura in generale.

Pensa che non sia un brutto modo di vivere, il limitarsi, quello non imposto però, nulla che lui possa ambire: neanche quello andrebbe bene a suo padre.

Quando la sua attenzione torna sulla scrivania, si rende conto che di fronte a lui c’è un libro chiuso di arte. I suoi occhi guizzano e si illuminano a quella vista, pensando che, quello dell’arte, sia uno dei pochi reali interessi ancora vivi in lui, che suo padre non ha modo di spegnere. Legge il titolo e lo apre immediatamente quando si rende conto che è un intero libro inerente alla pittura cinese, una delle più interessanti a suo parere.

Scorre le pagine, lasciando che i suoi occhi si innamorino di quell’arte di cui non ne ha mai abbastanza, domandandosi com’è possibile che Seishu abbia un tale interesse e lui lo scopra solo in quel momento.

“Potete tenerlo, se desiderate.”

La voce dell’interessato gli arriva alle orecchie non appena finisce di formulare quel pensiero, girandosi di colpo colpevole come se non avesse il diritto di guardare quel libro.

“Mi dispiace, non…”

Inui sorride.

“Non vi sto sgridando. Ci mancherebbe.” Alza gli occhi al cielo divertito: “Dico sul serio: se vi interessa ve lo regalo. Non m’interessa tenere libri, probabilmente lo butterei se me lo lasciaste.”

“Non siete interessato all’arte?”

“L’arte?” Domanda confuso, come se quel tema non centrasse con il libro. “Non ho alcun interesse in elementi così futili. L’ho preso solo perché parlava della Cina. Mi affascina quanto poco siano interessati alle tragedie in termini di condivisione mediatica, ma siano così capaci di rappresentarla. Credo sia una cosa molto ipocrita.”

Commenta, agitando Mitsuya che non sa bene cosa rispondere. Lui protegge l’arte, la ama. È grato che suo padre abbia voluto decorarne diverse pareti con vari quadri, eppure non sa come ribattere. Lui ama l’arte, ma non conosce la storia, quindi gli dispiace che questa sia la realtà delle cose.

“Lo terrò volentieri…”

Si limita a rispondere, chiudendo il libro e sperando che Inui non gli chieda parere alcuno su ciò che ha detto. Ha pareri, ma ha sempre paura di sbagliare nel dirli, preferisce non avere questi confronti.

Fortunatamente per lui, Seishu non ha motivo di continuare quella discussione. Si sistema nuovamente la divisa, chiudendosela pigramente con i bottoni, riordinandosi poi i capelli e guardando Takashi.

“Cosa desiderate fare? Volete andare in biblioteca? Lì ci sono altri libri come quelli, immagino.”

“Sapete chi doveva ricevere mio padre?”

Domanda improvvisamente, ignorando ciò che il biondo ha detto.

“No.” La velocità con cui Seishu risponde basta a smascherarlo e, ignorando l’annuire di Takashi che ha capito che nulla saprà dalla bocca dell’uomo, decide, al contrario, di parlare: “So solo che sono degli uomini arrivati da oltreoceano. Portano provviste e guadagni fatti in mare, probabilmente pesce e pietre preziose. O forse sono qui per parlare della situazione con la Germania.

Non so altro.”

E tace, spostando lo sguardo con la sua classica noia, mordendosi l’interno delle guance per aver disubbidito ad una sorta di ordine secondo cui ciò che riguarda il padre di Takashi, non deve aver nulla a che fare con il figlio, a meno che non sia esplicitamente richiesto.

Gli occhi di Mitsuya i cui occhi si illuminano a sentire quella frase.

“Oltreoceano? Sono americani? Hanno viaggiato così tanto per arrivare da noi?” Seishu annuisce meccanicamente, pentendosi di aver parlato: “Vorrei conoscerli, avranno così tante storie da raccontare.”

Sorride Mitsuya al solo pensiero, emozionandosi così infantilmente per un qualcosa che si è sempre limitato a sognare e a vedere sulle cartine o sul grande mappamondo al centro della sua camera, leggendo le descrizioni su complessi libri o su articoli ritagliati da giornali dediti all’argomento.

