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Autore: AveAtqueVale    10/04/2023    2 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Pronunciare quelle parole ad alta voce lo lasciò senza fiato.
Lasciar uscire quella confessione dopo anni di ostinato silenzio, fu al contempo terrificante e liberatorio.
Gli parve di non avere aria e di poter finalmente tornare a respirare al tempo stesso.
Sentiva il cuore nel suo petto contrarsi dolorosamente ad ogni suo tentativo di inspirare e ben presto si ritrovò a boccheggiare a corto d’ossigeno.
I singhiozzi iniziarono a smuovere le sue spalle mentre le lacrime che dapprima avevano preso a scorrere lente sul suo viso presero a fuoriuscire rapide, fiumi salati che rigavano le sue guance pallide.
Alec non si era mai sentito così distrutto come in quel momento.
Era come se un martello avesse colpito il punto esatto da cui mille crepe avevano preso a diramarsi lungo il suo corpo, appena sotto pelle, mandandolo in frantumi. Una lastra di vetro trasparente ridotta a nulla più che milioni di granelli di polvere tagliente.
Per la prima volta il dolore lo travolse in tutta la sua forza.
Il ragazzo si sentì travolgere dalla piena potenza di uno tsunami inarrestabile mentre i ricordi affioravano dolorosamente nella sua mente. Tutti i sentimenti e le emozioni che si era sforzato di non provare in quegli anni, esplosero adesso dentro di lui annientandolo.
Rannicchiato su se stesso, con le mani a stringersi fra i capelli proprio sopra la sua fronte, cercava disperatamente di respirare attraverso i singulti. L’aria faticava a raggiungere i suoi polmoni, il suo addome si contraeva nello sforzo in spasmi dolorosi.
La sua voce usciva strozzata in gemiti acuti, lamenti strazianti.
Il suo fratellino era morto.
Il suo fratellino sempre sorridente.
Il suo fratellino troppo intelligente.
Il suo fratellino che amava gli anime e i manga e sapeva usare il cellulare meglio di quanto avesse mai saputo fare lui.
Il pensiero gli era semplicemente intollerabile.
Dopo pochi respiri spezzati, Alec esplose in un pianto struggente. I lamenti che fino a quel momento aveva cercato di trattenere, che non era riuscito ad emettere a causa della mancanza d’aria, trovarono sfogo in un gemito grave, roco, graffiante. Un verso cupo e baritonale che si fece strada dal centro del suo essere risalendo lungo la gola ed uscendo poi cupo e straziante. Ogni difesa, ogni barriera era finalmente crollata lasciandolo totalmente inerme contro l’ondata di dolore che lo stava attraversando.
Annaspando, pianse disperato ignorando il dolore pulsante al viso, troppo insignificante e misero rispetto a quello ben più intenso e penetrante nel suo petto.
Si abbandonò totalmente alla sua sofferenza, troppo stanco per cercare ancora di arginarla dentro di sé. Per troppo tempo aveva tentato di domarla, per troppo tempo aveva provato a superarla senza sapere di star solo fuggendo da essa.
Adesso, però, era finita.
Non aveva più modo di scappare, non c’era luogo dove rifugiarsi.
Era stato raggiunto e avvolto dalle gelide dita della sua colpa.
Le sentiva prenderlo ad artigliate, mutilarlo, strappando ad ogni colpo un pezzo di sé.
Si arrese al loro gioco lasciando che facessero di lui quanto volevano, che lo smembrassero fino a che di Alexander Lightwood non fossero rimasti che minuscoli coriandoli.
E poi.
Qualcosa cambiò. Il freddo, il gelo di quel dolore venne come coperto da un calore gentile. Aprendo confusamente gli occhi velati di lacrime, Alec vide Magnus stringerlo fra le proprie braccia. Sentì le sue dita attente carezzare piano i suoi capelli scomposti, il suo profumo riempirgli i polmoni e la sua voce sussurrare dolci nonnulla al suo orecchio.