“Il mare è un posto spaventoso. Meno si sa di quel mondo, meglio si vive. Io, ma anche Taiju, la penso in questo modo.”

Gli risponde Inui con una certa serietà, come se fosse un argomento a lui molto caro, fin troppo.

“Taiju è un viaggiatore del mare, lo sapete. Porta alla vostra famiglia molti doni, cibi e ricchezze che solo le acque sanno offrire. È molto intelligente e acculturato su ciò che le acque nascondono, quindi vi consiglio di fidarvi di lui. Sapete che ogni tanto continua a fare lunghi viaggi, ma ormai si limita a piccole tratte tra gli stati vicini, immagino che quel braccio parzialmente reciso e la cicatrice che gli copre metà petto lo abbiano convinto che il mare è troppo pericoloso.”

Deglutisce dopo quella lunga conversazione, sbattendo poi le palpebre, rendendosi conto di quanto abbia parlato, per poi guardare Mitsuya.

“Mi dispiace per questo tono, ma vi invito a non illudervi dietro ai racconti che sentirete legati all’oceano. L’acqua è insidiosa e non è mai come viene raccontata dai viaggiatori, accecati dalle novità e dalle aspettative troppo alte. Il mare non è un’esperienza piacevole, è fonte di guai e null’altro. Credetemi.”

Non aggiunge altro, capendo di aver parlato anche fin troppo, sistemandosi le maniche e cercando alcuni oggetti per pulire, pensando che lui è lì per quello e, quasi qualunque cosa deciderà Takashi di fare, dovrà farlo. Spera che Mitsuya lo ascolti e non faccia domanda: per lui il mare è sinonimo di dolore, qualcosa di così profondo e interno al suo cuore, da preferire non approfondirlo né affrontarlo. Meno ci pensa, meglio starà. È così da anni.

Mitsuya, al contrario, è triste all’udire quei discorsi. Sono verità che spesso gli vengono dette da chiunque, ma non c’è modo di abbatterlo. Sa e ha capito che il mare è un posto insidioso, ma è proprio questa sua realtà che attira la sua attenzione e la sua mente trepidante di scoprire e vivere nuove esperienze che diano finalmente una scossa alla sua vita.

“Voglio conoscere questi uomini.” Parla, rivolgendosi a Inui: “Dove li sta ricevendo mio padre?”

“Non può andare.” Lo blocca: “Suo padre non vuole che lei prenda parte ai suoi incontri, ne è consapevole.”

“Se io vi do l’ordine di portarmi da loro, voi dovete farlo, vero?”

Domanda Mitsuya, ripetendo ciò di cui hanno parlato poco prima e che ricorda spesso consigliargli da Wakasa consigliandogli, silenziosamente, di ribattere, di smettere di subire dal padre e basta.

“Dovrei, nel momento in cui non intacca gli affari di suo padre. Questo lo causerebbe, di conseguenza lei non può accedere all’incontro di suo padre.” Risponde con convinzione Inui, mantenendo i suoi occhi in quelli di Mitsuya: ”Mi dispiace, ma sono le regole che il signor Mitsuya desidera per lei e per noi. Non può far altro che rispettarle.”

Takashi tace, sentendosi in colpa per aver anche solo pensato di persuadere Inui con il potere che credeva di avere, ma che nulla può fare contro il padre.

Non dice più nulla, si alza, indicando ad Inui la porta, che gliela apre in automatico.

“Vuole andare in biblioteca o vuole mangiare qualcosa?”

Domanda Inui seguendolo ubbidientemente, cercando di non ritornare su quel discorso, ma temendo Mitsuya sia diretto verso la sala dove pensa di trovare il padre. Lui scuote la testa.

“Voglio andare in giardino, stendermi sotto un albero e rimanere lì finché mio padre non avrà finito di parlare con gli ospiti.”

“È una buona idea.”

E Inui ringrazia davvero quella decisione. Non vuole avere noia alcuna con delle possibili richieste di Takashi. Sarebbe felice di vederlo più ribelle, ma non vuole essere lui il primo ad averne a che fare.

 

Sotto l’albero dove si stende, Mitsuya allunga una mano con delicatezza, aspettando pazientemente che una farfalla gli si posi sopra, per ammirarle i colori. Ruota il dito osservando in tutta la sua interezza il piccolo animale, quasi trattenendo il respiro, incantato da quella bellezza.

Seishu, in piedi vicino a lui, pensa che Mitsuya sia così innocentemente meraviglioso, così a suo agio nella sua natura più tranquilla e così buono convivendo pacificamente con animali così puri come le farfalle. E si rende conto di quanto fortunato sia a potergli rimanere, seppur raramente, vicino, al punto da vederlo in questi attimi quotidiani e così sinceri.

“Questo è il nostro giardino principale, che si estende per numerosi metri e che ha, al suo interno, diverse specie di piante e campi curati, che permettono l’autosostentamento di cibo in periodi più difficili, ad esempio questo. Non è il periodo migliore per spendere, mi capisce, immagino.”

La risata del padre di Mitsuya è abbastanza per farlo irrigidire e far volare via il piccolo animale, obbligandolo a mettersi seduto, guardando l’uomo, in compagnia di un’altra figura che, immagina, sia uno dei tanti attesi ospiti.

“Immagina male. Noi proveniamo dal mare, se lo ricorda? I campi non li coltiviamo, abbiamo altre strategie molto più efficaci di un semplice campo. La invito ad ascoltarmi meglio se desidera un mio supporto, perché questo tono non si addice ad un uomo di potere come lei, non usi la gentilezza per cercare la mia alleanza. Otterrà il risultato opposto.”

Vede sorridere l’uomo che, esteticamente, non può superare di molto la sua età, guardarsi intorno e analizzare il luogo, osservando ogni albero, fino a portare lo sguardo su di lui, sorridendogli apparentemente gentile per poi tornare con gli occhi sul padre, indicandolo.

“Quindi è così che si lavora in questo posto? Oziando? Voi persone di terra avete dimenticato le basi del controllo o è il mio metodo a essere troppo funzionale per voi?“

Inui si gira immediatamente verso lo sconosciuto, ma Mitsuya lo ferma, poiché è il padre ad anticiparlo.

“Quell’uomo è il mio primogenito. Dovrebbe essere in camera a studiare, ma ogni tanto gli piace prendere delle pause e passeggiare in questi prati verdi, è uno spettacolo affascinante per una persona che vive qua da molto, mi auguro sia lo stesso per dei visitatori casuali.”

“Nulla che non abbia mai visto.” Sbuffa l’altro, passandosi con noia la mano tra i capelli chiari, grigi e sciolti al vento, non smettendo però di guardare incuriosito Takashi: “È molto giovane vostro figlio, ha almeno la maggior età?”

“Takashi tra pochi mesi compirà ventidue anni. Appena avrò la possibilità cederò a lui il mio posto.”

“Il suo posto da ricco consigliere con una buona fortuna? Mi auguro che ne sia all’altezza anche a livello mentale. Sembra molto gracilino. Ha la stessa età di alcuni dei miei uomini. Potrebbero fare amicizia.” E fa una pausa di riflessione sfiorandosi le labbra con le lunghe dita, guardando negli occhi Mitsuya e facendogli provare uno strano brivido sulla schiena, per poi girarsi verso l’entrata: “Lascerò ai miei uomini la libertà di girare per la sua villa, così da dare a noi il tempo di parlare di affari, sa cosa intendo signor Mitsuya, giusto?”

Domanda retorico, appoggiando una mano sulla schiena dell’uomo che quasi sussulta annuendo:

“Sì, certo signor Kurokawa.”

Dopo quella frase i due rientrano e lo sconosciuto, prima che le porte si chiudano, lancia nuovamente un’ultima occhiata incuriosita a Mitsuya che, seduto sull’erba, non riesce a dimenticare quegli occhi così particolari.

“Ne siete rimasto affascinato?”

Gli domanda Seishu, distraendolo da quel pensiero ancora fermo sul viso dell’uomo.

“No… Aveva solo uno sguardo magnetico, non trovate? Mi sono sembrati due occhi così vissuti.”