Senza che se ne fosse reso conto, l’altro gli si era fatto vicino e se l’era gentilmente portato al petto, avvolgendolo con le sue braccia in un gesto cauto e deciso al tempo stesso.
Non c’era esitazione nei suoi movimenti, non c’era incertezza.
Magnus era lì, stabile e tangibile sotto le sue dita.
La sua pelle era calda contro la sua, il suo tono confortante mentre cullava il suo pianto con piccole rassicurazioni.
Alec si ritrovò immobile fra le sue braccia, con il viso poggiato sulla sua spalla e le mani dell’altro a tenerlo stretto: una sulla schiena, l’altra dietro il capo.
Sentendo qualcosa sciogliersi in fondo al suo petto, Alec non riuscì a far altro che arrendersi a quel gesto. Richiudendo gli occhi, sentì nuove lacrime scorrere brucianti lungo il suo viso mentre, sfinito, si abbandonava a quella stretta. Poggiò la fronte contro la spalla dell’altro e, senza quasi rendersene conto, sollevò le mani per aggrapparsi con forza alle sue braccia mentre la sua voce andava infrangendosi contro il corpo dello psicologo. Strinse fra le dita il tessuto dei suoi abiti, poteva sentire sotto i palmi la compattezza dei suoi muscoli, un appiglio sicuro e stabile cui reggersi in quella tempesta, e soffocò le proprie urla e il proprio dolore contro il suo petto.
«Io non volevo!» guaì con voce strozzata, distaccandosi appena dalla spalla dell’uomo. «N-non volevo fargli del m-male, non volevo…» continuava a ripetere liberando la straziante confessione che per anni aveva tenuto sotto chiave dentro sé.
 
*

Ogni parola era una fitta al cuore di Magnus.
Sentire la voce acuta e disperata del ragazzo era una tortura ma sapeva di non potersi permettere di mostrare alcun tipo di sofferenza in quel momento.
Doveva essere forte per lui, doveva essere stabile per potergli impedire di crollare.
No. Meglio. Per farlo crollare in sicurezza.
Dopotutto, per tutto quel tempo, Alexander era stato crepato.
Aveva cercato di rattoppare le ferite del suo animo in tutti i modi senza mai davvero tentare di osservarle, di realizzare l’entità del danno. Si era tenuto a distanza, troppo terrorizzato dall’idea di dare uno sguardo reale alla situazione.
Aveva ignorato il proprio dolore, camminando giorno dopo giorno con la lama ancora conficcata nel taglio impedendogli di chiudersi, continuando a tenerlo aperto, quasi in un costante promemoria della sua “colpa”. Voleva medicare le crepe che si diramavano da quel foro come se riempirle avesse potuto tenerlo integro, ignorando il modo in cui ogni passo compiuto con l’arma ancora infissa nel suo corpo non faceva altro che generare nuove e nuove increspature.
Adesso che finalmente il coltello era venuto fuori, però, la ferita era a tutti gli effetti esposta.
Profonda, infetta, dolorosa.
Viva.
E pronta a guarire.
Adesso Alexander poteva crollare finalmente a pezzi e ricostruirsi davvero, senza toppe, senza cerotti. Da zero. Nuovo.
Inspirando dalle narici, Magnus gonfiò il petto d’aria e quindi si distaccò leggermente dal ragazzo per andare ad avvolgere la sua guancia sinistra con il proprio palmo.
«Certo che non volevi, Alexander.» gli disse con voce gentile ma ferma, guardandolo nei suoi grandi occhi azzurri con decisione. «Volevi bene al tuo fratellino, non gli avresti mai fatto del male. Lo so io, lo sai tu e lo sapeva anche lui.»
Come previsto, a quelle parole, il pianto del giovane si acuì strappandogli alcuni gemiti strozzati. Magnus cercò di non farsi impietosire dalla scena, di ignorare il dolore che quel suono causava nel suo petto. Con un po’ più di pressione sul suo volto, lo costrinse ad osservarlo, a guardare i suoi occhi fermi e sicuri.