“Immagino che vivendo per gli oceani ne abbia sviluppata di esperienza.” Parla ovvio Inui: “Chissà quante catastrofi hanno visto?”

“Pensate?”

Il biondo alza le spalle.

“Immagino che qualche nave sarà bruciata durante i suoi viaggi, ma mi auguro anche abbia visto altrettanti terre positive. Non desidero in alcun modo augurargli il male.”

Mitsuya annuisce, non ascoltandolo più così tanto e non desiderando neanche rimanere più su quel prato, ricordandosi di come quell’uomo abbia raccontato a suo padre che i suoi uomini rimarranno nella loro villa a curiosare. Questa speranza di vederli lo fa alzare immediatamente, sotto lo sguardo di Seishu, interrogativo sul da farsi.

“Inui.”

“Mi dica.”

“Ho intenzione di rientrare e vedere i quadri del corridoio della mia camera e dell’atrio principale.”

È un messaggio in codice per Seishu e ha imparato a capirlo nel vedere Wakasa comprenderlo. Annuisce: Takashi vuole essere lasciato solo.

“Rimarrò ugualmente nelle vicinanze se doveste aver bisogno.” Ci tiene ad assicuragli, non volendo venire a meno delle sue responsabilità, annoiato da una possibile reazione di Wakasa: “Vi prego di non allontanarvi dai luoghi che avete detto.”

“Non lo farò. Non scappo mai dall’arte.”

Gli sorride Mitsuya, rientrando e camminando con passo sicuro verso la sua meta. Ha ragione: non ha ragione di fuggire da una delle poche cose che gli causa sensazioni positive e idea alcuna di soffocamento. Non c’è modo che lui possa scappare. Può solo incamminarsi verso ciò che riesce ad unire due dei suoi desideri proibiti a cui tiene di più: l’eternità dell’arte e l’infinità delle acque.

La sua mente non sa stare ferma. Pensa al mare. Ogni suo pensiero torna sempre lì, alle spiagge dorate, ai paesaggi infiniti, alla linea di acqua che si incontra con il cielo. Non riesce ad uscirne: è incantato al pensiero dell’acqua, del mare, degli oceani, della limpidezza e della profondità dei fondali.

Vuole vedere il mare, vuole nuotare nell’oceano, vuole perdersi in mezzo a quelle onde e non riemergere mai più, lontano dalle responsabilità e dal peso di dover dimostrare a tutti di essere all’altezza delle loro aspettative.

Sa che non può fuggire, che la sua famiglia è quella e in quella deve rimanere, ma, egoisticamente, tra un sogno lucido e una realtà deludente, si concede quei momenti di speranza nell’arte, dove la sua mente si abbandona a sogni irraggiungibili e a posti remoti che vorrebbe conoscere e scoprire e di cui potersi innamorare.

E se i libri e le cartine non dovessero bastare, Mitsuya riesce a ritrovare il mare nei quadri che i suoi genitori hanno appeso in ogni corridoio e in ogni stanza. Alcuni non hanno l’acqua, sono posti chiusi, in trappola, costretti in pochi metri come sa di essere lui, ma altri… Altri sono disegnati sul bordo di un fiume o di un corso d’acqua, come uno de suoi preferiti l’“Un dimanche après-midi à l'Île de la Grande Jatte”, appeso nel corridoio fuori dalla sua camera e che si perde ad ammirare ogni singolo giorno quando esce, quando entra, quando ci passa davanti. Sogna di essere tra quelle persone, in un paesaggio così pacifico e invitante dove vorrebbe vivere, sul bordo di un corso d’acqua, con i piedi a mollo e la mente libera da ogni peso che la sua vita gli forza sulle spalle.

Oppure “Le Radeau de la Méduse” così drammatico e così intenso, perché Takashi ama anche il mare in burrasca, che conquista gli uomini nel modo peggiore che esista: uccidendoli; ma, d’altronde, è meglio che lo faccia la natura che loro con le loro stesse mani, come sta accadendo e come sente accadrà a breve, perché Hitler è peggio di un mare in tempesta e non ha motivo morale di fare ciò che fa, mentre le onde, semplicemente, seguono il corso naturale delle cose, e va bene così, nessuno può fare nulla per evitarlo.

Nessun suo pensiero negativo può però resistere di fronte all’arte che trasmette il "Paysage marin près des Saintes-Maries-de-la-Mer”, dipinto da Van Gogh, che svetta imponente nella sala principale dove Takashi stesso ha insistito perché venisse messo. Un mare mosso e quelle piccole navi così deboli che cercano di sopravviverci senza lottare.

È tutto così equilibrato, tutto così naturale e così piacevole alla vista che per Takashi è sempre come vederlo per la prima volta, chiudendo gli occhi e immaginando il rumore delle onde, augurandosi che siano simili al rumore nell’acqua nella sua vasca da bagno, forse solo amplificate, con un suono più deciso, meno studiato e perfetto, ma costante, e che muta al cambiare del vento e causando sempre lo stesso stupore della prima volta.

 

“< Così come in algebra due affermazioni false ne danno una vera, così spero che il prodotto dei miei insuccessi si concluda con un successo. >, lo affermava Van Gogh, un artista così particolare, così triste e solo, folle e a tratti depresso. Una persona sconfitta da se stessa e così interessante, i cui quadri rimarranno a noi per l’eternità, non lo trovi affascinante?“

Mitsuya si blocca a quella voce sconosciuta, girandosi verso uno degli accessi del salone, trovando un uomo a fissarlo con un sorriso gentile. I lunghi capelli biondi e a tratti neri, raccolti in una coda alta, circondando un viso che mostra un’espressione serena, mentre le mani elegantemente nascoste dietro la schiena, tradiscono la posizione sicura e ferma che mantiene, rendendola quasi infantile.

“Chi siete?”

Domanda spaesato, decisamente non pronto a venire interrotto in quel momento per lui così tanto intimo da voler sempre venire lasciato solo. Gli occhi dell’altro sembrano sorridere più delle sue labbra, mentre lo osservano divertiti con quelle iridi chiare, di un colore quasi irreale e con una forma così particolare.

“Un viaggiatore libero, amante del mare e delle onde…” E si inchina con una serietà che Mitsuya comprende non gli appartenga, preferendo l’illusione che crea: “Al tuo servizio, Takashi Mitsuya.”

Takashi è bloccato, ma mantiene la calma. È evidente che l’uomo non abbia cattive intenzioni, anzi, il passo tranquillo con cui si avvicina lo fa apparire come se lo conoscesse da sempre, ma quell’infrazione del suo spazio personale lo costringe ad arretrare, rimettendo distanza tra loro.

“Non essere così rigido, Takashi. Non sono un tedesco sotto la guida di Hitler, non oserei mai essere ancora in vita se dovessi seguire una persona tanto maledetta. Gli amanti del mare non odiano i propri simili, preferiscono allontanarsi; ambire e cercare la libertà in solitario o in compagnia di altri umani con la stessa mente. Per quello la nostra terra ci ha offerto distese d’acqua infinite. Non lo trovi così gentile da parte sua? Dar a tutti la possibilità di vivere sereni e scappare quando se ne sente la necessità.”

“Voi arrivate dal mare?”

“Io arrivo da ovunque tu voglia che io arrivi.” Lo guarda con un sorriso educato, mentre cantilena quelle parole, ma Mitsuya non capisce la complessità di quella frase: “Sono nato tra le onde dell’oceano, ma i miei piedi sono stati tanto abituati a quello che probabilmente tu chiami l’”oltreoceano”.”

Takashi sbarra gli occhi, realizzando.

“Voi siete americano? Uno degli ospiti di mio padre?”

“Vedo che hai capito.” Ridacchia, tornando dritto sulla schiena e passandosi le mani tra i capelli, lasciando che si sciolgano lungo la schiena e sul suo viso: “Mi auguro che un viaggiatore del mare come me, possa trovare sicurezza su un terreno sconosciuto, e che tu possa aiutarlo il più possibile a non sentirsi un pesce fuor d’acqua.”

   
 
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