«Non aveva paura di te. Non stava scappando da te. Per lui era un gioco.» Cercava di essere razionale, chiaro e logico. Cercava di respingere le colpe che la sua mente continuava ad affibbiarsi con poche parole semplici e concetti inattaccabili.
«Non è quello che ha visto ad averlo fatto cadere.»
Alexander sussultò visibilmente a quelle parole, un singhiozzo gli portò via il fiato.
«Sarebbe potuto succedere anche mentre giocava con tua sorella o con Jace. Avrebbe potuto mettersi a correre per arrivare primo in cucina o per giocare a nascondino. Avrebbe potuto inciampare in una scarpa slacciata o mettendo male il piede: è stato un incidente.» continuò Magnus con voce seria, carezzando lentamente il viso dell’altro con lenti movimenti del pollice. «So che nella tua testa continuerai a negare tutto questo. Che tutte queste sono ipotesi che avrebbero potuto anche non accadere, mentre quello che è successo è successo davvero, ma devi cercare di ascoltarmi, Alexander.»
Questa volta il suo tono si fece più morbido, la sua voce più carezzevole mentre deglutiva nervosamente sotto i suoi occhi.
«Datti questa possibilità, il beneficio del dubbio. Prova a considerare l’idea che forse quel che ha visto non è determinante ai fini di quel che è accaduto.»
Poteva chiaramente leggere negli occhi del ragazzo il rifiuto, la difficoltà di accettare quella richiesta, l’impossibilità di lasciar andare la colpa cui si era aggrappato per tutti quegli anni. Poteva vedere nel suo sguardo il bisogno di credere di essere stato responsabile di quella tragedia, per dare in qualche modo un senso alla morte del bambino. Cosa avrebbe significato, altrimenti? Che era semplicemente caduto? Così? Senza una ragione? Forse l’idea di aver visto morire il suo fratellino per un motivo tanto sciocco e privo di senso, era ancora più atroce del sentirsi direttamente responsabile della sua morte. Era come se darsi la colpa del fatto desse automaticamente un qualche tipo di valore alla sua dipartita. Se avesse scelto di liberarsi di quel fardello, cosa sarebbe rimasto di quel momento?
«No. No, non posso, io…» iniziò a mormorare, ostinato, scuotendo il capo da una parte all’altra.
Magnus allora strinse i denti e, poggiando anche l’altro palmo sulla guancia libera del ragazzo, afferrò il suo viso fra le mani.
«Non è colpa tua.» disse, deciso, quasi rimproverandolo.
Alexander sussultò come se fosse stato schiaffeggiato.
«No… No, smettila, so quello che è successo, io–»
Cercava di sottrarsi alla stretta dello psicologo, ma Magnus non gli permise di sfilare il viso dalla sua presa.
«Non è colpa tua.» ripeté inflessibile.
Alexander cercò ancora di sfuggirgli. «Smettila!»
Ma Magnus non aveva intenzione di arrendersi. «Non è colpa tua.» continuò.
Il ragazzo versò nuove lacrime mentre annaspando cercava di togliersi le mani di Magnus di dosso.
«No, no…»
La sua era una resistenza sfinita, esausta, più simile all’infantile rifiuto di qualcosa di orribile che al disperato desiderio di opporsi a qualcosa di sbagliato o spaventoso.
Magnus ne era al tempo stesso intenerito e afflitto.
«Non è colpa tua. Non è colpa tua, non è colpa tua, non è colpa tua.» ripeté una, due, tre, quattro volte prima di poggiare debolmente la fronte contro quella del giovane. Alexander ormai si era spento in un pianto stanco, incapace di opporsi ulteriormente alle parole dell’altro. Tirando su col naso chiuse gli occhi a quel contatto, aggrappandosi di nuovo alle braccia di Magnus. Questa volta, però, non c’era forza nelle sue dita.
Contrariamente a come aveva fatto poco prima, non stava cercando di appigliarsi a lui per rimanere a galla, per sentire sotto le mani qualcosa di solido e stabile cui potersi reggere per non sprofondare.
Questa volta era un tocco leggero, gentile, che fece tremare il respiro dello psicologo.
Alexander dovette accorgersi di quel fremito, doveva aver sentito il suo fiato vibrante sulla pelle, perché proprio in quel momento aprì lentamente gli occhi rivelando uno sguardo altrettanto turbato. Vulnerabile.
Magnus poteva vedere la sua espressione spenta e vuota venir distorta per un istante da una scintilla di timidezza. Come se per un momento soltanto la vita avesse trovato la sua strada in mezzo alla morte, un fiore selvatico che trovava la forza di sbocciare attraverso la crepa frastagliata di una strada di cemento.
Fu la consapevolezza di un secondo.
Magnus sapeva cosa stava succedendo, cosa quell’unico sguardo significasse.
E doveva fermarlo.
Doveva impedirlo.
Alexander non era in sé. Non era lucido, era ferito e probabilmente sotto shock.
Magnus al contrario era la parte forte fra i due e doveva assicurarsi di proteggerlo. Di proteggere i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua dignità. Non voleva che quel momento di difficoltà lo spingesse a compiere un gesto di cui avrebbe potuto pentirsi l’indomani, un gesto che avrebbe anche potuto portarlo ad odiarlo, per di più.
Andò quindi a lasciar andare la presa sul suo viso e scostare la fronte dalla sua, pronto a voltarsi per guadagnare un momento di lucidità lontano dai suoi occhi lucidi, dal suo sguardo distrutto.
Non avrebbe mai previsto quel che sarebbe successo a quel punto.
La mano di Alexander corse a poggiarsi sul suo volto per girarlo rapidamente verso di sé. Preso totalmente alla sprovvista e non avendo mai realmente sollevato barriere o difese nei riguardi del ragazzo, Magnus non si oppose minimamente al gesto, ritrovandosi quindi a quel punto col sentire le labbra umide del giovane posarsi sulle proprie.
Fu un bacio rapido, impacciato, incredibilmente incerto.
Alexander si era lanciato in avanti per apporre la sua bocca su quella dell’altro, quasi in un gesto istintivo. Magnus poteva sentire la tensione del suo corpo, la sua mano nervosa sul viso, le sue labbra rigide mentre aveva al contempo paura di schiuderle e di allontanarle. Si era teneramente lanciato senza sapere bene come muoversi, guidato forse dal primitivo bisogno di non essere solo–e forse dall’innocente infatuazione che col tempo era cresciuta con lui.
Lo psicologo avrebbe voluto sorridere, labbra contro labbra, profondamente intenerito da quella scena prima di prendere l’iniziativa e aiutarlo a sciogliere l’incertezza di quella situazione ma, alla fine, optò per distaccarsi dolcemente da quel contatto.
«M-mi dispiace, io…» Alexander iniziò immediatamente a balbettare, le sue guance avvamparono mentre nuove lacrime affioravano dai suoi occhi. Era chiaro che al dolore del momento si era adesso mescolata l’umiliazione.
Magnus gli sorrise con gentilezza, accarezzandogli il viso.
«Non devi scusarti. Va tutto bene.» ci tenne a chiarire subito, con voce calma, guardandolo negli occhi. «Ma non penso che tu voglia davvero affrontare questa questione in questo momento, non è così?» il suo tono era chiaramente premuroso, persino quasi provocatorio mentre cercava di strappare un sorriso all’altro ragazzo.
Alexander arrossì ancor di più alle sue parole, ma dal modo in cui abbassò lo sguardo Magnus poté capire che era meno teso di prima. Senza dire una parola si limitò ad annuire, nascondendosi dalle occhiate dello psicologo.
Sembrava che finalmente la situazione avesse trovato una qualche stabilità. Magnus sentì il peso di quella giornata gravargli sulle spalle, facendolo sentire a pezzi. Espirando rumorosamente si alzò in piedi e, allungando una mano verso Alexander, lo invitò ad alzarsi.
«Vieni, è meglio se resti qui stanotte. Vedrai che dopo una buona nottata di sonno ti sentirai meglio.» gli disse con tono calmo, accomodante, sentendo la mano dell’altro afferrare la propria senza proteste.
Alexander era troppo stanco e vuoto per sentirsi a disagio, poteva vederlo chiaramente nel suo annuire spento del capo. Sopprimendo l’istinto di abbracciarlo, Magnus lo guidò fino alla propria camera dove Presidente Meow lo stava aspettando acciambellato ai piedi del suo letto.
Lasciando andare la mano del ragazzo, Magnus recuperò da un cassetto una vecchia maglia nera a maniche corte ed un paio di pantaloni da tuta che non metteva da anni -troppo sobri per i suoi gusti-, porgendoli poi al giovane ancora fermo sulla soglia della stanza.
«Puoi mettere questi per dormire. Ovviamente se vuoi puoi farti una doccia prima. Insomma, fai come fossi a casa tua. Io sarò di là sul divano se hai bisogno di qualsiasi cosa.» gli disse tranquillo, tenendo le labbra distese in un sorriso affabile mentre Alexander afferrava i vestiti che gli venivano porti.
«Uhm…» Un verso confuso uscì soffocato dalla sua gola portando Magnus a bloccarsi sul posto, fissandolo con la testa leggermente inclinata verso la spalla con espressione interrogativa. Non disse nulla, non voleva mettergli fretta, lasciandogli tutto il tempo di decidere se dirgli qualcosa o meno.
Alexander sembrò effettivamente combattuto per qualche istante, prima di iniziare a rigirarsi nervosamente i vestiti puliti fra le mani arrotolandoli e rilasciandoli.
«…P-possiamo dormire insieme?» chiese con un soffio di voce tenendo lo sguardo basso, prima di rendersi conto di cosa forse quelle parole avrebbero potuto far intendere. Avvampando sollevò il capo scuotendo agitato le mani davanti a sé. «NO! Cioè, non intendo! Oddio, no, non volevo dire– » iniziò a balbettare prima che Magnus andasse a posare l’indice destro sulle sue labbra per impedirgli di aggiungere altro.
«Alexander» gli sorrise divertito. «Non preoccuparti. Ho capito cosa intendi.» lo rassicurò per prima cosa prima di abbassare la mano e farla ricadere lungo il corpo. «E certo, se per te va bene.»
Il ragazzo lo guardò negli occhi per un solo istante prima di annuire deciso un paio di volte. Nessuna esitazione questa volta. Decisamente non tollerava l’idea di rimanere da solo in quel momento. Magnus poteva capirlo.
Così, sorridendogli, recuperò il proprio pigiama e lasciò Alexander libero di cambiarsi nella sua stanza. Lui, dal canto proprio, andò a chiudersi in bagno dove, dopo una rapidissima doccia, avviò il suo rituale di bellezza serale.
Non voleva lasciare il ragazzo da solo, ma aveva bisogno anche lui di qualche momento per riprendersi dagli eventi di quella giornata. Soprattutto, di togliersi di dosso il trucco dal viso e i suoi abiti troppo attillati per dormirci dentro.
Si asciugò i capelli rapidamente e quindi deterse il volto con cura e si lavò i denti. Messa la crema viso per la notte indossò il suo pigiama di seta giallo e infilò le sue morbidissime pantofole di pelo rosa. Giunse in camera quarantadue minuti più tardi, trovando Alexander ancora perfettamente sveglio, seduto sul bordo del letto con il suo pigiama d’emergenza addosso ed il cellulare fra le mani.
«Non prendere freddo, mettiti sotto le coperte» disse Magnus sfilandosi dalle mani i numerosi anelli per riporli nel portagioie sul comò sotto lo specchio.
Alexander si voltò a guardarlo e, superata la sorpresa per la sgargiante mise notturna dell’altro, si infilò nel letto poggiando il telefono sul comodino.
«Ho scritto a Jace. Continuava a chiamarmi e non gli avevo ancora risposto…» spiegò col viso arrossato dal recente pianto, gli occhi rossi e gonfi per le lacrime versate, il naso che iniziava già a mostrare i primi segni di tumefazione dove era stato colpito.
«Hai fatto bene. Si sarà preoccupato molto.»
Alexander annuì colpevole.
«Ma non è una tua responsabilità. Tutti abbiamo bisogno di fuggire qualche volta. La cosa importante è che tu lo abbia rassicurato e che gli abbia detto che sei al sicuro.»
Il ragazzo annuì un’altra volta, un po’ più convinto.
Solo a quel punto Magnus andò quindi a raggiungere il giovane, infilandosi a sua volta sotto le lenzuola. Non poteva negare di sentirsi piuttosto stranito all’idea di avere Alexander accanto, lì, nel suo letto, eppure era anche contento all’idea di saperlo vicino nel suo momento di maggiore vulnerabilità. Voleva esserci per lui, assisterlo in caso di bisogno, fungere da sostegno e supporto.
Si sistemarono entrambi sotto le coperte.
Erano evidentemente nervosi, tesi e a disagio. Magnus si umettò nervosamente le labbra e quindi allungò un braccio verso il comodino alla sua destra.
«Beh, allora–buonanotte» disse schiarendosi piano la voce.
«Buonanotte»
Spegnendo la luce dell’abat-jour, Magnus portò il braccio a piegarsi dietro la sua testa osservando il soffitto. Deglutendo ripercorse piano gli avvenimenti delle ultime ore pensando a quanti passi erano stati compiuti in così poco tempo. Alexander aveva affrontato un vero e proprio demone quel giorno e Magnus era fiero di lui. Sapeva però che ora più che mai aveva bisogno di una guida, di qualcuno che lo aiutasse a metabolizzare il cammino percorso quella sera perché non andasse sprecato e lui ci sarebbe stato. Lo avrebbe accompagnato lungo tutto il tragitto, mano nella mano se fosse servito, dandogli tutto l’aiuto di cui avesse avuto bisogno.
Inspirando voltò il viso verso il ragazzo.
Alexander si era addormentato all’istante, rannicchiato in posizione fetale, avvolto dalle coperte dorate. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo regolare, il suo respiro usciva pieno e ben udibile dalle labbra schiuse: il suo naso doveva essere ancora leggermente chiuso per via del lungo pianto.
Così raggomitolato su se stesso appariva piccolo e vulnerabile, stringendo il cuore dello psicologo.
Osservandolo, Magnus si distese sul fianco, con un braccio piegato sotto il viso, e allungò una mano per scostare un ciuffo scuro di capelli dagli occhi del giovane. Un sorriso triste, malinconico, increspò le sue labbra carnose portandolo a ritrarre cautamente la mano dal suo capo: non voleva rischiare di svegliarlo, non ora che forse avrebbe trovato un po’ di pace nell’inconsistenza dei suoi sogni. Rimase però a guardarlo, in silenzio, perdendosi nel ritmo regolare del suo respiro. Sentiva i propri occhi farsi man mano più pesanti, la stanchezza piombargli addosso ad ogni fiato rilasciato dalle labbra dell’altro, il suo cuore calmarsi via via che la tensione lasciava la presa sulle sue membra.
Alexander era lì, al suo fianco.
Alexander era di nuovo nella sua vita, al sicuro.
Alexander lo aveva baciato.
Il pensiero sfarfallò brevemente nella sua mente già parzialmente ottenebrata dal sonno, strappandogli un sorriso innocente e fiacco.
Magnus si addormentò così, al ritmo dei respiri di Alexander e col ricordo delle sue labbra incerte che cercavano le proprie.
   
 
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